Nel corso degli ultimi anni si è discusso incessantemente dello stato dell'industria videoludica e della concretizzazione di diverse previsioni oscure che avevano caratterizzato la scorsa decade, risoltesi infine in una crisi tangibile che, accanto ai successi delle rare mosche bianche, ha condotto diverse grandi compagnie sull'orlo del baratro. Le ondate di licenziamenti successive allo scoppio della bolla della pandemia globale, la crescita esponenziale dei costi di sviluppo, la saturazione delle correnti e la conseguente mancanza di tempo da investire nell'intrattenimento hanno tratteggiato i contorni di un nuovo mercato che si presenta più che mai precario, nel quale persino i colossi sembrano trovarsi a un singolo fallimento di distanza dal potenziale crollo.
C'è però uno specifico elemento dell'equazione che si sta declinando in situazioni particolarmente negative per l'intero ecosistema videoludico, generando violente ondate di rabbia e moti di sfiducia nel pubblico, complicando notevolmente l'esordio di qualunque nuova produzione e addirittura conducendo saghe all'apparenza inaffondabili sulla soglia del precipizio: la lievitazione incontrollata dei tempi di sviluppo.
A causa del costante inseguimento della curva tecnologica, della ricerca della fedeltà grafica, della filosofia alle spalle di videogiochi che mirano a essere sempre più grandi e sempre più longevi, il tempo necessario per realizzare un videogioco AAA è incrementato in media di cinque volte nel corso degli ultimi trent'anni. Il ciclo di produzione si è fatto progressivamente più costoso e più complicato, arrivando a impegnare decine di figure professionali - con ritmi tanto serrati da portare al crunch - nel tentativo di dar vita a mondi virtuali notevolmente più vasti e dettagliati rispetto al passato, spesso senza che sia corrisposta un'evoluzione dei principali strumenti di supporto.
L'allungamento incontrollato dei tempi di sviluppo si nasconde alle spalle di numerose delle principali piaghe dell'industria, al di là di quelle più evidenti come l'incremento dei costi: mentre numerosi videogiochi fanno il proprio debutto fuori tempo massimo, quando ormai l'ispirazione su cui si basano sembra passata di moda, alcune saghe spalancano una forbice di oltre dieci anni fra gli ultimi capitoli pubblicati, minando il rapporto con il pubblico e trovandosi costrette a cercare un nuovo target. Al tempo stesso, riprendersi da un eventuale passo falso diventa estremamente difficile proprio in ragione dell'abisso che separa ciascun progetto, conferendo un'importanza senza precedenti all'efficacia di ogni singolo lancio. Non c'è più tempo per creare videogiochi?
Il problema dei tempi di sviluppo
Come notato da diversi osservatori come Cameron Stoker di GoingIndie, nel medesimo intervallo di tempo che Bethesda Softworks ha impiegato per sviluppare Starfield, anni prima era stata in grado di produrre The Elder Scrolls IV: Oblivion, Fallout 3 e The Elder Scrolls V: Skyrim. Tra il 2003 e il 2013 Rockstar Games ha pubblicato 26 titoli in totale, mentre fra il 2013 e il 2023 ne ha pubblicati solamente 3, fra i quali una rimasterizzazione. Di riflesso, mentre la settima generazione di console ha visto la nascita di oltre 10 nuovi franchise AAA dai quali sono scaturite intere trilogie - basti pensare ad Assassin's Creed, Bioshock, Mass Effect, God of War, Dead Space, e via dicendo - quest'eventualità non si è mai più verificata nel corso delle generazioni successive.
I tempi di sviluppo sono lievitati a dismisura e ciò è accaduto solo parzialmente in ragione della rincorsa all'evoluzione tecnologica e alla grafica fotorealistica, perché a svolgere un ruolo determinante è stata anche e soprattutto la filosofia stessa alle spalle delle grandi produzioni: tra sequel e IP inedite, i maggiori sviluppatori AAA hanno costantemente cercato di offrire universi più ampi, storie più longeve, mondi più ambiziosi e grafiche più fedeli, cercando di vendere al pubblico un'idea di "grandezza" che non è necessariamente sinonimo di qualità. La mappa di Fallout 4 era tre volte più grande rispetto a quella del terzo capitolo, nel caso di Fallout 76 si è rivelata quattro volte più grande rispetto a quella del predecessore, Starfield ha compiuto un passo esagerato, ma questo discorso resta valido per tutti i grandi marchi, come per esempio l'apripista Assassin's Creed. Quando la distanza fra due opere contigue era breve, l'utenza si dimostrava felice di accogliere prodotti semplicemente "più grandi e migliori", oggi le cose sono cambiate profondamente: anche per i colossi del settore un singolo passo falso può rivelarsi potenzialmente fatale.
