Con il passare degli anni, i videogiochi hanno alzato l'asticella sotto tutti i punti di vista. Il progresso tecnico e di gameplay è tangibile, ma la trasformazione più sottile e al contempo più evidente riguarda le storie. Dalla semplicità di un idraulico che salva una principessa prigioniera alle articolate sceneggiature di oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, con titoli come The Last of Us Parte 1 che hanno spinto al massimo lo storytelling e l'importanza di uno script.
Proprio l'opera di Naughty Dog, uscita nel 2013 su PS3, poi su PS4 in forma rimasterizzata e ora sbarcata su PS5 con un remake, è uno degli esempi più prepotenti di questa evoluzione. Andiamo quindi a vedere quali sono i 5 motivi che hanno reso The Last of Us Parte 1 un cult che ci ha cambiato la vita.
Perché è un viaggio
Da che mondo è mondo, da quando si raccontano le storie, per raggiungere la sua meta ogni personaggio deve passare attraverso un viaggio, sia esso interiore o lastricato di chilometri d'asfalto. Il viaggio è l'allegoria di quel percorso che i nostri eroi compiono per giungere alla luce, a una condizione di cui erano privi all'inizio del tragitto e che può rappresentare per loro una sorta di salvezza.
In questo senso, l'avventura diretta e sceneggiata da Neil Druckmann fonde alla perfezione l'aspetto on the road con quello illuminante di una nuova consapevolezza acquisita da Joel al termine della sua missione. Nel corso dell'odissea che lo vede scortare la piccola Ellie da Boston fino a Salt Lake City, l'animo prosciugato del burbero contrabbandiere mostra via via delle crepe, viene scalfito e intaccato, fino a mostrare quel nucleo rimasto troppo a lungo coperto da una scorza forgiata da una vita dolorosa.
Ogni metro percorso, ogni abominio ucciso sulla strada, ogni spanna che lo ha diviso dalla morte, per Joel è un passo verso un'epifania che fa di lui un uomo rinnovato, e che finalmente ritrova in quella ragazzina così diversa da sua figlia Sarah una ragione per cui rischiare tutto. E per cui vivere.
Perché racconta una rinascita
Concentrandoci ancora su Joel, è impossibile trascurare lo stato psicologico in cui il personaggio versa agli albori della vicenda. L'approccio che il nostro antieroe ha nei confronti della vita è chiaro sin dalle prime battute: la sua esistenza non ha più alcun senso, è terminata con i fatti descritti nel prologo; gli affari che porta avanti assieme alla socia Tess non rappresentano altro che un arido tirare a campare.
Paradossale a dirsi ma nella vita di Joel non c'è spazio per la vita; quella stessa vita di cui il protagonista avrà un nuovo assaggio proprio grazie all'inaspettato rapporto con Ellie. Partendo da questo presupposto, The Last of Us Parte 1 assume quindi i contorni di una storia di rinascita, di un'insperata seconda chance che il destino concede per tornare a vedere la luce del sole, e che per Joel è sinonimo di resurrezione.
Si tratta di un tema sempreverde in ambito narrativo e che strizza l'occhio a... be' a chiunque di noi. Già, perché l'abilità della sceneggiatura nata dalla penna dell'autore di Uncharted è quella di saper toccare delle corde emotive che tutti consideriamo universali, sublimando argomenti e tematiche che non possono lasciarci indifferenti per il semplice motivo che ci coinvolgono in prima persona.
Certo, magari nessuno di noi avrà subìto esattamente tutto ciò che è capitato al povero Joel, ma tutti abbiamo sicuramente assaporato almeno una volta quel mix di sensazioni che conducono al baratro, magari dopo un lutto o una forte delusione. Nel nostro piccolo, anche noi, come Joel, ci portiamo dietro il nostro bagaglio di cicatrici, che speriamo di veder sbiadire una volta fuoriusciti dal buio grazie a un appiglio che la vita potrebbe tenderci a sorpresa.
Perché attinge alla narrativa
Sebbene non abbia inventato nulla dal punto di vista del contesto narrativo generale, tra gli indubbi meriti di The Last of Us Parte 1 c'è quello di aver trasposto su videogioco un immaginario affascinante come quello reso celebre dalla produzione letteraria post apocalittica. Lo scenario che vede pochi superstiti lottare per la sopravvivenza in un ambiente sconvolto da un disastro pandemico, atomico o naturale è stato ampiamente affrontato in narrativa, con alcuni esempi di spicco che tengono fieramente alto il vessillo del genere.
L'incubo vampiresco immaginato da Richard Matheson nel 1954 col suo Io sono leggenda e la desolazione descritta da Cormac McCarthy in La strada sembrano le atmosfere più vicine all'opera di Naughty Dog, eppure il titolo mescola elementi provenienti anche da altre pietre miliari della distopia su carta. Il romanzo storico La città dei ladri ha rappresentato una preziosa fonte d'ispirazione per il team di sviluppo, mentre L'ombra dello scorpione di Stephen King sembra condividere con The Last of Us l'epicità di un lungo cammino compiuto nel bel mezzo di un avvilente quadro post pandemico.
