Quando ci si mette al lavoro su un compito impegnativo come la recensione di Starfield è molto facile cadere nella tentazione di mettere da parte l'istinto del videogiocatore per correre dritti verso l'obiettivo e completare la propria missione, cercando di rendersi quasi impermeabili all'universo che orbita attorno all'avatar. Ma la verità è che i mondi costruiti da Bethesda Softworks impiegano giusto una manciata di secondi prima di assestarti un paio di schiaffi e ricordarti quanto un approccio del genere sia sciocco. Pensate solamente al famoso sentiero che lega il piccolo villaggio di Riverwood al colle di Whiterun in Skyrim: l'atmosfera è accarezzata dallo scrosciare di un torrente, un cervo attraversa la strada circospetto, poi all'improvviso il fogliame della foresta si fa da parte, svelando un'enorme ragnatela di avventure stretta nell'abbraccio delle montagne. Come si fa anche solo a pensare di poter correre in un contesto simile? Semplice: solitamente non è possibile.
E così siamo appena tornati a bordo della Reason, astronave da guerra assemblata modulo per modulo, sfuggiti per un pelo all'assalto dello sciame d'insettoidi che aveva invaso una piattaforma mineraria al polo di Eridani IV. Fino a poco tempo fa sfrecciavamo nei vicoli fluorescenti della città di Neon, invischiati in una feroce guerra tra gang, finché tutto non è cambiato in seguito a un incontro fortuito in un saloon, che ha alzato il sipario su un'indagine durata settimane, una ricerca che ci ha portato a inseguire un gruppo di reduci per dozzine di sistemi stellari. Siamo stati spie, pirati, ranger, assassini, esploratori. Ci siamo seduti nei consigli d'amministrazione e abbiamo bevuto negli spazioporti con i peggiori criminali. Siamo stati da una parte e dall'altra di un fucile laser, di una mazzetta di crediti, di una sala per interrogatori. E forse è proprio tra le pagine di questo diario di bordo che si nasconde il segreto del successo dei videogiochi: si tratta di opere interattive che consentono di vivere vite impossibili dall'altro lato dello schermo.
Costruire mondi, gettare le fondamenta di esistenze alternative, regalare una forma tangibile alla classica fuga dalla realtà. Un mantra, questo, che è stato ripetuto per anni da una bottega con sede nel Maryland, uno studio di sviluppo come tanti altri, non fosse per il fatto che fra cubicoli e sale riunioni non si impacchettano semplici prodotti: si forgiano interi universi. Mosaici di vicende, personaggi e luoghi capaci di instillare la rarissima scintilla della vita nel cuore del nostro io digitale, proprio come successo prima nelle regioni di The Elder Scrolls e poi nell'inverno nucleare di Fallout. Ma c'è un terzo mondo virtuale che per anni ha serpeggiato per i corridoi di quegli studi, solleticando la fantasia di Todd Howard e le penne dei più storici autori, un misterioso "gioco nello spazio" che per tempo immemore è rimasto un banale sogno rinchiuso in un cassetto, un nome scritto su una lavagna: Starfield. La terza anima di Bethesda Softworks, l'epica avventura fra le stelle, quella che sarebbe stato impossibile realizzare senza le tecnologie adeguate.
C'è però una grande, colossale differenza rispetto al passato: Starfield non è un singolo mondo virtuale interamente costruito a mano, ma uno spicchio di galassia che di mondi ne mette in scena a centinaia, caricando i giocatori sopra una navicella con la promessa impossibile di regalargli un'indimenticabile odissea nello spazio. Lassù, alla deriva in mezzo agli astri, abbiamo scoperto un videogioco dalla doppia anima, sorretto da una grande ambizione ma proprio per questo costretto a stringere pesanti compromessi, proiettato verso il futuro ma figlio di una ricetta fortemente radicata nel passato. Ciò che conta, d'altra parte, è che lo scopo di Bethesda è rimasto quello che l'ha trainata al successo: raccontare una vita alternativa, questa volta nei recessi della Via Lattea.
