Oggi The Legend of Zelda compie trentacinque anni, essendo uscito per Famicom Disc System il 21 febbraio 1986. Non esiste un modo giusto per scrivere uno speciale su un anniversario, ma probabilmente ne esiste uno sbagliato, e cioè ripercorrere sterilmente le tappe storiche di una determinata serie. Non possiamo prescindere dal raccontare il passato, ma quello che più ci interessa, oggi, è dirvi come sta The Legend of Zelda. E per quale motivo.
Senza timore di smentita, possiamo tranquillamente scrivere che l'aurea saga Nintendo sia molto, molto più in forma di quanto non fosse dieci anni fa: è più agile e brillante a trentacinque che a venticinque anni, è ringiovanita, volata fuori dalla crisalide che si era cucita attorno. Nel 2011, in effetti, The Legend of Zelda era un'anziana signora che ricordava le glorie passate, rimuginava sullo splendore raggiunto da giovane; dieci anni dopo, è di nuovo un'adolescente prodigiosa. Del resto, è lo stesso destino che tocca a Purah, la scienziata di Breath of the Wild.
Ma perché è successo, perché era invecchiata, e perché adesso è ringiovanita? Come sono avvenute queste metamorfosi? Qualche mese fa, abbiamo tentato di comprendere l'essenza di Zelda, suddividendo meticolosamente i suoi ingredienti principali: azione, esplorazione, enigmi e, un pochino sotto, comunicazione coi personaggi non giocanti.
C'è stato un periodo, culminato appunto nel 2011, in cui The Legend of Zelda aveva smesso di essere sé stessa: era diventata un prezioso anello al mignolo dell'industria, piuttosto che la sua principessa. Tutto questo in meno di quindici anni: dall'apice di Ocarina of Time, alla nicchia di Skyward Sword, che presentava un mondo cunicolare, e dei progressi fin troppo segmentati, per competere con l'afflato avventuriero, e immersivo, di Skyrim.
Così Aonuma, che non ha mai amato il primo The Legend of Zelda, e di cui abbiamo parlato a lungo ieri, si è guardato intorno: che era successo? Perché lo specchio mostrava un'anziana signora senza corona sulla testa?
Nell'ossessione di migliorare Ocarina of Time, il team Zelda era stato superato a destra e sinistra da tante aziende: in molti aspetti, tranne uno. La cura per i dettagli.
The Legend of Zelda, 1986
Non possiamo evitare di parlare della nascita quasi mitologica di The Legend of Zelda, che, secondo Miyamoto stesso, sarebbe una rappresentazione interattiva del suo infantile peregrinare per i boschi di Sonobe, terra natia: camminate in cui si imbatteva in sorprese inaspettate, in laghi mai visti, in spaventose caverne in cui bisognava essere coraggiosi - già, coraggiosi, non saggi o potenti, ma coraggiosi - per entrare. Fin dall'inizio, nella mente di Miyamoto, The Legend of Zelda è stato quindi, sopra ogni cosa, esplorazione, coraggio e scoperta.
Questo a livello ideale; dal punto di vista pratico, il gioco è nato come una serie di dungeon da attraversare e superare, con degli oggetti da raccogliere per superare i punti più ostici. Hyrule è arrivata soltanto dopo, ma è divenuta il tratto maggiormente distintivo dell'avventura: è lei a dissociare, più di ogni altra cosa (assieme all'inquadratura, dall'alto piuttosto che laterale), questo gioco dal coetaneo Super Mario. Uno libero ed esplorativo, l'altro lineare.
La mappa di The Legend of Zelda è stata disegnata di getto. Partendo dal centro, Miyamoto (mancino) e Tezuka (destrimane) hanno tracciato tutti i quadranti con matita, pennarello e bianchetto.
