Prima premessa: durante l'articolo parleremo del gioco senza inibizioni, quindi, pur leggere, ci saranno delle anticipazioni su Elden Ring. Seconda premessa. Nel momento in cui scrivo, ho da poco superato le venti ore e dubito che finirò l'avventura, nonostante la sua beltà, principalmente per la costanza e la dedizione che richiede, per la proporzione tra il tempo che esige per potenziare il personaggio, e quello concesso per godersi i momenti eccezionali custoditi dall'Interregno: il nebuloso e mastodontico mondo, dall'arborescenza aurea, di Elden Ring.
Il mio Senzaluce, ormai di livello quaranta, si chiama Haruki - come Haruki Murakami - e ha un aspetto vagamente simile al centrocampista francese e juventino Adrien Rabiot, con qualche tratto grottescamente deformato, negli eccessi concessi da un editor fin troppo versatile nell'alterare i lineamenti del volto. È un ex-samurai (nel senso che dell'equipaggiamento iniziale non utilizza più niente, e gli attacchi del samurai non differiscono da quelli di chiunque altro) particolarmente versato in forza e vitalità, e ha una mulesca refrattarietà nei confronti della magia. Recentemente si è quantomeno concesso delle invocazioni, rivelatesi piuttosto inutili nei quindici - quindici - minuti necessari ad abbattere il primo drago del gioco (puntate alle zampe, anzi, a una in particolare).
Terza premessa, anticipatoria di una legittima contestazione che potreste muovere contro questo articolo: ogni gioco, ogni gioco ben fatto, ha l'interazione che gli serve. Una frase che cela delle valide ragioni, ma che non può essere accettata come verità apodittica. Prendete Tetris, ad esempio: nella sua semplicità è sostanzialmente perfetto. Non avrebbe alcun senso inserire un sistema fisico, sporcare le illuministiche metodologie d'intersezione dei tetramini. Negli open world, intendendoli come macrocategoria, il discorso è un po' diverso; è un po' diverso, in generale, per qualsiasi gioco che abbia velleità di rappresentare un mondo più o meno realistico e/o vitale. Perché è vero - ne parleremo approfonditamente tra poco - che un'interazione maggiore potrebbe ledere alle meccaniche nucleari, certosine e razionali, di Elden Ring; allo stesso tempo, a livello strettamente diegetico, quindi non ludico, l'assenza d'interazione ambientale è nociva, quantomeno per la mia sensibilità, nei confronti del tacito patto sulla sospensione dell'incredulità.
Interazione ambientale
Non fosse chiaro, mi sto focalizzando sui limiti del mondo di gioco, dando per scontato che gli enormi pregi li conosciate per esperienza, o li abbiate letti: del resto sto parlando del miglior gioco dell'anno scorso, quello che quantitativamente è stato maggiormente premiato "nella storia". Un titolo di una grandezza territoriale impressionante, di una complessità geografica ed esplorativa notevolissima, dalle architetture letteralmente senza precedenti che torreggiano, dominano e umiliano il giocatore a livello esistenziale. Non ho mai visto palazzi, costruzioni o santuari belli come in Elden Ring (in un altro videogioco, s'intende). L'interazione ambientale, tuttavia, per me è talmente limitata da non poter essere tralasciata: perché non sto disquisendo di un gioco che non riesce ad arrivare ai livelli - in questo specifico ambito - di Red Dead Redemption II, o alle imprevedibili, pirotecniche, dinamiche emergenti di The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Sto parlando di un gioco che di tale questione, non essendo rilevante per il sistema ludico che irrora l'intero Interregno, se ne frega: se ne frega completamente. Con due notevoli eccezioni, che svettano proprio perché platealmente diverse dal resto dell'ambientazione: il modo - perfino caricaturale, a volte - in cui si spaccano mobili e armi "decorative" (delle lance ornamentali, ad esempio), che rotolano, sbalzano e si dimenano seguendo un credibile, e vagamente approssimativo, sistema fisico. Allo stessa maniera i cadaveri, e sapete - credo - quanto la morte sia presente, ludicamente e non, tangibilmente e metaforicamente, in questo gioco: i corpi che lasciate dietro di voi, animali o umanoidi, sono perfettamente calpestabili, macabramente profanabili. Non è scontato che un'avventura vi lasci "giocare" coi cadaveri: uno dei testi fondanti della cultura occidentale, l'Iliade, finisce proprio con la restituzione del corpo di Ettore. Il rispetto dell'involucro e del lutto altrui come sublimazione dell'etica precristiana. Elden Ring manifesta la sua crudezza anche in questo, nel modo in cui vi lascia muovere i corpi nemici, reso ancora più evidente proprio dalla limitata interazione generale.