Per certi versi, anche I figli degli uomini, scritto da Phyllis Dorothy James nel 1992 e portato al cinema da Alfonso Cuaron nel 2006, concede in prestito qualcosa al titolo pubblicato da Sony: l'importanza che un singolo soggetto speciale assume per un'intera società in ginocchio.
The Last of Us Parte 1, insomma, fonde, rielabora e porta su console un universo già trattato da grandissimi autori del passato e recenti, ma lo fa in modo convincente, identitario e per nulla derivativo: il mondo di The Last of Us è quello di The Last of Us.
Perché non fa sconti
Per sua stessa definizione, in un videogioco la componente ludica è ovviamente imprescindibile; tuttavia quest'ultima spesso fa rima con una rielaborazione in qualche modo edulcorata di certi elementi della realtà una volta riprodotti sullo schermo. Le licenze che i giochi si prendono nel trasporre al loro interno alcuni ingredienti della vita reale sono molteplici, da una parte per questioni stilistiche, dall'altra anche un po' per depotenziarne l'effetto da dare in pasto all'utenza.
The Last of Us, però, non si piega a questa regola non scritta: la violenza che appare come ordinaria, la morte, la vita di prima di cui si ha una prova concreta esplorando le varie abitazioni ormai sottosopra... ogni cardine che regge l'impianto narrativo è raccontato per quel che è, senza indorare la pillola. Una scelta senza dubbio d'impatto, che ha tra gli obiettivi quello di comunicarci che stiamo sì giocando, ma anche che ci troviamo su un altro livello in termini di aspetto ludico. Siamo oltre.
Tutto ciò infonde un realismo e una credibilità del tutto nuovi allo spietato contesto da homo homini lupus concepito dagli sviluppatori; effetto che se possibile raggiunge una dimensione ancora superiore con il secondo capitolo della serie. Al giorno d'oggi i videogiochi sono in grado di mettere in scena combattimenti e situazioni limite spettacolari e plausibili, eppure in The Last of Us la sensazione di uccidere per sopravvivere è palpabile, così com'è evidente che in quella casa abitava una famiglia con delle abitudini e una propria quotidianità.
Insomma, lo scenario messo in piedi da Naughty Dog è solido perché non scende a compromessi e non si tira indietro al momento di mostrare il lato più crudo della realtà: quello che non fa sconti.
Perché parla di cambiamento
In definitiva, però, la carica magnetica che The Last of Us Parte 1 ha esercitato sul pubblico probabilmente risiede tutta in un elemento presente in qualsiasi storia degna di essere considerata tale: il cambiamento. Ogni racconto, ogni film, ogni vicenda parla di un cambiamento, di un passaggio, una metamorfosi interiore - e a volte anche esteriore - che il protagonista compie per abbracciare un nuovo status, generalmente migliore del precedente.
Ma allora perché, se una componente simile è comune a tutte le storie, The Last of Us è speciale? Be' è tutto merito di quella finestra di cui il giocatore si serve per affacciarsi e guardare il cambiamento: i personaggi.
In ambito narrativo, l'eroe ferito e riluttante è un archetipo dall'efficacia indiscutibile, che fa presa sul pubblico quasi senza sforzo, perché in fondo, in qualche modo, lo siamo un po' tutti. Ciascuno di noi, dopo piccole o grandi difficoltà, vive una routine quotidiana in cui sente al sicuro, e quando ci viene fatta una proposta che richiede l'uscita dalla nostra comfort zone, tentennare risulta un'azione quasi automatica.
Ciononostante, se fra mille dubbi dovessimo finire per accettare, questa nuova avventura ci porterà in dono qualcosa di nuovo da imparare, magari la scoperta di un'amicizia che non credevamo possibile, o a limite solo qualche soldo in più o in meno in tasca. Insomma, saremo diversi da prima. Saremo cambiati.
Joel Miller è una figura progettata per funzionare, per andare a segno nelle simpatie del giocatore perché, con le dovute proporzioni, è il giocatore. La resistenza che l'eroe esercita nei confronti del cambiamento carica a molla le emozioni che arriveranno nella parte finale della storia, un po' come quando nella vita reale ci sorprendiamo a compiere un'azione, un gesto, che non avremmo mai creduto fossimo capaci di fare.
Un design simile fa di Joel una sorta di Clint Eastwood in Gran Torino, o meglio ancora in Million Dollar Baby: un personaggio straziato e pragmatico, che non vuole saperne nulla del mondo che si trova fuori dalla propria rassicurante bolla finché qualcuno non la abbatte.
Sotto questo punto di vista anche Ellie non è da meno. Il cambiamento che la ragazzina subisce nel corso dell'avventura ha poco a che vedere con la riluttanza, quanto piuttosto con una crescita repentina che la porta a fronteggiare la violenza e le soluzioni estreme. Alla fine del viaggio, quel viaggio che per certi versi la porta più lontano dalla luce di quanto non faccia con Joel, Ellie si è sporcata le mani, ha sofferto, si è presa cura del suo nuovo "padre" e ha trovato qualcuno a cui affidare la propria vita: è maturata, è cambiata. E noi con lei, in qualche modo.
Voi cosa ne pensate di The Last of Us Parte 1? Quali aspetti della sua narrazione vi hanno colpito di più? Diteci la vostra nei commenti.