Come ha rivendicato Aonuma nel 2014, presentando per la prima volta Breath of the Wild, questo gioco era già open world. Ma, esattamente come Breath of the Wild in epoca tridimensionale, non era certo il primo. E gli action-rpg, a differenza di come a volte si legge, esistevano già; soprattutto su PC. Ecco, la pubblicazione di The Legend of Zelda ebbe una grande importanza per l'industria in generale, ma per il mercato console fu addirittura un evento mastodontico. All'epoca, e fino ad allora, la libreria NES era ricca - soprattutto - di giochi lineari e prettamente arcade. The Legend of Zelda era dispersivo, coinvolgente, difficile, esplorativo, ricco di oggetti e sentieri nascosti. In Occidente, per la prima volta nella storia del mercato console, dava la possibilità di salvare i propri progressi.
Era la miracolosa unione dell'anima arcade delle sale giochi, e dello spirito complesso e raziocinante dei GDR per computer (genere che, non casualmente, dopo The Legend of Zelda sarebbe proliferato anche su console). Ma tutto ciò non sarebbe bastato se, ad amalgamare queste due caratteristiche, non ci fosse stata una realizzazione tecnica sopraffina: a livello interattivo, se paragonato a tutto ciò che di simile era venuto prima, The Legend of Zelda apparteneva a una categoria superiore. Per fluidità, controlli e coesione generale dell'opera.
Non fosse bastata la cartuccia dorata a evidenziarne la straordinarietà (e quante volte chi scrive lo ha affittato per quello, e quante volte lo ha odiato perché non sapeva dove andare), Miyamoto la battezzò prendendo in prestito il nome della moglie di Francis Scott Fitzgerald (autore, tra le opere più famose, de "Il Grande Gatsby" e de "Il curioso caso di Benjamin Button"), Zelda Sayre: scrittrice anch'ella, perfino pittrice, ahinoi alcolista, tristemente morta in un incendio. Una donna geniale, unica, un nome perfetto e un riferimento culturale alto.
The Legend of Zelda avrebbe dovuto esibire ancora più platealmente la propria regalità; il suo tema musicale dominante, fino a pochi giorni prima dell'uscita, sarebbe dovuto essere il Bolero di Ravel. Nintendo si accorse in ritardo che, per usarlo, avrebbe dovuto pagare i diritti (all'epoca ancora vigenti); così Koji Kondo si mise all'opera e, nel giro di una sola notte, compose la melodia che tutti conosciamo (questa).
Leggenda, da A Link to the Past a Ocarina of Time (1991-1998)
Abbiamo scritto all'inizio che il modo peggiore per celebrare un anniversario è proprio quello di narrare pedissequamente gli eventi di una serie; ci siamo immediatamente contraddetti, nei fatti, ma era necessario. Del resto, per una ricorrenza del genere, era fondamentale ricordare la nascita della saga: lo sarebbe stato comunque, ma in questo caso era davvero imprescindibile, perché è proprio da quei concetti lì che The Legend of Zelda è recentemente rinato.
Adesso, però, dobbiamo parlare di come è invecchiato. E di come si tiene vivo un mito per trentacinque anni, in un'industria che subisce enormi cambiamenti ogni lustro.
La seconda tappa fondamentale della serie arriva nel 1991, e si chiama A Link to the Past: diretto da Tezuka e prodotto da Miyamoto, esce per Super Nintendo. È un gioco meno difficile del precedente, più morbido e armonioso, con una progressione meno dispersiva e un aspetto, non solo grazie all'avanzare tecnologico, più cartoonesco. I dungeon divengono più elaborati e ben concepiti, a più piani, focalizzati sull'utilizzo di un singolo strumento nascosto al suo interno; la mappa, sempre aperta, viene scissa in due realtà parallele, tra loro magicamente intersecate. Un titolo colossale, che introduce quella che sarebbe diventata la formula classica di Zelda. Nel gergo di Eiji Aonuma, "la convenzione".
Una struttura che sarebbe fiorita e deflagrata nel successivo capitolo per home console, pubblicato nel 1998, dodici anni dopo l'originale: ci lavora un dream team, probabilmente la miglior squadra mai esistita nell'intera storia dell'azienda. Miyamoto dirige il progetto, e subito sotto di lui ci sono Tezuka, Koizumi e Aonuma. Assieme danno vita al primo The Legend of Zelda tridimensionale, il leggendario Ocarina of Time: probabilmente è proprio qui, nel 1998, che la saga si proietta definitivamente nel mito. Questo capolavoro dà spessore e concretezza al suo essere "Leggenda": con questo titolo, che divulga perfino lo Z-Targeting (il lock-on), la serie riscrive ancora una volta la storia dell'industria, un traguardo che pochissime altre saghe possono vantare.