Ambientazione: oltre il singolo mondo
Se c'è una cosa in cui gli artisti di Bethesda sono e resteranno per sempre dei maestri, quella è la costruzione del mondo. Starfield prende forma in una frazione della galassia nota come Sistemi Colonizzati, l'insieme di un centinaio di stelle che sono divenute da tempo la nuova casa della specie umana. C'è però un vecchio detto che parla della guerra e che racconta di come questa non cambi mai: sono infatti trascorsi giusto un pugno di anni prima che gli esuli del Sistema Solare imbracciassero le armi e si dividessero in fazioni contrapposte. Le più grandi sono le Colonie Unite e gli indipendentisti del Collettivo Freestar, due potenze che hanno infiammato il vuoto siderale attraverso la grande Guerra Coloniale, le cui cicatrici restano tutt'ora impresse a fuoco nelle dozzine di strutture belliche abbandonate, oltre che nei cuori dei reduci e dei civili. Una frattura, questa, che si è riflessa nel design alla base degli insediamenti, degli abiti, di tutto ciò caratterizza le diverse volte celesti: se quella di Nuova Atlantide è una metropoli moderna e vibrante, pulita e sinuosa, la Akila City al centro dei sistemi Freestar si presenta come una cittadina che sembra sbucata dalla frontiera del far west, pattugliata dal corpo dei ranger e circondata da canyon monumentali.
E poi c'è Neon, ecomostro cyberpunk senza leggi in cui i "ratti" lottano per sopravvivere all'ombra delle gigantesche corporazioni, oppure ancora Cydonia, poverissimo insediamento minerario che come un formicaio divora la superficie di Marte. Sono decine i gruppi armati, gli insediamenti autonomi, gli spazioporti che punteggiano la volta celeste: ci sono stazioni spaziali divenute le sedi del mercato nero di pirati senza scrupoli, ci sono metropoli piagate dalle invasioni di xenoarmi, esistono persino resort planetari da sogno come Paradiso, o ancora ospedali itineranti come la Clinica, assieme a decine di altri luoghi che mutano incessantemente le atmosfere, le tematiche trattate e le ispirazioni artistiche.
Anche se si è parlato spesso di un'influenza "NASApunk", il più grande punto di forza di Starfield risiede proprio nella varietà di fantasie differenti a cui è riuscito a dare sfogo, affiancando design squisitamente vintage ad architetture impossibili, città utopistiche a bassifondi fatiscenti. È un'opera che mescola costantemente il vecchio e il nuovo sui fondali di un mondo che riesce a essere al contempo western, cyberpunk, horror, new wave, egualmente aperto alle dinamiche della fantascienza e a qualche incursione nell'etica, integrando alcune scelte che sono in grado di inchiodare di fronte allo schermo: cosa sareste disposti a sacrificare per varcare la nuova frontiera del progresso?
A un certo punto emerge l'altro volto di Starfield, quello più nascosto, più intimo, radicato nei silenzi dello spazio. Quello fatto di pietraie rosse scaldate da stelle lontane, di planetoidi dalle temperature infernali su cui piovono fulmini radioattivi, di biomi primordiali battuti dalle zampe di anfibi e dinosauri. È allora che l'evoluzione del Creation Engine arriva a dare il meglio di sé, generando gelide catene montuose e panorami oceanici, biosfere brulicanti di vita e deserti rocciosi in cui non si sente volare una mosca, non fosse per la maestosa colonna sonora di Inon Zur. Le antiche architetture belliche si stagliano continuamente contro cieli sconosciuti, accarezzate dalle luci di tramonti violacei che riescono a dar vita a vere e proprie cartoline dallo spazio. Al tempo stesso, quasi ironicamente, è proprio lo spazio a emergere quale più grande limite della nuova produzione di Bethesda.
Esplorazione: troppi compromessi per un mare di stelle
Cuore pulsante e linfa vitale di qualsiasi esperienza partorita dallo studio risiede solitamente nell'esplorazione, motore silenzioso dietro le avventure che hanno affrescato i fondali di ciascuna opera della casa; Starfield, dal canto suo, rovescia questo paradigma, delineando un universo nel quale sono le missioni a trovare il giocatore e non il contrario, cambiando totalmente l'approccio al mondo e - per certi versi - sacrificando l'elemento della scoperta. L'esplorazione dello spazio, semplicemente, avviene in modo passivo: la navicella a disposizione del protagonista si configura infatti come una sorta di piattaforma per il viaggio rapido, dal momento che non è possibile pilotarla lungo la superficie, in fase di decollo e di atterraggio, durante i viaggi all'interno dello stesso sistema stellare e ovviamente in fase di salto gravitazionale. Ciascuna di queste operazioni è accompagnata sempre dall'accesso alla mappa, da un filmato e da un caricamento vecchio stile, in maniera diametralmente opposta rispetto a quanto codificato da altri videogiochi ambientati fra le stelle, No Man's Sky su tutti.
