Giriamo un po'
Il filmato iniziale mostra un homeless (un certo Anthony Williams) a passeggio su una superstrada intasatissima di macchine. Il tizio, dotato di lingua tagliente e spirito di sopravvivenza, scambia qualche insulto con gli automobilisti nevrotici e inferociti, prima di assistere ad un incidente aereo che spargerà per la città un liquido verde radioattivo. Da qui inizia il gioco: riusciremo, nei panni del barbone, a sventare la minaccia terroristica incombente sulla città? Ma, soprattutto, riusciremo a sopportare le missioni ripetitive e l’umorismo ubriaco che pervade tutto il gioco?
da un designer/autore considerato un artista, è normale attendersi qualcosa di nuovo e stupefacente, che vada oltre il pattume mainstream. Purtroppo nel mondo dei videogiochi non basta l’ego per realizzare un buon prodotto
Giriamo un po'
Presa in mano la situazione e fatto qualche passo nel primo livello, capiamo subito che la struttura di gioco è piuttosto lineare. C’è qualche accenno di free roaming, qualche enigma elementare da risolvere e qualche missione secondaria solitamente associata ad una primaria. Lo stile visivo è cartoonesco ma, nonostante l’indubbio fascino, pecca molto nelle animazioni, solitamente povere e inadeguate a fornire una descrizione delle situazioni. L’impressione generale, superato il tutorial, raccolti i primi oggetti e dato qualche pugno a zombi è passanti, è che non c’è molto da fare sull’affollatissima autostrada di Los Angeles su cui ci troviamo. A parte le azioni standard è stato implementato un sistema di calcolo dei rapporti con gli altri cittadini (rappresentato da un misuratore in alto a destra sullo schermo): più azioni deplorevoli compiamo, più i cittadini ce l’avranno con noi (smetteranno quindi di dare informazioni e attaccheranno il personaggio a vista). Il rapporto con la popolazione, quando deteriorato, potrà essere recuperato compiendo qualche bel gesto (curare i feriti, spegnere con l’estintore le fiamme sulle auto, spegnere quelle sulle persone, curare gli zombi).
Giriamo un po'
Imparare a combattere è semplice e fondamentale per sopravvivere. Potremo usare armi da corpo a corpo e armi da fuoco, rinvenibili normalmente dai cadaveri, per abbattere i nemici che ci si pareranno davanti. Insieme a voi ci saranno anche degli altri personaggi di supporto (ad esempio un tizio con la sega elettrica che si diverte a sventrare gli zombi) che vi forniranno aiuto in combattimento e nella risoluzione di alcune quest. Insomma, il sistema è piuttosto banale ma funzionale… peccato che il divertimento latiti a causa di alcuni problemi di cui parleremo tra poco.
Perché è capitato a me?
“Fino a qui tutto bene”, diceva la voce narrante di un film piuttosto profetico… il problema è che quello che abbiamo scritto è tutto ciò che il gioco contiene. Il gameplay vi sembra piatto? Bravi, avete ragione. Purtroppo Bad Day L.A. manifesta sin da subito dei limiti immensi che si riflettono sulla sua struttura. Prendiamo ad esempio le quest. Queste sono poche e molto ripetitive; solitamente si limitano a chiederci di curare qualche ferito, salvare o eliminare degli zombi, raggiungere una certa locazione e poco altro. Alla quarta volta che occorre andare a cercare persone da curare, viene voglia di tornare a Windows per farsi una partita a Prato Fiorito. Purtroppo, a parte varianti di nessun conto, c’è poco altro da fare. Di andarsene in giro liberamente non se ne parla. Le aree esplorabili sono molto limitate e, comunque, ben presto ci si accorge che di segreti non ce ne sono e quindi non vale la pena sbattersi in ricerche infruttuose.
Ma almeno il mondo di gioco è interessante? Le interazioni ci sono? Che si può fare? Ognuna di queste domande meriterebbe uno sghignazzo, ma visto che siamo belli, buoni e bravi ci dilunghiamo un po’ nell’illustrare cosa funziona e cosa non funziona nel mondo in questa Los Angeles senza valori. A funzionare è poco. A parte l’ambientazione in sè, il resto è da dimenticare. La città è molto popolata… forse troppo popolata. Prendiamo una situazione pratica: siamo in strada, eliminiamo un paio di terroristi e ci accingiamo a fare le cose nostre quando, dopo pochi istanti… i nemici sono riapparsi. Ma come? Un attimo fa quella strada senza accessi era vuota, da dove è arrivato quel tizio con il mitra? Il respawn selvaggio non è un caso, ma è presente nel gioco a tutti i livelli. Avete appena eliminato degli zombi ripulendo completamente un tratto di strada? Giratevi in tondo e vedrete che ne sarà riapparso qualcuno non si sa bene da dove. Avete sparato ad un terrorista dietro a una barriera? Pochi attimi dopo ce ne sarà un altro, probabilmente piovuto dal cielo. I game designer non si sono preoccupati minimamente di mascherare il respawn che, alla lunga, diventa frustrante ed elimina ogni possibilità di immedesimazione. Sembra di essere davanti ad un prodotto per i sistemi a 8 bit, dove non ci si preoccupava troppo di dare coerenza alla rappresentazione del mondo di gioco… è ancora accettabile un cosa del genere?
