Il mito ci accompagna da sempre. Ne siamo affascinati. La sua immediatezza cattura e non lascia più andare, evocando immagini al limite della nostra portata cognitiva. Dèi e re, ninfe e guerrieri. Da millenni le loro gesta ci guidano nelle nostre scelte morali e sociali, fino a diventare parte integrante della tela narrativa che ammanta la nostra società moderna. Quando pensiamo ai miti, la nostra mente non può che andare a pescare immediatamente dai lidi greco-romani, o dalle fredde terre scandinave o, ancora, dalle profumate notti d'Oriente. Tuttavia, è bene notare come non sia la distanza nel tempo a fare della mitologia ciò che noi identifichiamo con essa, quanto, piuttosto, l'importanza attribuita a tali eventi sul tavolo della percezione culturale.
I supereroi sono le figure mitologiche dell'era contemporanea, divinità da venerare e temere, le cui gesta vengono narrate da cantastorie che utilizzano la pagina come lira. È il mito americano, che nasce da necessità storiche. Trovare le proprie origini in terra straniera non è cosa semplice.
La frontiera diventa, così, luogo di meraviglia e il vecchio West, dopo la sua lenta e tormentata scomparsa agli inizi del Novecento, pianta le sue radici per diventare il primo, vero mito statunitense; un territorio in cui la realtà lascia sempre più spazio alla leggenda, fino a che anche quest'ultima, impressa in una sorta di dottrina narrativa, non si solidifica nella mente dell'ascoltatore moderno in una massa di fascinazione dalla fonte inesauribile. Un mito, appunto. Il cowboy diventa una presenza sovrumana, con le sue debolezze, certo, ma che quasi assurge al divino, facendosi macchina di morte infallibile, capace di porre fine a orde infinite di carne da macello. I suoi sensi esaltati e la sua forza (di volontà) fuori dal comune lo rendono un supereroe prima che questi divenissero anche solo un'idea completamente formata nella mente dei primi fautori di questa figura plausibile solo nel reame del racconto.
Il western, dalla letteratura, ai fumetti, ai film, ai videogiochi ha conquistato a tal punto il pubblico da divenire un genere a se stante. Per quanto tutti i media visivi abbiano fornito un punto di vista iconico sul tema, niente si avvicina a quella vita da frontiera come ha fatto la saga videoludica di Red Dead Redemption. Il mito prende forma in uno spazio nuovo, che possiamo esplorare liberamente. Non è più solo una storia: il West diventa un'esperienza multisensoriale. Ciò non toglie, tuttavia, che questa esperienza non prenda a piene mani da chi quel mito ha contribuito a fondarlo. Esploriamo insieme la frontiera di Rockstar Games a partire dal legame indissolubile che lo accomuna alle passate esperienze cinematografiche; dove Red Dead Redemption incontra il cinema.
Passione western
Non si potrebbe parlare di Red Dead Redemption senza tutto ciò che di western è venuto prima. Sergio Leone, John Wayne, Sergio Corbucci, Sam Peckinpah, Clint Eastwood sono lo scheletro della saga Rockstar, creata in primo luogo come un grande omaggio a tutte quelle storie che hanno fatto dell'epopea americana un caposaldo culturale.
Di conseguenza, non mancano citazioni dirette a queste opere; vere e proprie riverenze che è impossibile non notare nei giochi, dalla tomba del cowboy senza nome del Clint Eastwood della "Trilogia del Dollaro", alla lettera che cita il protagonista di "Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy, fino all'inquadratura che si palesa quando John Marston scuoia gli animali, "trafugata" da "Cattive compagnie" di Robert Benton, con protagonista un giovanissimo Jeff Bridges.
Django(s)
Partiamo dall'inizio (anche se, in realtà, siamo più vicini alla fine, in questo caso): durante la prima parte del titolo originale con protagonista John Marston, il giocatore si ritrova a dover assaltare Fort Mercer, il covo (poco) segreto di Bill Williamson, un vecchio membro della banda criminale con la quale il protagonista ha passato gran parte della sua vita. Questa sequenza di gioco è diventata iconica per la sua modalità: ci troviamo su un carro trainato da cavalli mentre spariamo all'impazzata con una mitragliatrice Gatling a tutto ciò che si muove.