L'unico momento in cui si mette effettivamente mano alla cloche è quando ci si trova in orbita attorno a un singolo pianeta o a una stazione spaziale, ovvero la cornice selezionata da Bethesda per mettere in scena i suoi classici incontri casuali: è solo in queste situazioni che capita di interagire con altre navicelle, di darsi alla pirateria, di abbattere eventuali aggressori o di soccorrere naufraghi stellari, di fatto relegando l'intero sistema di volo esclusivamente a queste minute parentesi. Ciò significa che non è possibile navigare verso l'ignoto con il fine di scoprire effettivamente qualcosa di significativo, di individuare a occhio nudo un complesso che cattura l'attenzione e atterrarvi accanto, più semplicemente di esplorare le ambientazioni in maniera organica: bisogna sempre affidarsi alle singole missioni e alle puntine visibili direttamente dalla mappa, gli unici strumenti che riescono a guidare l'astronauta verso le destinazioni che vale davvero la pena visitare.
Le cose cambiano completamente quando si atterra su un pianeta, ma non lo fanno necessariamente in meglio: una volta mossi i primi passi sul terreno sconosciuto - ovvero aree molto vaste delimitate da confini invisibili - attorno all'astronave vengono generati in maniera procedurale una serie di punti di interesse e strutture costruite a mano dagli artisti della casa, al fine di riempire gli spazi di un mondo tanto esagerato. Ciò significa che, camminando per qualche chilometro nel vuoto di qualsiasi corpo celeste, capita di incontrare piattaforme minerarie abbandonate, laboratori dismessi, piccole caverne e torri di ricerca. Nei primi battiti dell'avventura è come assistere a un'affascinante magia: l'opportunità di vivere situazioni emergenti in mezzo a panorami maestosi sa generare sequenze potenti e momenti di grande impatto, ma l'incantesimo finisce per dissolversi dopo una manciata di ore, non appena inizia a entrare in gioco l'inevitabile ripetitività delle architetture.
Questi punti d'interesse non tendono semplicemente a ripresentarsi tali e quali all'infinito, tornando costantemente con la medesima planimetria e lo stesso posizionamento degli oggetti, ma finiscono per invadere anche la cornice della missione principale. Il risultato è che può capitare d'imbattersi tre, cinque, anche dieci volte in un "Criolaboratorio" esattamente uguale a tutti quelli visitati in precedenza, persino fra le destinazioni in cui si svolgono vicende legate alla trama, svuotando rapidamente di qualsiasi significato concreto e premiante l'esplorazione della superficie planetaria. Ma c'è un altro effetto collaterale, per certi versi ancor più ingombrante: dal momento che s'incontra più volte lo stesso punto d'interesse, Bethesda non ha potuto integrare in maniera coerente la sua classica narrazione ambientale - ovvero le piccole storie che colorano le ambientazioni attraverso terminali o note testuali - perché la scrittura di un profondo background per tali luoghi avrebbe cozzato con la possibilità di ritrovarli identici ad anni luce di distanza.
La sensazione della scoperta, storico marchio di fabbrica di Bethesda, è dunque mutata completamente in ragione della natura del progetto, cedendo definitivamente il passo a una nuova interpretazione: se per raggiungere le destinazioni più interessanti, quelle uniche e progettate a mano, è necessario muoversi in maniera passiva inseguendo missioni e puntine sulla mappa stellare, le città e i maggiori punti d'interesse si rivelano invece labirinti pieni zeppi di dialoghi contestuali e interazioni che non cessano mai d'inseguire il protagonista, gettandosi letteralmente fra le sue braccia. Basta muovere qualche passo nei bassifondi della città di Neon, ad esempio, per ritrovarsi fra le mani un'esagerata quantità di piste e vivere dozzine di circostanze originali, svelando un'offerta che sul fronte dei grezzi contenuti mette in imbarazzo le più storiche fra le produzioni della casa. Per riuscirci, tuttavia, Bethesda sacrifica l'esplorazione, tratteggiando una sorta di Skyrim privo di un mondo da scoprire, senza un legame organico fra i punti d'interesse, nel quale ci si sposta solamente per mezzo di viaggi rapidi.