Perché è capitato a me?
Decisamente non in questo caso, dove da problema nasce problema, visto che Bad Day L.A. è frustrante (proprio a causa del respawn) a tal punto da scoraggiare dall’andare avanti e la trama non aiuta dato che non è appassionante nè interessante.
Salviamoci
A questo punto vi starete chiedendo se almeno sia divertente andare in giro a picchiare i passanti. La risposta è no. Anche qui il design soffre di problemi non indifferenti. In primo luogo i passanti sono più resistenti dei terroristi (che hanno dei giubbotti antiproiettile). Per buttarne giù uno con un fucile a pompa bisognerà colpirlo quattro volte a bruciapelo. Con il mitragliatore la situazione peggiora, visto che i colpi da sparare diventano una moltitudine. Non parliamo del corpo a corpo… passare quasi un minuto a picchiare un nemico per vederlo capitolare non è il massimo e, soprattutto, non diverte, vista anche la mancanza di una sensazione di stare facendo effettivamente male. Alla fine si rinuncia ad essere cattivi perché non si ottiene nessuna soddisfazione dal compiere certi atti (lo sappiamo che detta così è da sadici ma non possiamo farci nulla, siamo videogiocatori e le vecchiette indifese sono il nostro pane quotidiano).
I game designer non si sono preoccupati minimamente di mascherare il respawn che, alla lunga, diventa frustrante ed elimina ogni possibilità di immedesimazione
Salviamoci
“Senti cara redazione di Multiplayer.it, picchiare gli altri non è divertente… ma almeno potrò spaccare un po’ di roba? Ovvero, potrò andare in giro a far saltare per aria tutto come in Total Overdose?” No, caro lettore, non potrai. A parte qualche staccionata da spaccare e qualche automobile da far esplodere, il massimo che potrete ottenere dal colpire gli oggetti sarà l’apparizione di una nuvoletta e l’emissione di un effetto sonoro squallido.
Requisiti di sistema
Per far girare Bad Day L.A. occorre avere, oltre ad uno stomaco forte e poche pretese, anche un P4 a 1,6 Ghz o equivalenti, una scheda 3D con 64 MB di memoria e 512 MB di ram. Per andare proprio sul sicuro, arrivate a 2 Ghz di processore, 1 GB di ram e ad una scheda grafica da 128 MB.
Conclusioni
C’è qualcosa che si salva in Bad Day L.A. a parte lo stile? Francamente no. È difficile trarne divertimento, è difficile sorridere alle battute di Anthony ed è difficile appassionarsi ad una trama tanto povera e a tratti insulsa. Le uniche sequenze che si salvano sono quelle shooter in cui si deve sparare all’impazzata usando armi pesanti… ma anche in questo caso non è che si possa gridare al miracolo. Insomma, senza continuare ad infierire… lasciatelo perdere e spendete i soldi altrove.
Pro
- Lo stile visivo
- Le sequenze sparatutto
- Noioso
- Insulso
- Banale
La caduta degli dei?
Bad Day L.A. è come un bambino che mostra quello che sta masticando: crea un fastidio epidermico nell’adulto che lo guarda, ma trova l’approvazione degli altri bambini che iniziano a sghignazzare. Insomma, l’ultima fatica dell’osannato quanto stitico American McGee, che da quando si è messo in proprio ha realizzato solo due giochi: American McGee’s Alice e quello che ci stiamo apprestando a recensire (in Scrapland ha solo prestato il suo nome a fini di marketing, visto che è entrato nel progetto ad opera ormai compiuta), non va oltre il dispetto volgare, legandosi nello stile visivo, al filone dei cartoon cinici inaugurato dai Simpson. Purtroppo ad una scelta stilistica ovvia corrisponde un prodotto insulso e paradossalmente privo di una sua personalità.
Da un designer/autore considerato un artista, è normale attendersi qualcosa di nuovo e stupefacente, che vada oltre il pattume mainstream. Purtroppo nel mondo dei videogiochi non basta l’ego per realizzare un buon prodotto.