Il problema dei videogiochi fuori tempo massimo
La presentazione ufficiale di Marathon da parte di Bungie è stata accompagnata dall'emersione di numerose critiche rivolte a diversi elementi della produzione: per quanto il progetto rimanga ancora avvolto nel mistero, è ufficiale che si tratta di uno sparatutto PvPvE che mescola l'ispirazione cooperativa con quella competitiva, sulla falsa riga delle regole dettate da Escape From Tarkov di Battlestate. Inoltre, grazie alle dichiarazioni di alcuni playtester, è ormai noto che Marathon sia rimasto in sviluppo per oltre cinque anni, trovando le sue radici creative nell'epoca antecedente la pandemia globale.
Questo, al giorno d'oggi, è percepito come un rumoroso campanello d'allarme: come già successo in diversi casi celebri, su tutti quello di Suicide Squad: Kill the Justice League di Rocksteady e Warner Bros, accade sempre più di frequente di trovarsi di fronte a videogiochi nati per inseguire un determinato trend - come per esempio quello dell'hero shooter o del battle royale - che con lo scorrere del tempo è cambiato profondamente o è semplicemente passato di moda. Nelle comunità online è stato addirittura coniato il neologismo "corporate game as a service" per definire tutte le iniziative apparentemente imposte dai ruoli apicali durante il boom del 2018, quando il mercato guardava solo e unicamente in tale direzione.
La dilatazione dei tempi di sviluppo ha portato conseguenze disastrose in questo senso, perché la maggior parte di quelle che potevano apparire come buone idee nel 2017, nel 2018 e nel 2019 si stanno rivelando nel migliore dei casi operazioni antieconomiche. Alcune imprese come Ubisoft hanno pagato caramente il prezzo di questo gioco di rimbalzo nell'inseguimento della corrente, specialmente nei casi del battle royale Hyper Scape, dello sportivo Roller Champions e ovviamente di Skull & Bones, la cui prototipazione risaliva addirittura ai primi anni 2010, ma si tratta di una fattispecie che si è verificata in tantissimi contesti differenti.
Lo stesso Starfield di Bethesda Softworks, per quanto un buon gioco, è evidentemente radicato in concetti tipici dell'epoca in cui è stato messo in cantiere dalla casa del Maryland. Dal momento che l'ideazione di Starfield risale addirittura al 2012 e lo sviluppo attivo ha avuto inizio nel 2015, numerosi elementi dell'esperienza hanno finito per appartenere a quegli anni, mentre fuori dagli uffici dello studio l'industria viveva un decennio di evoluzione. La società guidata da Todd Howard ha potuto comunque contare sulla forza e l'unicità del suo incrollabile pedigree, ma questo è un lusso che non tutti gli sviluppatori si possono permettere.
Sono tantissime le produzioni di grandi e medie dimensioni, come per esempio Saints Row di Volition, Unknown 9 Awakening di Reflector Entertainment, il tristemente noto Concord o il battle royale Vampire: The Masquerade - Bloodhunt, ad essersi affacciate su un mercato molto più saturo e profondamente diverso da quello che avevano intenzione di attaccare. In alcuni casi limite, fra i quali spicca senza dubbio quello di Dragon Age: The Veilguard, che era originariamente nato come game as a service, è capitato che i processi di sviluppo siano stati riavviati per inseguire deviazioni dell'ultimo minuto, spesso portando gli sviluppatori a lavorare in fretta e furia senza successo.
Vale la pena menzionare il fatto che esistono diverse mosche bianche, come per esempio Marvel Rivals, Marvel Snap o Pokémon TCG Pocket, che sono riuscite a incastrarsi perfettamente nella fetta di mercato che miravano a conquistare, ma il più delle volte - e questa è la principale paura che avvolge il debutto di Marathon - il contesto del medium cambia completamente fra ideazione e pubblicazione. Insomma, l'allungamento dei tempi di sviluppo ha incrementato enormemente il fattore di rischio insito nelle maggiori produzioni perché una pubblicazione fuori tempo massimo ha il potenziale di azzoppare anche le idee più brillanti. D'altra parte, alla dilatazione di questi cicli corrisponde anche una crescita dei costi, spingendo i publisher a voler rischiare sempre di meno e a inseguire mode consolidate, realizzando un circolo vizioso senza via d'uscita.