L'equilibrio fra densità e rarefazione è dunque precario: nei cento sistemi stellari che è possibile visitare, i luoghi degni di nota sono un granello di sabbia in mezzo a tantissimi pianeti virtualmente deserti, mentre per poterli raggiungere non bisogna navigare curiosi fra stelle e vallate, ma passare attraverso una serie di menù e caricamenti.
Narrazione e missioni: Constellation è solo l'inizio
La cosiddetta "trama principale" non è mai stata il centro di gravità delle opere Bethesda, presentandosi sempre come un sottile fil rouge destinato a legare le fondamenta del mondo virtuale, di solito il reale e indiscusso protagonista dell'esperienza; nella Via Lattea, tuttavia, le cose sono leggermente cambiate. Starfield ha compiuto una scelta intelligente, trasformando la vicenda centrale in un pretesto per traghettare i giocatori ai quattro angoli dei Sistemi Colonizzati. Dopo aver creato il proprio alter ego e vissuto un'introduzione molto lontana dalle dinamiche power fantasy, ci si trova infatti al cospetto di Constellation, l'ultimo baluardo dei più classici esploratori spaziali: da sempre all'inseguimento dell'ignoto, questo gruppo eterogeneo è sulle tracce di una serie di misteriosi manufatti legati a strane anomalie gravitazionali, ed è proprio tale ricerca a intessere la grande tela della narrazione. Non ci sono minacce cosmiche imminenti, non c'è nessuna predestinazione, non esiste una missione specifica che il protagonista deve compiere con urgenza: ciò che si chiede ai membri di Constellation è semplicemente di esplorare il cosmo senza porsi alcun limite, senza seguire alcuna regola, raccogliendo più informazioni possibile riguardo gli artefatti sconosciuti.
Gli altri membri di Constellation - tra cui potenziali compagni dotati di romance e missioni dedicate - assolvono dunque il ruolo del Virgilio interstellare, introducendo il giocatore ai centri di potere, ai costumi delle diverse fazioni e ai dettami delle nuove religioni che si sono fatte strada nei Sistemi Colonizzati. Se, per certi versi, questa potrebbe apparire come una frettolosa e blanda premessa narrativa, la verità è che consente di incarnare alla perfezione il background e la fantasia che si è scelto di ricamare attorno al proprio personaggio. Non bisogna vestire i panni di un baluardo del bene comune come il Sangue di Drago, non c'è di mezzo una vendetta ingombrante come quella al centro di Fallout 4: queste ispirazioni svaniscono del tutto per lasciare il centro del palcoscenico alla libertà di essere chiunque si desidera essere, di fare tutto ciò che si vuole fare. Poi, una volta spiccato il volo, la scrittura tocca vette più elevate rispetto alle passate opere di Bethesda, mettendo in scena anche qualche sezione di grandissimo spessore, prima di risolversi in un'inaspettata modalità Nuovo Gioco+ - perfettamente integrata nella narrazione - fra le più intelligenti incontrate in epoca recente.
Come da tradizione, l'oceano di stelle diventa una tempesta di input: è sufficiente una passeggiata per le strade di qualsiasi insediamento per spalancare un grande ventaglio di opportunità, di fatto celando decine di ore di intrattenimento dietro ogni singolo incontro. Alcune di queste missioni secondarie assumono i connotati di piccoli film di fantascienza autoconclusivi, non privi di colpi di scena: si intercetta una trasmissione di richiesta di soccorso? Quel messaggio cifrato potrebbe trasformarsi in una pellicola d'azione al cardiopalma nella quale due gruppi di militari contrapposti sono rimasti imprigionati in una base sulla superficie di un pianeta; ci si imbatte in una stazione orbitale in rovina? Una volta effettuato l'attracco potrebbe andare in scena una sorta di Alien in miniatura, o magari un omaggio a 2001: Odissea nello spazio, o ancora una citazione a Futurama. Gran parte di quello che si perde sul fronte dell'esplorazione attiva torna nei rari argini costruiti artigianalmente da Bethesda, che ha parzialmente evoluto la sua ricetta originale: le classiche secondarie si possono ora considerare racconti di fantascienza fatti e finiti, ma restano circondate da tantissime varianti trascurabili e attività procedurali pensate per durare in eterno.
