Sono innumerevoli i motivi per cui la prima console targata Sony, quella grigia PlayStation arrivata sugli scaffali giapponesi esattamente trent'anni fa, ha rappresentato un roboante spartiacque per l'industria dei videogiochi: dall'affermazione definitiva della supremazia del formato CD-ROM alla percezione del fenomeno culturale dei videogiochi da parte del pubblico generalista, l'elenco andrebbe avanti molto a lungo. Eppure uno degli elementi meno citati e discussi è rappresentato sicuramente da come PlayStation abbia costituito a tutti gli effetti la culla in cui si è schiuso un genere videoludico, quantomeno nelle fattezze con cui ancora oggi lo riconosciamo: si tratta naturalmente dell'horror, o più specificamente del "survival horror".
E non è un caso che quest'ultima etichetta sia stata coniata con il primo Resident Evil, nella memorabile schermata nera di caricamento della partita. È indubbio che vi siano stati degli antesignani, primo tra tutti quell'Alone in the Dark del 1992, vero prototipo del genere da cui non a caso Shinji Mikami pescò a piene mani per plasmare la formula del suo capolavoro. Non dimentichiamo inoltre Clock Tower, arrivato nel 1995 su Super Famicom, ma mai uscito ufficialmente dai confini giapponesi fino a poche settimane fa, quando è stata pubblicata la riedizione Clock Tower Rewind. Tuttavia Alone in the Dark rappresentava, per motivi tecnici ed artistici, più una bozza di cosa sarebbe divenuto il genere, mentre Clock Tower era sostanzialmente più un'avventura punta e clicca che un survival horror. Si sarebbe quindi dovuto attendere proprio l'arrivo del primo capitolo della saga orrorifica di Capcom, nel 1996, per vedere consolidarsi l'equazione del genere ancora oggi portata avanti, seppur con tutte le variazioni del caso. E se l'originale Resident Evil sarebbe poi rapidamente approdato anche su PC e Saturn, la prima console di Sony stava già per affermarsi come la residenza più naturale per i maggiori titoli da brividi dei tardi anni '90: giunsero dunque nel catalogo di PlayStation non solo due ambiziosi sequel della saga degli zombi di Capcom, ma anche opere come Dino Crisis (sempre firmato da Mikami e Capcom), Silent Hill di Konami, Parasite Eve di SquareSoft, Echo Night di una FromSoftware ai primordi, e svariati altri esponenti del genere. A questi pesi massimi si accompagnarono poi giochi non strettamente horror ma dalle atmosfere decisamente inquietanti, come Nightmare Creatures e il relativo sequel.
Da limite a marchio di fabbrica
Insomma, grazie al successo di Resident Evil dal 1996 in avanti i titoli più spaventosi, raccapriccianti ed angoscianti non potevano non passare sui lidi di PlayStation, e ciò finì per donare ai vari giochi di questo filone un minimo comune denominatore estetico che si fondava sulle capacità tecniche della console di Sony: con i suoi poligoni grezzi e squadrati e la sua peculiare gestione delle texture, più deformate e "traballanti" rispetto a quelle del coevo Nintendo 64, la grafica a 32 bit di PS1 offriva il giusto tocco destabilizzante alle creature mostruose che si paravano dinanzi al giocatore, e la perfetta atmosfera decadente e straniante agli ambienti in cui si muovevano i malcapitati protagonisti.
Le limitazioni tecniche dell'hardware calzavano quindi a pennello con la rappresentazione della carne putrefatta degli zombie di Resident Evil, e rendevano perfettamente il clima sudicio e surreale del rugginoso Otherworld del primo Silent Hill. Non a caso infatti una delle osservazioni più spesso poste dagli appassionati è che molti titoli horror moderni sono visivamente troppo "puliti": aumentando la definizione dei dettagli delle mostruosità varie e passando, per così dire, una mano di lucido sulle ambientazioni, per diversi videogiocatori si sarebbe persa una cifra stilistica insita nei classici del genere, oltre che quel ben noto grado di libertà offerto al giocatore nel riempire con la sua immaginazione (e in tal caso, con la sua paura) lo spazio concesso dall'essenzialità di pochi pixel e poligoni. Probabilmente proprio per questa ragione, negli ultimi anni sta fiorendo tutto un filone di titoli horror che ripesca a piene mani proprio da questa preziosa eredità estetica della prima PlayStation. E come già accadde con la gloriosa rinascita della pixel-art bidimensionale, anche in questo caso è la scena degli sviluppatori indipendenti a riattualizzare con saggezza e creatività tendenze artistiche del passato.
I nuovi vecchi horror
A partire in particolare dall'inizio di questo decennio, si moltiplicano infatti i lavori di studi indipendenti che decidono di riportare volontariamente l'orrore videoludico a quelle peculiarità tecniche, estetiche e visive tipiche dei capolavori per PS1, che lì erano frutto di compromessi con le limitazioni tecniche dell'epoca e che ora divengono deliberate scelte artistiche e di design: ecco quindi un prepotente ritorno delle telecamere fisse (con annessi controlli "tank"), dei fondali pre-renderizzati, dei personaggi dai volti piatti e dai corpi pupazzosi, degli shaders sporchi e deformati.
In alcuni casi il ritorno al passato è di natura più strettamente registica, come nel caso di titoli come Tormented Souls e Them and Us, che si rifanno soprattutto alla gestione della telecamera e dell'inventario dei primi Resident Evil pur mantenendo una presentazione grafica di stampo contemporaneo; in altri esponenti di questo filone gli sviluppatori decidono invece di emulare totalmente l'estetica a 32 bit della console Sony, come nel caso di Crow Country, Alisa o il recentissimo Fear The Spotlight.
