Questo articolo è stato scritto prima dei tragici eventi che hanno colpito l'arcipelago giapponese l'11 marzo. Tuttavia è convinzione sincera dell'autore che, proprio di fronte alla drammatica condizione in cui versa il Giappone, sia doveroso rendere onore a una cultura le cui espressioni hanno fatto innamorare una generazione, quella dei videogiochi. E dei Mazinga. E dei Conan. Quel Giappone esiste ed esisterà ancora, noi lo aspettiamo, certi che tornerà a sorgere più orgoglioso e affascinante che mai.
Anime, manga e videogiochi: per una generazione, quella che ha sviluppato un senso (anti) estetico e di curiosità verso il mondo tra la fine degli anni '70 e gli anni '90, il Giappone era e forse ancora è una sorta di miraggio.
Un mondo a se stante, un complesso di isole scollegate dal resto dei continenti e di certo ancorato a un universo differente, più divertente, più colorato, più stupido fondamentalmente. Di certo del tutto diverso da quello del Vecchio Continente e della Vecchissima Italia. I robot di Go Nagai e il falsetto delle urla di Ken, i picture book di Porco Rosso, il manga non censurato di Orange Road e il vergognoso (in senso letterale) Video Girl Ai, sono le vitamine che hanno fatto crescere la prima generazione di videogiocatori completi. Quelli che sono nati quando i videogiochi già erano, potendone seguire la prima e anche la seconda esplosione (Atari e Nintendo)... e pure la terza già che ci siamo (PlayStation).
In cameretta
A fianco di un Maison Ikkoku e di un Devilman c'era il logo di Konami, quello in zona 16-bit, con la sbarra colorata che dipinge le cromature della doppia onda al suo passaggio, prima di lasciare spazio a Pop'n Twinbee.
C'era l'effetto sonoro scintillante della schermata Capcom prima che la telecamera descrivesse una lotta per strada e illuminasse il cartellone "Street Fighter II" appeso a un grattacielo. Ancora: un filo bianco e argento che cuce nelle menti l'ovale di Nintendo, l'introduzione a ennemila pomeriggi bruciati di fronte a Super Mario Kart. Tutto un immaginario che va scomparendo, o, forse peggio, va rinchiudendosi in una scatoletta, nelle sue isolette d'origine: il Giappone torna al Giappone e quella strepitosa cavalcata culturale compiuta dall'impero del Sol Levante pare, a questi occhi, essersi arrestata. Non c'è poesia, il senso è che gli Stati Uniti si sono ripresi quello che credono (probabilmente a ragione) gli appartenga di diritto, perché i videogiochi sono roba di Ralph Baer e di Nolan Bushnell, prima che di Yamauchi, Arakawa e Miyamoto, prima che di Kutaragi e Hirai. Questa generazione, che si spera vada presto a morire perché non se ne può davvero più, ha sancito l'ultima e definitiva migrazione, la consegna definitiva delle chiavi della città. Il dominio stilistico nel mondo dei videogiochi è tutto sbilanciato dalla parte dello Zio Sam, con Xbox 360 a dettare il ritmo, Sony che si adegua e Nintendo che... Nintendo che ancora resiste, ma che appena può fa altro.
L'altro mondo
In occasione della recente Game Developers Conference Electronic Arts ha presentato il nuovo trailer di Shadows of the Damned, uno dei pochi grandi progetti dal respiro totalmente nipponico. Dove con "grande" si intende unicamente la dimensione dei nomi che trovano posto nei riconoscimenti iniziali, il gioco è tutto da verificare ancora. I nomi sono, naturalmente, quelli di Mikami e di Suda, corroborati dagli strumenti a corda spezzata di Yamaoka. Novanta secondi di puro eccesso: cromatico, dei toni, stilistico.
Perché i giapponesi hanno un modo di fare videogiochi che è (era?) giapponese, perché perdere ore di fronte alle pagine delle riviste di videogiochi dei primi anni '90 e alle mille recensioni di titoli astrusi, equivaleva a tuffarsi nel mondo di Galaxy Express e del retro-futuro à la Space Invaders. Loro sono gli orientali assurdi, noi siamo come gli americani, occidentali allo stesso modo. Mettetela come volete, ma per quanto mi riguarda gli statunitensi si prendono troppo sul serio... ci stiamo sorbendo dieci anni di sparatutto in prima persona e gente che è convinta di fare roba seria. Dov'è la deviazione mentale di killer7? Dov'è l'indiscutibile odore di sinapsi bruciate di Vib Ribbon e Katamary Damacy? Aver passato quasi venticinque anni di fronte a un videogioco avrà forse, anzi di sicuro, falsato la capacità di sorprendersi di fronte a qualcosa, ma quando un giocatore italiano si trovava a dover scegliere una cartuccia per il suo Super Nintendo, voleva dire tuffarsi in un mondo differente. Gli era del tutto estraneo e, nel caso in cui lo trovasse anche affascinante, era un viaggio unico, infinito, continuo, stimolante.
L'autore
Mattia Ravanelli scrive di videogiochi, nel bene e nel male, dal 1996. Ha collaborato con e coordinato svariate realtà editoriali, nel bene e nel male, tra cui: Game Power, Zeta, PlayStation Magazine Ufficiale, Nintendo la Rivista Ufficiale e GamesRadar.it.
Ricominciare dal mobile
Colti dall'incapacità di rapportarsi con un mercato sempre più esigente e dai costi sempre più spropositati, gli sviluppatori del Giappone hanno difficoltà a capire da che parte sbattere la testa. E oggi evidentemente non serve più dormire col sacco a pelo sotto la scrivania per far valere la dedizione al limite della paranoia che è propria di una cultura assurda e che abbiamo tanto amato (o perlomeno tanto ci ha incuriosito). E allora i Mikami, gli Inafune e gli Inaba compilano una lettera di dimissioni e... e finiscono a fare i supergruppi, come quello di Shadows of the Damned, come i supergruppi del rock anni '70 e '80. Che hanno quasi sempre fallito. Come l'altro supergruppo, quello di Platinum Games, che continua a convincere i critici e a piangere al botteghino. Intanto Capcom si rivolge a un team canadese per Dead Rising 2. Intanto Namco si affida a Bugbear per il nuovo Ridge Racer (che poi, ormai, che pretese può avere in un mondo che dichiara inadatti pure gli ottimi ragazzi di Liverpool di Bizarre?).
Intanto Nintendo riporta a casa Metroid con Other: M e il fan medio (occidentale?) storce la bocca. Probabilmente è al possibile (e in parte già avvenuto) avvicendamento tra console casalinghe e portatili che si deve guardare. A loro rivolgeranno definitivamente le attenzioni le nuove e vecchie etichette del Sol Levante, sperando di ritrovare il loro ruolo in quella dimensione più ristretta e tascabile (eppure simbolo del mondo perennemente mobile e connesso di oggi). C'è da sperarlo ardentemente, perché la varietà è il sale della vita, o qualcosa di simile. E io di 'sti americani e dei loro marine e delle loro avventure bacate e dei loro giochi di guida mi sono rotto. Rivoglio sia Creamy che Parodius. E li rivoglio ieri, perché i videogiochi sono giapponesi.
Nota bene: l'immagine seguente è di James White e fa parte di una raccolta di illustrazioni pensate per aiutare il Giappone. Acquistandole da questo sito donerete parte o tutto l'importo alle organizzazioni umanitarie.