Dove l'opera arriva a dare il meglio di sé è nell'orbita delle quattro maggiori fazioni, segmenti che mettono in scena lunghissime avventure costellate di scelte, di profonde interazioni, di personaggi ben caratterizzati, spesso nascoste agli sguardi meno attenti proprio come accadeva in passato con la Confraternita Oscura, ciascuna volenterosa di tuffarsi molto più in profondità nel tessuto della costruzione del mondo, presentando eccellenti sequenze di gameplay e scorci impossibili da ritrovare altrove. Tra interminabili investigazioni dalle tinte noir e pericolosissime operazioni sotto copertura - in cui si accarezza concretamente l'idea di unirsi al lato oscuro - si celano i picchi più alti della produzione, tanto in termini di narrazione quanto sul piano dei coprotagonisti, nonché i momenti in cui Starfield riesce finalmente a sfiorare la sua grande ambizione: quella di accomodare esistenze alternative fra le arterie di un mondo responsivo e scritto a regola d'arte.
Archiviata l'idea di tratteggiare un protagonista "importante", sta a ciascun giocatore costruire la propria storia, a cominciare dalla selezione di un background che determina le abilità con cui ha maggiore dimestichezza; noi abbiamo optato per il Ronin, esperto di furtività e armi corpo a corpo, scoprendo con piacere che già solo l'acquisizione di determinati perk si riflette nelle scelte disponibili in fase di dialogo, un po' come accadeva sulle sponde di Fallout 3. Un concetto, questo, che viene notevolmente evoluto dai tratti scelti, ovvero un massimo di tre caratteristiche specifiche che hanno un peso considerevole nell'economia dell'esperienza: selezionando "Ratto di Neon", ad esempio, il protagonista può sfruttare tutta l'esperienza maturata nei vicoli di quella particolare città per svelare missioni aggiuntive e diverse soluzioni altrimenti inaccessibili, in modo decisamente più efficace rispetto a quanto messo in scena dalle timide origini di Cyberpunk 2077.
La grande nota positiva è che questa ispirazione si riflette anche nella crescita del personaggio, al punto tale che portando a termine le vicende delle fazioni si ottengono ulteriori interazioni dedicate, per esempio trasformando quelli che normalmente sarebbero nemici in improbabili alleati, o incrementando le opzioni in date circostanze. Il peso delle decisioni, d'altra parte, mantiene la proverbiale relatività delle passate avventure dello studio: le scelte d'impatto sono aumentate e l'allineamento malvagio è decisamente più supportato - specialmente quando si tratta delle fazioni - ma nonostante l'opera sia punteggiata di gradevoli scambi e dialoghi unici, il mondo di gioco non riesce ancora a rispondere in maniera convincente alle azioni del giocatore, portando solo in rare occasioni forti conseguenze nel grande disegno dell'avventura. In poche parole, si tratta del solito universo in cui è possibile essere contemporaneamente guardie e ladri, eroi e assassini, nel quale tutto torna quasi sempre allo stato originale, studiato per consentire a chiunque di vivere ciò che l'ambientazione ha da offrire senza porre alcun limite, neppure quelli della coerenza e della profondità.
Gameplay: una galassia di possibilità
La prima considerazione da fare quando si parla del gameplay di Starfield è che nei Sistemi Colonizzati si spara, e si spara tanto. Prima della pubblicazione, gli sviluppatori hanno parlato dell'impossibilità di portare a termine un'intera partita da pacifista e il motivo è molto semplice: al cuore, quella confezionata da Bethesda rimane un'esperienza fortemente radicata nell'azione. Pirati spaziali, mercenari, robot impazziti, insettoidi alieni: orde di nemici d'ogni genere pattugliano le profondità delle miniere, i corridoi dei laboratori bellici, le antiche armerie dismesse, trasformando gli scontri a fuoco - o le più caute infiltrazioni stealth - nell'ingranaggio fondamentale del marchingegno galattico. La spina dorsale del sistema di combattimento risiede nella medesima struttura sparatutto di Fallout 4, leggermente limata per aggiungere un pizzico di dinamismo agli scontri e soprattutto scrollarsi di dosso gli ultimi residui di legnosità del Creation Engine, realizzando un amalgama più fluido e responsivo. La sola presenza dei boostpack che consentono di sfruttare al massimo la verticalità, così come quella delle aree a gravità zero in cui il rinculo delle armi si fa fisicamente sentire, cambia in modo efficace l'approccio agli scontri, raccogliendo la sfida di un design dei livelli che riesce a premiare la fantasia.