Per quanto sia ben congegnata e scritta, questa scena prende a piene mani da uno dei capisaldi del cinema western: "Django" (quello del 1966) di Sergio Corbucci. Nel film con protagonista Franco Nero, l'intrepido pistolero si trova a dover affrontare una setta razzista di circa quaranta membri, che lui falcia tutti assieme grazie a una mitragliatrice fissa, nascosta, questa volta, all'interno di una bara.
Non manca, però, l'omaggio anche al ben più famoso (almeno a livello culturale) "Django: Unchained" di Quentin Tarantino. Ovviamente, per motivi cronologici, questa citazione è presente nel secondo capitolo della saga Rockstar, dato che l'originale è uscito due anni prima rispetto all'iconico film. Nello specifico, durante l'atto della faida tra le due ricche famiglie delle Scarlett Meadows (circostanza che fa pensare anche a Per un Pugno di Dollari di Leone), la banda di Van Der Linde deve andare a recuperare il giovane Jack Marston, rapito e portato in una grande magione. Tutta quella sequenza, dall'arrivo alla feroce sparatoria all'interno della casa, ricorda molto da vicino l'iconico finale del film di Tarantino.
Inoltre, molti hanno visto un'analogia tra l'avanzata collettiva della brigata criminale verso la villa e quella presente nella pellicola, ma, personalmente, credo che si vada a scavare molto più indietro, fino a Il Mucchio Selvaggio di Sam Peckinpah, ricreando l'immagine promozionale che ha contraddistinto il capolavoro cruento del regista americano.
Cassidy, Kid, James e Ford
Durante il sesto capitolo di Red Dead Redemption 2, Dutch e Arthur si ritrovano braccati dall'esercito degli Stati Uniti. Arrivati a un dirupo, paiono in trappola, ma, a ricreare la rocambolesca fuga di Robert Redford e Paul Newman in "Butch Cassidy and the Sundance Kid", i due saltano nel vuoto per finire nel funesto fiume che scorre alla base del canyon roccioso.
Ma la sequenza più clamorosa di tutte, ricreata praticamente uno a uno, è quella della rapina al treno nel Lemoyne, presa di forza da uno dei western più soavi del ciclo moderno, "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford", film del 2007 di Andrew Dominik con Brad Pitt e Casey Affleck.
Durante la scena incriminata, vediamo Arthur Morgan salire su un carro posto sulle rotaie, camuffando la propria identità con una bandana. Un treno emerge da dietro la boscaglia e si avvicina imperterrito. Con un laborioso movimento, la macchina da presa, da che era in movimento, si fissa al cacciapietre del treno, procedendo con la locomotiva. La luce del serpente di metallo svela dei volti incappucciati, nascosti nel boschetto che affianca le rotaie, armi da fuoco in mano.
Da qui in poi, la regia lascia spazio al giocatore, che può rapinare il treno, ma ciò non toglie che gli interni e le modalità della rapina continuino a ricordare la sequenza diretta da Dominik. Un omaggio che sfiora il plagio. Una lezione di regia sottocutanea che colpisce anche chi di regia non è interessato affatto.
Oltre lo schermo
L'amore di Red Dead Redemption per il genere western travalica la semplice citazione. Il mondo creato da Rockstar Games vive anche solo di suggestioni provenienti dalle opere dei più grandi narratori del nostro tempo.
L'Odissea di Marston nella morente frontiera americana richiama a grandi linee, e alla rovescia, le vicende raccontate ne "Il mucchio selvaggio" di Peckinpah, in cui una banda di fuorilegge è braccata da un ex membro che li ha traditi, il tutto in un ambiente western oppresso dall'inarrestabile civilizzazione del territorio.
Un po' la stessa cosa accade nel secondo capitolo, ambientato anni prima, ma comunque lontano dall'epoca d'oro dei fuorilegge, regnanti incontrastati dell'America selvaggia. Qui, il filo rosso sembra averlo steso il già citato "Butch Cassidy" di George Roy Hill, che vede protagonista due banditi in fuga dalle autorità che voglio scappare in Bolivia, alla ricerca della libertà più assoluta e di un nuovo inizio in un paese da sogno. Un sogno che, però, rimane tale, quando si accorgono che il luogo è tutto fuorché quello che si erano immaginati.