Come accennato poco fa, i modelli illustri dell'epoca PS1 sono omaggiati non solo attraverso la sola veste grafica e le scelte di regia, ma anche tramite le varie interfacce e i dettagli più sottili: Crow Country mutua da Resident Evil il classico elettrocardiogramma colorato per segnalare la salute residua della protagonista; dalla stessa fonte Tormented Souls prende in prestito le fattezze dell'inventario; anche SIGNALIS segue le orme della saga di Capcom, ad esempio emulando in tutto e per tutto la presentazione su schermo dei vari documenti consultabili nel mondo di gioco; vi è poi il caso dell'affascinante Lake Haven - Chrysalis, che omaggia l'originale Silent Hill mutuandone persino il font delle scritte, oltre alla classica interfaccia orizzontale dell'inventario.
A tal proposito è divertente notare come la nuova scena indipendente dell'horror si divida a tutti gli effetti in due scuole: se da un lato abbiamo infatti i "nipoti" dell'originale trilogia di Resident Evil, basati sulla gestione oculata delle risorse e su un approccio più aggressivo alle creature che ci minacciano, dall'altra parte sono numerosi anche gli emuli della saga di Konami, titoli maggiormente focalizzati sulla tensione da horror psicologico, un maggiore senso di impotenza e claustrofobia e un uso importante di inquadrature atipiche e distorte per amplificare il senso di irrealtà degli spazi in cui ci si muove. Al primo filone appartengono sicuramente titoli come i già citati Crow Country, Alisa e Them and Us, mentre al secondo fanno riferimenti opere ancor meno note come Terminus, Post Trauma e il prima menzionato Lake Haven - Chrysalis (un piccolo teaser di un gioco più ampio al momento in lavorazione, che mescola in modo interessante evidenti suggestioni da Silent Hill e Twin Peaks).
I “demake” come riflessione estetica
In questa panoramica non va trascurata un'ulteriore modalità di ripresa in chiave horror dei canoni estetici della prima PlayStation, ossia la strada dei cosiddetti "demake": esempio lampante e parallelo di questa riscoperta dell'inquietudine a 32 bit è infatti il celebre Bloodborne PSX, rifacimento del capolavoro di FromSoftware, realizzato da un'appassionata nel 2022. Anche in questo caso gli shader e i poligoni in salsa PSX sembrano calzare a pennello con l'atmosfera disturbante del gioco originale, fin dal filmato di apertura, qui reso ancora più tetro dall'aspetto grottesco, quasi espressionista, delle creature che circondano il protagonista.
Per di più, riportare Bloodborne ad una direzione artistica debitrice delle caratteristiche tecniche della prima console di Sony sembra anche svelarne una plausibile fonte di ispirazione: Bloodborne PSX pare infatti avvicinarsi molto al già citato Nightmare Creatures, titolo della Kalisto anch'esso intriso di atmosfere lovecraftiane. From Software avrà effettivamente tratto delle suggestioni dal gioco del 1997 per plasmare uno dei suoi titoli più amati? Chissà: di certo piccole tracce di Nightmare Creatures sono rintracciabili anche nel demake del 2023 di Dead Space, pubblicato su itch.io e anch'esso basato sull'estetica della grigia console di Sony. Insomma, mentre le grandi produzioni AAA puntano a tirare a lucido i grandi classici dell'orrore degli anni '90 e 2000 (Resident Evil 2-3-4, Silent Hill 2, Alone in the Dark), le menti dello sviluppo indipendente immaginano i mondi videoludici contemporanei sotto una lente vintage più interessante di quanto si possa immaginare.
Non solo nostalgia
Potrà a questo punto emergere un'osservazione legittima: cosa rappresenta questo fenomeno che potremmo quasi definire un "neoclassicismo" dell'horror videoludico? Si tratta di un approccio nostalgico e passatista al genere, oppure può aggiungere qualcosa di interessante al discorso odierno sulla componente strettamente artistica del videogioco? La seconda considerazione sembra la più feconda, interessante e scevra da preconcetti. La riscoperta di un certo tipo di direzione artistica, un tempo figlia delle caratteristiche dell'hardware ed ora utilizzata per veicolare un preciso tipo di atmosfera e suggestione estetica, può rappresentare proprio un ulteriore passo dell'emancipazione del concetto di retrogaming da una visione puramente nostalgica e fine a sé stessa.
Scoprendo le potenzialità espressioniste da sempre insite nella grafica di una certa console, gli sviluppatori indipendenti stanno astraendo un'estetica figlia del suo tempo per renderla un mezzo espressivo per così dire atemporale, capace di comunicare suggestioni che vadano ben oltre i semplici ricordi degli anni '90: i volti deformati delle creature, la "grana" delle pareti, un utilizzo asettico oppure spaesante delle inquadrature, da meri occhiolini citazionisti si stanno trasformando progressivamente in un modo ben preciso di mettere in scena l'orrore nei videogiochi. Ecco dunque che, come nella rinascita della pixel art nello scorso decennio, l'utilizzo di determinati paletti nella messa in scena di un gioco riesce a risvegliare nel giocatore emozioni sopite alternative allo scenario degli horror dagli alti valori produttivi, in cui abbondano titoli di grande spessore ma che senza dubbio portano avanti il discorso orrorifico con un linguaggio formale ben diverso da titoli come Terminus e Alisa.
Ciò che possiamo ricavare da questo rinascimento neoclassico dell'orrore videoludico è dunque una dimostrazione non solo di come la storia di questo medium sia osservabile e riassimilabile con un approccio creativo e scevro da vacui passatismi, ma anche di come la prima PlayStation possa ancora offrirci in modi laterali e inattesi un'eredità artistica viva e pulsante, ennesima prova del ruolo da pietra miliare che ha avuto nella storia dei videogiochi.