Prima di tuffarsi nell'analisi delle meccaniche bisogna infatti fare un plauso ai creativi della casa, che hanno alzato l'asticella sul piano della struttura delle mappe, realizzando arene che si piegano alle classiche esigenze dell'azione e labirinti di cunicoli d'aerazione che promuovono l'approccio furtivo, consentendo concretamente di attaccare situazioni differenti in modi diversi, magari senza sparare un singolo colpo e semplicemente violando i sistemi di sicurezza delle strutture. Purtroppo la stessa cosa non si può dire dell'intelligenza artificiale, che è rimasta saldamente ancorata alle semplicissime routine del passato, costantemente impegnata a cercare un riparo dritto di fronte all'avatar nel tentativo di scaricargli addosso il caricatore senza guizzi di sorta. Guizzi che sono invece riservati al giocatore, libero di spaziare fra un arsenale di armi ed equipaggiamenti estremamente ricco, dai fucili laser, passando per le armi vintage della vecchia casa, per arrivare ad assurdi lanciagranate a pompa, trivelle minerarie improvvisate, spade giapponesi e decine di altre opzioni, tutte disegnate in maniera convincente, pescando anche qualche ispirazione dall'estetica di Destiny per quanto riguarda le varianti uniche.
Non c'è bisogno di dire, a questo proposito, che il saccheggio e la presenza del loot costituiscono un elemento fondamentale della ricetta, aprendo all'ormai immancabile sistema di rarità degli equipaggiamenti oltre che a un elenco interminabile di vestiti, caschi, tute spaziali e zaini dotati di tratti unici che impattano superficialmente il gameplay. Un sistema, questo, incorniciato da un albero delle abilità che rappresenta un cocktail fra il passato e il futuro della casa: ciascun "perk" ha infatti diversi gradi di efficacia, e per accedere a quelli più elevati è necessario portare a termine una serie di sfide dedicate; un esempio a caso? Per incrementare le capacità stealth non è sufficiente assegnare i punti, ma bisogna di fatto abbattere un certo numero di nemici ignari della vostra presenza. Anziché limitarsi al piatto incremento statistico, queste capacità accolgono classiche opzioni particolari, come l'abilità di controllare mentalmente un nemico e fargli compiere qualsiasi azione si desidera, oltre che una moltitudine di competenze passive dedicate alla ricerca scientifica, alla manifattura delle armi e ovviamente a tutto ciò che orbita attorno alle navi spaziali.
L'architettura del sistema di volo incarna una semplificazione del DNA simulativo incontrato sui fondali di Elite: Dangerous, trasformando di fatto i veterani dell'opera di Frontier in implacabili macchine di morte. In caso non la conosceste, tale struttura ruota attorno alla gestione in tempo reale dell'energia della nave, che può essere assegnata manualmente ai diversi sistemi fondamentali, ovvero gli armamenti, i propulsori, gli scudi deflettori e il motore gravitazionale; ciò significa che, per esempio, dirottando tutta l'energia dal motore di salto ai propulsori sarà possibile volare più velocemente, sacrificando di contro la capacità di fuggire in caso di pericolo. Il risultato è una danza in mezzo ai campi di asteroidi cadenzata dal boato di cannoni laser e torrette gatling, un costrutto immediato e sufficientemente profondo che mette in scena "dogfight" nei quali l'esperienza del singolo pilota - assieme alla supremazia militare - vince sempre sulla superiorità numerica. Nonostante le sezioni a bordo della nave siano meno presenti rispetto a quanto preventivato, queste meccaniche svolgono il proprio dovere a regola d'arte, tanto che Bethesda ha scelto di premiarle attraverso attività dedicate, per esempio una serie di scontri con navi leggendarie che trascinano fra le stelle l'eredità dei galeoni di Assassin's Creed: Black Flag.