Come i due pistoleri (appartenuti al vero "mucchio selvaggio", tra l'altro), la banda di Van Der Linde è accecata dalla prospettiva del paradiso in Terra che dovrebbe essere Tahiti, per poi venire a patti con la realtà dei fatti e trovarsi in guai ancora più seri dei precedenti.
Il mito del mucchio selvaggio, quindi, è senz'altro la base di partenza della serie; quello che ne ha segnato le coordinate spazio-temporali e il tono generale. Ne consegue che la frontiera della "Trilogia del Dollaro" di Sergio Leone non può che rappresentare lo spunto per la "preistoria" di questo mondo.
I grandi pistoleri del passato sono fossili, fenomeni da baraccone o criminali in fuga. Il Vecchio West è già vecchio, mancano gli ultimi chiodi da piantare sulla bara. Non c'è speranza per questi individui. Tutti sono destinati a sparire, raggiunti, chi prima, chi dopo, dal passato che li ha accomunati. Il sogno americano si è spostato nelle grandi metropoli del nord est e dell'Occidente rimane solo la polvere e le carcasse lignee delle carovane.
Questo sentimento disilluso è anche ciò che accomuna il gioco a "L'assassinio di Jesse James", dove viene mostrato un West che si vuole svestire dei suoi peccati, fallendo.
La ballata dell'uomo morto
A padroneggiare la nostra percezione del western è anche, in special modo, tutta una serie di suoni, dallo scacciapensieri al fischio. La colonna sonora è ciò che rende la saga di Red Dead Redemption ciò che è. L'abbiamo già analizzata a fondo in un Ti sblocco un accordo, ma è bene sottolineare la rilevanza che un commento musicale possiede a livello audiovisivo.
Il gioco è fatto di lunghe traversate, a cavallo o a piedi, tra i territori incontaminati d'America, dove l'uomo fatica ancora a raggiungere il vertice della catena alimentare. Woody Jackson, compositore di entrambe le colonne sonore, ha espresso più volte la necessità per la saga di spaziare tra le diverse istanze del genere.
Mentre il primo guarda con ammirazione a tutto ciò che hanno aggiunto gli spaghetti western al nostro bagaglio culturale, il secondo torna in madrepatria, riscoprendo la tradizione dei film di John Wayne, ma con un occhio speciale di riguardo a tutto ciò che il western è stato dalla fine del millennio a oggi. La rinascita del genere ha portato a una visione più viscerale del mito americano, più terrena, forse privandola del carattere mitologico per riportarla su un piano decisamente più umano.
Tutto si fa sporco, crudo, ma anche dolce, di una malinconia travolgente. La stessa tendenza seguita negli ultimi anni dal cinema western è quella che pilota il secondo capitolo, specialmente a livello musicale. Impossibile non ritrovare nelle note di Jackson parte di quella leggera pesantezza esistenziale contenuta nella colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis per "Jesse James".
Il primo capitolo ci mette nei panni di un pistolero tradizionale, intento a portare a termine la sua caccia all'uomo come un segugio inarrestabile, la cui leggenda si fa, in un certo qual modo, mito (possiamo ritrovare degli dèi caduti nelle rovine umane che incontriamo durante il gioco). Il secondo, al contrario, ci riporta sulla Terra, una fatta di appetiti americani ancora più insaziabili. C'è una fame nostalgica in Red Dead Redemption 2, una che avvinghia il giocatore e lo fa rimpiangere di ogni passo avanti fatto verso l'inevitabile conclusione di una storia che non lascia scampo.
Da citare ci sarebbe molto altro, da "Quel Treno per Yuma", a "L'insaziabile", a "Gli spietati", ma avrebbe poco senso appesantire ancora di più la lettura con elementi che porterebbero solo a sottolineare, una volta di più, la ricerca, l'affezione e la dedizione che gli autori di questa saga videoludica senza tempo hanno infuso all'interno della loro personale interpretazione di un passato che si è fatto mito.