Il problema della distanza siderale tra i progetti
Fra il 1997 e il 2002, in cinque anni, Squaresoft ha pubblicato 5 capitoli mainline della serie Final Fantasy, senza contare il debutto di Kingdom Hearts, quello di Vagrant Story e di altri pilastri di tale sottobosco creativo. Per fare un paragone, tra il 2009 e il 2025 Square Enix ha alzato il sipario solamente su quattro episodi principali della sua storica saga. In casi come questo l'allungamento dei tempi di sviluppo si sta trasformando nel principale responsabile delle ondate di rabbia che stanno trainando diverse comunità di videogiocatori, nonché della formazione di un nuovo e pericolosissimo coefficiente di rischio sul fronte dei publisher.
Se, oggi, una serie amata come può essere Final Fantasy, Mass Effect, Dragon Age - o anche un portfolio intero come quello di Bethesda - si presenta sul mercato con un capitolo sottotono o deludente, saranno necessari anni e in certi casi anche decenni prima che il pubblico abbia modo di confrontarsi nuovamente con quel mondo virtuale. Mentre da una parte l'utenza affezionata, consapevole che la sua serie preferita sparirà dai radar per almeno un lustro, sarà portata a gridare al 'fallimento' dell'intero franchise, dall'altra i finanziatori saranno messi di fronte alla necessità di investire il doppio dei fondi e il doppio degli anni per invertire la corrente, senza alcuna garanzia di successo.
Di questi tempi 'bucare' il lancio di un videogioco AAA significa sì produrre un bilancio negativo, ma soprattutto perdere un'enorme quantità di tempo, perché al ciclo di sviluppo appena concluso bisogna aggiungere gli anni necessari per risollevare il franchise. Tornando all'esempio iniziale, se nel 1999 un utente di Squaresoft fosse rimasto deluso da Final Fantasy VIII, avrebbe potuto semplicemente aspettare l'anno seguente per confrontarsi con il nono capitolo. Prendiamo invece un lancio sottotono recente come quello di Halo Infinite: l'opera è stata aggiornata per qualche mese, il direttivo è stato sostituito, l'azienda è stata ristrutturata, a fine 2024 il cambiamento del motore ha portato alla ricostruzione del team di sviluppo, dunque è altamente probabile che il prossimo episodio vedrà luce fra svariati anni, magari su una nuova console. Di questo passo le serie di videogiochi vedranno al massimo la pubblicazione di un singolo episodio per ogni generazione e forse anche più tempo, dal momento che The Elder Scrolls e Grand Theft Auto sono arrivati a saltare una generazione per intero.
Nei confini di Dragon Age il pubblico affezionato ha atteso per dieci anni esatti l'arrivo del successore di Inquisition per poi bocciarlo senza riserve, mettendo in pericolo non solo la serie fantasy ma anche i lavori sul franchise connesso di Mass Effect. In un contesto di questo genere anche una cancellazione ponderata, come per esempio quella del progetto The Last of Us Parte 2 Online che ha colpito Naughty Dog, rischia di stravolgere i ritmi di lavoro. La distanza media che intercorre fra due progetti dello stesso sviluppatore è cresciuta al punto tale da rendere disastroso un eventuale insuccesso, anche per le IP più solide. Nel frattempo, il malcontento che si diffonde fra gli appassionati finisce per sedimentare per anni, influenzando negativamente il clima attorno all'industria intera; quando l'ultimo capitolo di una saga come Final Fantasy delude il suo pubblico, quel pubblico rimuginerà per anni su quella delusione, maturando una sfiducia che si tradurrà in vendite minori per i giochi successivi, a prescindere dalla qualità effettiva.
Il problema del mercato e del pubblico che si trasforma
Sono passati quattordici anni dalla pubblicazione di The Elder Scrolls V: Skyrim e, alla luce delle ultime notizie, è altamente probabile che il prossimo episodio disti ancora parecchi anni nel futuro. Quattordici anni sono tantissimi, persino per l'industria contemporanea: in un tale lasso di tempo nascono nuovi generi, emergono nuovi hardware, si susseguono diverse mode, ma a cambiare sono soprattutto i videogiocatori. Di quei 10 milioni di utenti che acquistarono Skyrim durante il primo anno di vita, quanti ancora comprano videogiochi? E fra quelli che li acquistano ancora, quanti sono ancora alla ricerca di enormi giochi di ruolo figli di quella ricetta?
