Diario del capitano
Torniamo oggi a parlare di un argomento serio che riguarda tutti, appassionati e no di videogiochi, accomunati dallo stesso mezzo, Internet, la cui libertà di espressione è stata messa a dura prova dalla legge sull'editoria 62/2001. Sto parlando di quella famosa legge che teoricamente obbligherebbe qualunque sito, anche personale, a registrarsi come testata giornalistica al Tribunale di competenza e assumere un direttore responsabile. Contraddittoria e lacunosa, la legge in questione fu oggetto la scorsa primavera di ampie contestazioni, raccolte di firme e movimenti di opinione, anche di voci importanti e non solo dei singoli utenti. Com'era andata a finire la questione? Si era arenata su una tenue speranza che la legge approvata dal precedente governo venisse rivista dall'attuale maggioranza in senso più garantista per i piccoli editori online che non avrebbero dovuto sottostare alle burocratiche pastoie regolamentari del giornalismo italiano, fatto di lobby, nepotismi e poteri acquisiti. Questo non vuole essere un "j'accuse" contro il sistema costituito (guai a toccarlo! siamo matti?), ma semplicemente un auspicio che Internet riuscisse a sgusciar fuori con la sua splendida anarchia autoregolamentata.
Mi permetto di parlare in questo modo a favore della liberalizzazione del settore informativo online, nei limiti della legalità e del rispetto della libertà personale, da editore di una testata giornalistica registrata e non da individuo interessato personalmente al proseguimento dell'anarchia. Multiplayer.it già dallo scorso luglio ha scelto di perseguire la via del giornalismo professionale, ma non avrebbe potuto fare altrimenti dato il numero elevato di collaboratori e gli obiettivi prescelti. Ma mi rendo conto che c'è un mondo di appassionati, di ogni argomento, là fuori nella Rete, che non persegue scopi di lucro e che vuole mettersi in comunicazione con il mondo senza limiti.
L'Italia è un gran bel paese, ma il suo distinguersi dalla mentalità liberale americana spesso è ai limiti del disarmante. L'intervento statale il più delle volte è in senso restrittivo, mai permissivo. Internet ha offerto un'opportunità in questi ultimi anni, l'opportunità di cambiare metodo e di voltare pagina. Ma in Italia questo non è stato recepito. Negli Stati Uniti dal 1998 i proventi ottenuti online sono detassati e lo saranno almeno fino alla fine del 2001. Non ci sono regole da giornalismo zarista per pubblicare siti internet. Gli imprenditori che tentano la fortuna online non vengono derisi e presi per pazzi. In Italia avere un ecommerce o un negozio non ha alcuna differenza, anzi. Avere un ecommerce significa essere assimiliati alle regole della vendita per corrispondenza tramite catalogo e subirne gli stessi limiti. In Italia la legge sulla privacy ha ucciso il marketing, certo a volte invasivo della sfera personale, ma come al solito si è agito senza mezza misure. Per non finire a parlare del tempo e dei sacrifici (uno su tutti, Galactica) che ci sono voluti per arrivare a tariffe e tecnologie di collegamento che non fossero da Terzo Mondo.
Risultato: il sottosegretario per l'editoria Paolo Bonaiuti ha detto che la legge sull'editoria 62/2001 è perfettamente in sintonia con l'attuale maggioranza e che non sussiste l'esigenza di cambiarla. Cosa rimane dunque da fare? Per l'ennesima volta avremo una legge non rispettata, come quella delle cinture di sicurezza, dei limiti di velocità, dei bikini e di tutte le altre migliaia di assurdità che sono state approvate dai nostri rappresentanti nel corso degli anni. Signori, per usare un termine colto, sono basito. In alternativa potrei essere frastornato o confuso. Vogliamo o non vogliamo sviluppare Internet in Italia, facendone uno dei nostri grandi motori di sviluppo?