La struttura quindi, pur portata in tre dimensioni, è quella di A Link to the Past. Con una grande differenziazione: la mappa è più segmentata, non più totalmente interconnessa, ma tenuta assieme da una grossa prateria centrale. Viste le possibilità dell'epoca, e data la magnificenza generale, in pochi ci fanno caso. Ocarina of Time non è solo un'avventura dalle meccaniche straordinarie, ma anche un immenso mondo fantastico in cui perdersi: accedendo all'Hyrule Field dopo il primo dungeon, l'Albero Deku, si spalanca di fronte a Link - e al giocatore - un universo di possibilità, immerso in un ciclo giorno/notte mai così credibile e consistente.
Vecchiaia, da The Wind Waker a Skyward Sword (2002-2011)
The Wind Waker (2002) non è un The Legend of Zelda fondamentale come quelli citati finora; ma è comunque quello che, rispetto ai diretti successori, ha maggiormente dialogato col DNA fondante della saga. Rispetto alla lunghezza dello sviluppo, due soli anni, ha ottenuto risultati eccezionali: per raggiungere la perfezione avrebbe necessitato di più tempo, e nelle meccaniche strutturali era fin troppo conservatore, fin troppo devoto a Ocarina of Time.
Tuttavia, The Wind Waker ha portato un nuovo engine, che sarebbe durato, con modifiche più o meno ampie, per ben dieci anni. Un motore eccelso, che forse per la prima volta rendeva The Legend of Zelda piacevole e morbido da toccare, a livello di controlli, quasi quanto Super Mario. La qualità dell'interazione era elevatissima. Allo stesso tempo è stato l'ultimo, prima di Breath of the Wild, a far avanzare concettualmente l'overworld: un gigantesco mondo aperto, con poche isole, ma sostanzialmente libero nell'esplorazione. Si poteva andare, come nei primi capitoli, nel posto sbagliato al momento sbagliato. In quel mondo cartoonesco e ispirato ai miti greci e celtici, ci si poteva perdere nelle meraviglie dell'oceano. Qualcosa che non si può dire per gli episodi successivi. La "formula classica" introdotta da A Link to the Past era un mezzo per arrivare a un fine: rendere esplorabile un mondo enorme, rendendolo anche straordinario da giocare. Twilight Princess, e soprattutto Skyward Sword, hanno perso di vista quell'obbiettivo finale, focalizzandosi solamente sul perfezionamento della struttura.
Con gli anni, il ciclo giorno/notte è diventato quasi irrilevante. Non è stato più possibile perdersi. The Legend of Zelda non ha mai rinunciato alla qualità, all'interazione, al dettaglio; ma, complice forse anche la stasi tecnologica in cui, per varie ragioni, Nintendo si era rinchiusa, la serie aveva abbandonato alcuni dei suoi concetti chiave. Skyward Sword aveva dungeon bellissimi e un mondo pieno di enigmi, ma aveva perso quasi del tutto l'avventurosa curiosità della scoperta. Pur narrando la genesi di Hyrule, e della Spada Suprema, quel gioco era lontanissimo dallo spirito che aveva generato il capostipite della serie. A venticinque anni, come dicevamo all'inizio, The Legend of Zelda era un'anziana signora che ricordava la sua gioventù, spiegando le sue origini. In modo splendido, ma sembrava ormai più storia vivente che leggenda.
La resurrezione, Breath of the Wild (2017)
Sappiamo come sono andate le cose. Nell'ossessione di superare Ocarina of Time, nell'intento di migliorarne i dungeon e gli enigmi, Nintendo aveva perso di vista il fulcro della serie: che non sta nel tagliare l'erba o i cartelli, nell'accendere una torcia, o nell'ammirare gli straordinari dettagli. Aonuma, da persona intelligente qual è, detta le coordinate per risorgere: tornare a quei concetti che avevano reso grande il capostipite, e portarli in tre dimensioni.