Esclusi questi due casi, l'interazione ambientale è sostanzialmente assente. Il personaggio riconosce se un piano è inclinato o meno, ma il suo comportamento non è differenziato di conseguenza: non si scivola, ad esempio, in Elden Ring. Nemmeno nel modo goffo e scarsamente declinato di The Witcher 3, che comunque è un open world molto, molto meno basato sull'azione. Se il vostro Senzaluce - che sia o meno in sella al fido, zompettante, quadrupede Torrente - attraversa un prato, una roccia, un terreno polveroso o un bagnasciuga, l'interazione, l'andatura e l'attrito non cambiano. E questo magari non sarebbe servito a niente a livello ludico, non era necessario da quel punto di vista; ma a livello narrativo e tattile è un limite. Per non parlare della vegetazione, puramente decorativa: le sterpaglie, le piante e le foglie non danno il minimo segno di essere attraversate o toccate da un essere vivente, Senzaluce, avversario o mostro che sia; esistono in un piano dimensionale meramente visivo. Il vento che le smuove è intangibile, inesistente, non sposta alcunché, dal fuoco a qualsiasi altra creatura dell'Interregno. Il vostro personaggio salta, ma non può scalare: non mi riferisco a improbabili doti alpinistiche, intendo l'incapacità, dopo essere balzato verso il basso da un tetto, di scavalcare un semplice muretto che gli arriva al mento. In un dungeon, soprattutto nei dedalici Legacy Dungeon, questo può risultare piuttosto fastidioso, oltre che poco credibile; in questo caso specifico, non si tratta soltanto di un limite narrativo. Il Senzaluce non può nuotare in alcun modo, e non ha alcun attrezzo, se non l'improbabile cavalcatura, in sezioni platform piuttosto arruffate, per andare dall'alto al basso e viceversa. Potrei proseguire, ma concettualmente non cambierebbe niente: se a livello visivo e architettonico il mondo di Elden Ring è eccezionale, per la mia personale sensibilità è fin troppo rigido, statico, fisicamente ripetitivo, costituito da una singola materia che si declina e differisce per forma e aspetto, ma che compone e plasma tutto il mondo, incurante del territorio e del clima. La mia spada non conosce superfici morbide, i miei piedi non vengono rallentati dal suolo paludoso, il vento non scosta i miei vestiti.
Un open world monotematico
Posto che il mondo aperto è più un'ambientazione che un genere, ci sono alcune caratteristiche che un appassionato si aspetta. In questo senso Elden Ring non ha alcuna colpa, però non lo consiglierei mai a un amante degli open world che, allo stesso tempo, non gradisca anche Dark Souls. Perché Miyazaki ha integrato con sorprendente maestria la sua creatura con un mondo aperto, ma pur sempre la sua creatura, forse ammorbidita, forse meno brutale, è rimasta. Elden Ring è accrescimento e personalizzazione del personaggio, sopravvivenza, esplorazione dell'ignoto; è, sopra ogni cosa, morte e combattimento. Detto in maniera sintetica e poco raffinata, nell'opera From Software si lotta per esplorare, e si esplora per lottare.