Dove la casa ha segnato un centro perfetto è sul fronte della costruzione delle navicelle, confezionando un profondissimo editor che non si limita esclusivamente alla personalizzazione estetica e all'incremento prestazionale, ma si riflette direttamente nell'architettura degli interni della nave, a tutti gli effetti una seconda casa nello spazio. Per gli appassionati si tratta di un dono del cielo: le autorità navali mettono a disposizione centinaia di armi diverse, di abitacoli, di moduli unici ed elementi decorativi, fissando l'unica regola ferrea nell'installazione di un reattore abbastanza potente per alimentare le componenti fondamentali. Non c'è limite a quello che si può realizzare, dal momento che anche la carretta più sgangherata è completamente modulabile, mentre la galassia è piena zeppa di varianti uniche da recuperare e mettere a nuovo in maniera rapida e intuitiva, secondo una formula che si adatta perfettamente anche alle esigenze di chi mal digerisce i sistemi di creazione. Senza contare che, per coloro che proprio detestano la progettazione, è stata integrata la possibilità di acquistare astronavi nei principali spazioporti, di rubarle in seguito alle battaglie, addirittura di limitarsi a potenziare automaticamente i moduli fondamentali, celebrando una massima che siede al centro del nuovo universo di Bethesda: si è sempre liberi di fare - o di non fare - tutto ciò che si vuole.
Una costante, questa, che sta alla base del sistema di crafting, un moloch che poggia sulla presenza di centinaia di risorse prima di snodarsi fra ricerche tecnologiche, ingegneria delle armi, farmacologia, ma soprattutto la costruzione di interi avamposti planetari. Appresa la dura lezione di Fallout 4, lo studio ha preso la corretta decisione di rendere questo vasto apparato del tutto opzionale, regalando a qualsiasi fanatico la possibilità di mettere in piedi centri d'estrazione e basi militari, spazioporti e insediamenti da sogno, ma soprattutto di farlo quando vuole, come vuole, dove vuole, o addirittura di non farlo affatto. C'è però un effetto collaterale, che si nasconde proprio nella necessità di raccogliere tonnellate di materie prime: la volontà di mettere in piedi un'avventura duratura e significativa si è riflessa nella necessità di dedicarsi a sessioni di farming destinate alla raccolta di minerali, materiali complessi ma anche semplicemente di crediti, tutte risorse fondamentali e spesso difficili da reperire, tanto da diventare un tassello importantissimo nel mosaico della progressione.
Struttura e tecnica: la timida evoluzione di una ricetta antica
"Skyrim nello spazio". La definizione scelta da Todd Howard per raccontare Starfield al pubblico di massa è indubbiamente affascinante, ma presenta anche risvolti problematici: pur essendo ormai ricordato come un successo straordinario, non bisogna dimenticare che il quinto capitolo della saga di The Elder Scrolls resta pur sempre un videogioco del 2011. Ed è indubbiamente vero, il Creation Engine 2 rimane un motore ancora profondamente radicato nella maggior parte dei limiti del predecessore, ma è riuscito a traghettare nel futuro l'ispirazione artistica di Bethesda. Quella offerta da Starfield è un'esperienza graficamente ottima, magari non eccessivamente rifinita in piccolezze come il fogliame della vegetazione, ma capace di restituire scorci mozzafiato e interni estremamente dettagliati, facendo tra l'altro un utilizzo impeccabile del sistema d'illuminazione dinamica, che riesce a mutare completamente l'estetica dei pianeti a seconda dell'istante e del luogo in cui si sceglie di atterrare, con qualche sbavatura solamente nelle ombre. Una ricerca certosina, questa, che si ritrova in ciascun elemento dell'estetica, fra materiali delle tute, finiture delle navi, arredi delle strutture e soprattutto le superfici planetarie, reali protagoniste del processo di rinnovamento.
Ed è un risultato raggiunto stringendo pochi compromessi: Starfield è senza ombra di dubbio il titolo tecnicamente più curato nella storia della casa americana, sporcato da un numero esiguo di bug - praticamente tutti visivi - e solido su Xbox Series X; capita solamente in un luogo ben specifico di soffrire cali evidenti al di sotto dei 30 fps, mentre i saltuari rallentamenti tendono a farsi notare esclusivamente ad avventura inoltrata. La nota dolente risiede in Xbox Series S, macchina che se da una parte fa uno sfruttamento efficace della risoluzione dinamica per garantire un'esperienza tutto sommato buona, per la maggior parte del tempo solida, dall'altra tende a crashare con un po' troppa frequenza in seguito a viaggi rapidi e cambi di zona: in circa venticinque ore di gioco sulla console minore ci siamo trovati di fronte ad almeno una decina di chiusure inaspettate, situazione che dovrebbe essere notevolmente migliorata con la patch del day one. L'unico inciampo vistoso si ravvisa nell'interfaccia, nello specifico della mappa stellare su quattro livelli: non c'è modo, al momento, di ritrovare un pianeta visitato in passato se non controllando manualmente tutti i sistemi, così come non si possono fare ricerche di sorta né posizionare puntine, rendendo in certi casi la navigazione dei menù molto macchinosa, senza contare che non è neppure possibile ordinare le missioni nel diario in base al luogo in cui si svolgono.