The Legend of Zelda, all'alba dei trent'anni, riprende il cammino abbandonato con The Wind Waker: riabbraccia l'open world, con una straordinaria foga poietica. Finalmente ci sono le possibilità tecnologiche per affrontare un'ambientazione aperta in tre dimensioni, senza, al contempo, rinunciare all'amata qualità dell'interazione.
L'open world è stato la tematica dominante delle produzioni AAA dello scorso decennio; come si poteva inserire The Legend of Zelda in un simile contesto, senza condannarla all'anonimato? La risposta è stata trovata, ancora una volta, nel dettaglio: non più una finalità, ma, come al principio, un mezzo per raccontare un'avventura straordinaria in un mondo enorme. I direttori di progetto sono uomini nati negli anni '70 e '80: sono loro a elaborare il nuovo engine, e a metterlo alla base dell'opera. Un sorprendente motore fisico, atmosferico e chimico, che sorregge un gioco in cui si possono tagliare gli alberi, in cui se piove si generano delle pozzanghere e non si possono scalare le pareti rocciose, un gioco in cui il metallo attira i fulmini. Una microstruttura che illumina l'immensità di Hyrule.
Attraversare il mondo pulsante di Breath of the Wild dona una sensazione straordinaria, e diversa da qualsiasi altro open world tridimensionale esperito in precedenza. In questo modo, The Legend of Zelda si è ripresa la corona. Esplorazione, interazione, scoperta. Gli stessi ingredienti dell'episodio NES, trent'anni dopo.
Il futuro
Ed eccoci qui: trentacinque anni, una saga osannata come ai tempi migliori, e venduta come mai in passato. Il futuro di The Legend of Zelda è roseo, e siamo in attesa di conoscerne i dettagli: arriveranno quest'anno, a differenza - forse - del seguito di Breath of the Wild.
Non vogliamo smorzare il vostro entusiasmo, ma è molto difficile che l'impatto del prossimo capitolo possa essere paragonabile alle più importanti iterazioni della serie. Non c'è un singolo titolo che sia riuscito a scrivere la storia (non della serie, ma dell'intera industria dei videogiochi) che allo stesso tempo non abbia portato con sé un engine rinnovato.
Chissà quanto tempo passerà prima di avere un altro Ocarina of Time, o un altro Breath of the Wild. Crescere con The Legend of Zelda è stato bellissimo; a venticinque anni era più vecchia dei suoi coetanei, a trentacinque è più giovane. Uno dei misteri dell'arte.
Tra altri trentacinque, chi è nato nel suo stesso anno - come chi scrive - sarà, nella migliore delle ipotesi, un arzillo settantenne, avviato al tramonto della sua esistenza. Lei, al contrario, potrà continuare a rinnovarsi, a plasmare e far crescere i videogame, mostrando delle Hyrule sempre più complesse e strutturate, altre sterminate praterie su cui perdersi ascoltando il rumore del vento.
Tra trentacinque anni, nel 2056, ci sarà un'altra persona che scriverà, lo speriamo per la saga, un articolo come questo. Una persona che magari giocherà con Neuralink impiantato nella corteccia cerebrale, che si interfaccerà all'avventura con stimolazioni neurali, che potrà vedere Hyrule senza schermi e sentirne le musiche senza casse, o cuffie. Che potrà addirittura odorarne, e raccoglierne, i fiori.
Ci sarà un giornalista che magari, in cerca di ispirazione, leggerà proprio questo articolo, conservato chissà dove in un archivio virtuale di qualche nerd, e si chiederà come fosse attendere The Legend of Zelda quando Miyamoto era ancora vivo. Che si chiederà se Breath of the Wild, al momento dell'uscita, fosse davvero così speciale come si raccontava.
Perché no. Potrebbe andare proprio così. Hyrule, come la Fantàsia di Michael Ende, è alla continua ricerca di un Eroe, di un Bastian che la salvi dall'avanzare del Nulla. Finora lo ha sempre trovato. In attesa del prossimo anniversario, quindi... tanti auguri, principessa. Anzi, regina.