Miyazaki forse è stato accondiscendente con chi non ama lasciarsi soggiogare dai suoi sentieri tortuosi, dai suoi brutali mostri, dalle sue gargantuesche architetture, dai punti esperienza persi in caso di morte ripetuta. Forse lo è stato: l'incipit di Elden Ring non è incredibilmente impervio, e ci sono punti di salvataggio abbastanza diffusi. Ma di sicuro non ha corrotto la sua cifra stilistica per ottenere nuovi, impensabili accoliti: Elden Ring non fa niente per ammiccare al tipico appassionato di open world. Anzi: lo prende, lo deride, lo ammazza, lo tortura, gli scaglia contro un'aberrazione imbattibile e poi lo battezza, trucidandolo, con la Sentinella dell'Albero. Insiste testardamente, in modo ardimentoso, senza concedersi aperture, sulla narrazione contestuale (ok, sulla "lore"). Non ci sono villaggi popolosi, non esistono attività che esulino dal combattere, esplorare e potenziarsi: non si caccia, non si pesca, non si mangia, non ci si ripara dal freddo, si fatica addirittura a comprendere come qualcuno possa essere vivo, o possa ancora interessarsi al destino di un familiare, o di un amico, in un mondo così pieno di disumane bestialità e feroci creature. A differenza dell'interazione, lo ribadisco, questo non è in alcun modo considerabile un difetto del gioco; il gioco funziona, ed è eccezionale. Ma è anche un open world dal respiro costante e monotematico. Non amo l'azione e l'interattività di The Witcher 3, ma l'ho grandemente apprezzato per la scrittura e per certe soluzioni narrative, per la varietà dell'offerta generale; in Elden Ring o amate combattere, morire e ritentare, o non vi piacerà. C'è perfino qualcosa di grandioso, di superbamente testardo, in questo approccio granitico all'open world.
La maggior parte degli elementi in cui Elden Ring svetta sul resto dell'industria, in termini di open world e non di meccaniche circoscritte o di genere, erano già stati proposti da Breath of the Wild: lo studio e l'approccio conoscitivo del territorio, l'osservazione del paesaggio e la successiva ricerca, l'identitaria e fiera opposizione al "raggiungi il puntino sulla mappa". Forse potremmo definire questa tendenza, vista l'origine geografica, come un approccio giapponese all'open world: lo capiremo tra qualche anno, in base al numero di coraggiosi che ne seguiranno le orme. Ci sono due lezioni tuttavia che tutti dovrebbero introiettare, perché relative all'ambito creativo e non all'ingenza del budget, che appartengono a Elden Ring e a lui soltanto. Primo, la progressione. Non avendo finito l'avventura non sono la persona migliore o più credibile per esaltare questo punto, eppure perfino a me è evidente quanto Elden Ring sia un crescendo continuo. Breath of the Wild ha momenti eccellenti per tutta la mappa, ma la sua sublimazione è rappresentata dalle prime dieci-quindici ore: l'incipit eccezionale, la sopravvivenza bellica e ambientale, l'abbandono dell'Altopiano delle Origini, la prima memoria, il primo Lynel, il primo drago, il primo Colosso. Elden Ring parte più piano - molto più piano - ma a venti ore non si è ancora disvelato, il suo apice è lontano, sussurrato da esseri giganteschi appena intravisti. Non sto parlando di lunghezza dell'avventura, ma di gestione del climax. Seconda lezione: il disvelarsi di lande prodigiose, prevalentemente sotterranee, perfettamente integrate col resto del mondo. Impossibilità di cavalcare a parte, i dungeon - piccoli, grandi o enormi che siano - costituiscono un ingranaggio armoniosamente inserito dell'Interregno, con apollinee concatenazioni al resto della mappa. In Elden Ring puoi entrare in una caverna e ritrovarti in una nuova regione. Una regione in cui affronterai incredibili battaglie e sconfiggerai mostri spaventosi, e in cui continuerai a fregartene del clima, del tipo di terreno e della vegetazione.