A margine, l'opera è punteggiata di tanti piccoli residui della classica struttura del motore proprietario, come gli onnipresenti caricamenti che disegnano un'esplorazione a singhiozzo, gli NPC che perdono qualsiasi barlume di vita una volta esauriti i propri compiti nelle missioni, o ancora i nemici, che non fanno granché oltre a piazzarsi dietro le coperture e correre incontro al protagonista. Ma questi sono sempre stati marchi di fabbrica dello studio, piccole cattive abitudini che si tende a perdonare facilmente nella cornice di esperienze maestose. La differenza, in questo caso, è che la nuova ambientazione interstellare, assieme a tutte le meccaniche che ne derivano, rischia concretamente di erodere elementi essenziali dell'anima di Bethesda, su tutti il fascino dell'esplorazione, l'emozione della scoperta, ma soprattutto la messa in scena organica di un mondo che nel tempo si impara a conoscere come fosse casa propria.
Nonostante ciò, Starfield si presenta un po' come la vecchia ricetta della nonna, quel piatto particolare che si mangiava la domenica: un pasto tradizionale e genuino che non può e non vuole competere con la tecnica e la modernità di un ristorante, ma che nonostante i vistosi difetti riesce a ritagliarsi uno spazio vicino al cuore. Bethesda ha gettato in mezzo a un mare di pianeti la sua antica filosofia, offrendo agli appassionati le centinaia di ore d'intrattenimento che hanno sempre segnato i suoi mondi, senza tuttavia riuscire a portare innovazioni sostanziali né a guardare con curiosità oltre i confini del proprio passato, rimanendo con i piedi saldamente ancorati alla terraferma e lasciando questi compiti nelle mani dei modder. Si può scegliere di osservare questa sua natura con severità, calcando la mano sulle mancanze, oppure di abbandonarsi alla nuova ispirazione creativa, accettando tutti i limiti e le regole del caso per ricevere in cambio l'opportunità di vivere una seconda vita virtuale, questa volta in mezzo alle stelle.
Conclusioni
Starfield è un'avventura colossale che proietta nello spazio l'esperienza maturata dagli artisti di Bethesda, trascinando nella cornice fantascientifica tutti i grandi pregi, ma anche i punti deboli, della storica filosofia creativa. Non si tratta di un'esperienza che consente di navigare in tempo reale verso l'infinito e restare stregati dal senso di scoperta, bensì di un vasto gioco di ruolo con i piedi per terra, cucito direttamente sull'antica formula di The Elder Scrolls, capace di regalare centinaia di ore d'intrattenimento a chiunque sia disposto ad accettarne le regole e i limiti. I grandi miglioramenti che hanno toccato la narrazione e la componente tecnica, assieme alla straordinaria mole di attività offerte, sono infatti mitigati da un'esplorazione disorganica, dalla proverbiale staticità del mondo e da alcuni residui del vecchio Creation Engine. Nel complesso è un enorme videogioco di qualità elevatissima, uno scrigno che racchiude la classica vita alternativa offerta da Bethesda, ma la natura interstellare e le grezze dimensioni rischiano d'indebolire la ricetta della casa.
PRO
- Incredibilmente ricco di attività e virtualmente infinito grazie alle mod
- Background del mondo eccellente, art design eccezionale e panorami mozzafiato
- La scrittura della trama e delle fazioni supera di molto gli standard di Bethesda
- Graficamente notevole e tecnicamente solido, con bug quasi assenti
CONTRO
- Esplorazione totalmente passiva basata su viaggi rapidi, caricamenti e filmati
- Le strutture sui pianeti si ripetono identiche all'infinito
- La formula nello spazio e le sue dimensioni danneggiano alcuni dei maggiori punti di forza di Bethesda
- Il mondo resta ancora eccessivamente statico di fronte alle scelte del giocatore