È evidente che le grandi compagnie del settore si stiano ponendo da tempo questo genere di domande e stiano svolgendo ricerche di mercato, dal momento che tentano costantemente di ampliare la potenziale base installata attraverso contaminazioni e nuove correnti creative, arrivando in certe occasioni a "snaturare" la formula che li ha traghettati al successo. Tornando sulle sponde della serie Final Fantasy, sembra piuttosto evidente che il direttivo di Square Enix sia convinto di non poter più contare economicamente sul pubblico risalente all'età dell'oro di PlayStation, e osservando i risultati finanziari di quello specifico sottobosco non si può dire che abbia tutti i torti.
Alla fine del 2007 Halo 3 poteva vantare oltre 1.400.000 giocatori medi connessi contemporaneamente solo su Xbox 360, un risultato che fa impallidire i maggiori lanci contemporanei su Steam. Una grossa fetta di quegli appassionati ha abbandonato definitivamente il medium, un'altra è semplicemente migrata su altri lidi, magari sulle sponde dei battle royale o nell'orbita di franchise come Call of Duty, sta di fatto che il mercato è cambiato e che i capitoli più recenti non sono più riusciti a replicare quel successo.
In casi di questo genere la lunghezza dei tempi di sviluppo mette i publisher di fronte a un dilemma irrisolvibile: mentre da una parte capita che determinate ispirazioni perdano d'efficacia e necessitino d'essere rinnovate, dall'altra accade che i grandi franchise scelgono di cambiare radicalmente le loro ricette - come nel caso di Final Fantasy - nella speranza di abbracciare un nuovo target audience che possa sostituire quello vecchio. Quest'ultima situazione è quella che sta generando alcune fra le più violente ondate di malcontento: per fare un esempio, i consumatori storici di generi come i picchiaduro e i giochi di ruolo hanno la sensazione che le formule stiano venendo trasformate al solo fine di attirare nuovi appassionati che si dimostrino meno informati e meno esigenti, e sta diventando molto difficile sostenere che abbiano torto.
Il problema dell'originalità
Come ben noto l'incremento dei tempi di sviluppo è indissolubilmente legato a quello dei costi, appesantendo ulteriormente il già asfissiante clima attorno al medium. La sensazione è che se la line-up di lancio di Switch 2 sembra più debole rispetto al passato, se le grandi case produttrici vengono prese d'assalto in seguito a un singolo passo falso, se i nuovi videogiochi AAA sembrano spesso usciti da un'altra epoca e se determinate serie sembrano aver smarrito la propria identità, è principalmente in ragione dell'esagerata forbice temporale che si è spalancata fra i progetti.
Ovviamente l'industria contemporanea di problemi ne può vantare a bizzeffe, dai comportamenti inspiegabili - e spesso impuniti - dei management fino alle precarie condizioni degli addetti ai lavori, ma il particolare rapporto con il tempo sta somigliando sempre di più a un rischio strutturale. Se qualsiasi altra branca dell'intrattenimento, dall'audiovisivo all'editoria serializzata, provasse a seguire il medesimo modello, probabilmente non sopravviverebbe a un singolo lustro.
Non è una sorpresa che in tale panorama abbiamo assistito all'emersione di enormi successi dal tessuto indipendente e dagli studi minori che sono riusciti a sfruttare al massimo l'agilità dei processi. Si discute da tempo della necessità per i grandi sviluppatori di mettere da parte l'ossessione verso la fedeltà grafica, di ridurre la scala delle produzioni o quantomeno di mettere in cantiere produzioni minori accanto ai progetti di bandiera, ma tra il dire e il fare c'è di mezzo un mercato che si mette di traverso, accogliendo a braccia aperte solamente i "titoli evento" e criticando di riflesso - o semplicemente non acquistando - deviazioni agili come per esempio quella imboccata da FromSoftware attraverso Elden Ring Nightreign, il nuovo REMATCH di Sloclap, Pentiment di Obsidian e altri lavori distanti dai cicli standard.
Vista la scarsa predisposizione al cambiamento, al momento sembra esistere un solo antidoto per dimostrarsi immuni alla lunghezza dei processi di sviluppo, e quell'antidoto è l'originalità: un videogioco non può esser pubblicato fuori tempo massimo se ha un'identità marcata, se non ha inseguito le mode, se non conosce termini di paragone e se non condivide con altre IP il target di pubblico. Quasi tutti i maggiori successi degli ultimi anni corrispondono a questo identikit, che si tratti di colossal come Baldur's Gate 3 e The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom o di opere indipendenti come Balatro, Stardew Valley e Vampire Survivors. Si tratta solamente di una cura palliativa, ma mentre i grandi manager continuano a ripetersi che quella dell'originalità è una strada troppo rischiosa, la sensazione è che l'inseguimento dei trend - alla luce degli attuali ritmi di sviluppo - stia diventando decisamente più pericoloso.