Il quadrato va a destra, il quadrato va a sinistra. Rimbalza su due segmenti, prende traiettorie strane finché non si perde oltre i margini dello schermo. Quindici-zero.
Le sale giochi nemmeno esistevano quando c’era Pong. Probabilmente i “circoli culturali” in cui si gioca a carte (d’azzardo, naturalmente) erano ciò che più gli somigliava, solo con vecchi panzoni al posto di vispi giovincelli, l’aria impregnata di fumo e l’allegro suono di imprecazioni tali da tapparsi le orecchie per non perdere la verginità. Ad ogni modo, Pong (che nemmeno si chiamava “Pong”, in partenza) è nato un po’ per caso e un po’ per caso ha riscosso un enorme successo, dando vita di fatto a un nuovo tipo di intrattenimento. Quando la gente si trova di fronte a cose nuove, in genere si spaventa. Sì, la faccenda del “voglio provare sempre cose nuove” realisticamente si addice alle ninfomani o ai tossicodipendenti, mentre l’individuo medio adotta il metodo del ramoscello, si mette in una posizione simil-defecatoria e “toppetéa” il corpo estraneo per vedere se morde. Il videogioco non mordeva, però mangiava. E di gusto: gli entusiasti si mettevano lì ore ed ore a spendere patrimoni, pur di stabilire un nuovo high score, mentre nell’ombra si muovevano dei “piccoli geni”, persone che non avevano bisogno di grande pratica e che riuscivano a padroneggiare qualsiasi videogame con naturalezza e non mancavano di vantarsene quando tu perdevi l’ennesima vita, tanto che ti veniva quasi voglia di infrangergli il cranio contro il vetro del cabinato con la nobile intenzione di riunire due anime evidentemente unite da una sintonia ancestrale.
Un impatto a bassa frequenza, un mattone che si consuma ad ogni colpo ma che per un attimo fa tremare tutto lo schermo e mette quelle dannate tartarughe a pancia in su. Mario, prendile a calci!
Le sale giochi nemmeno esistevano, dicevo. E così si è giustamente pensato di mettere i primi coin-op nei bar, nelle pizzerie, nei pub, che “tanto il target è quello”. In realtà la questione del target con i videogiochi è sempre stata una questione aperta, perché con Breakout ci giocavano un po’ tutti, grandi e piccini, e la moda di prendere per il culo i videogiocatori è nata solo con l’avvento dei sistemi da gioco casalinghi… forse perché uno che spende tutti quei soldi per un Commodore 64 non gioca per “passare il tempo” come si fa al bar, bensì “passa il tempo giocando” (e anche qui c’è sempre stato un grosso equivoco: quand’ero un giovane ingenuo, io e i miei amici andammo letteralmente in acido quando venimmo a sapere che avevano messo il coin-op di Wrestle Fest in un bar distante due km da casa mia. E così prendemmo tutte le bici a disposizione e coprimmo la distanza in pochi minuti: quando inserimmo le prime duecento lire, non avevamo neppure il fiatone. Altro che doping). Quello che so io è che di tempo libero la gente doveva averne parecchio, perché alle due del pomeriggio eravamo tutti al bar, talvolta addirittura in fila, per raggiungere quel dannato gorilla in cima allo stage.
Anche nel caso dei coin-op, l’evoluzione tecnologica ha profondamente cambiato l’approccio al media. Mi è capitato di ritrovarmi per caso nella sala giochi di un luna park itinerante, ovviamente attrezzata con ogni sorta di residuato bellico e dunque capace di esercitare un enorme fascino: stai lì davanti a tutti quegli schermi neri, con poche lucine colorate e con dei suoni bassi e bizzarri. L’introduzione di qualche colore in più, degli sprite animati e degli stage differenziati ha davvero rivoluzionato i videogame, che hanno attirato molte più persone. E così è stato il caso di creare dei locali ad hoc per contenere i videogiochi, i videogiocatori e le loro tasche piene di monete.
Il suono delle sirene mette la base in allerta e ti ritrovi ad affrontare un intero esercito, armato solo di un coltello, dei tuoi riflessi e di quello stupido berretto verde.
C’era un tempo in cui persino veder giocare qualcun altro era piacevole. Certo, quando questa persona aveva intenzione di smettere solo se il locale chiudeva, la cosa poteva non essere così piacevole. Ma in generale tra giocatori si creava un certo “spirito di gruppo”, e addirittura si faceva il tifo quando uno di noi affrontava nemici che nessun altro era riuscito a sconfiggere. Ricordo che una sera fui l’unico testimone di un evento eccezionale: un ragazzo molto più grande di me aveva portato a termine Green Beret. Fece qualche salto, gridò di gioia e se ne andò a casa tutto soddisfatto, forse troppo perché non lo vidi più vicino a un videogame. Magari lo scopo della sua esistenza era quello di accoltellare a super velocità dei soldati in tuta mimetica bianca che ti prendono a calci volanti. Una volta portata a termine la sua missione, aveva trovato la pace dei sensi… ma non aveva dimenticato la sua passione, così qualche anno dopo aprì un bar con annessa sala giochi e ci mise dentro il coin-op di Street Fighter.
La questione del “gruppo” (non voglio chiamarlo “branco”…) aveva una certa rilevanza. Nei locali in cui tutti ci si conosceva succedeva anche che il proprietario dichiarava l’arrivo di un nuovo videogioco che avrebbe sostituito quello vecchio, e così il giorno X trovavi una gran ressa, tutti ad aspettare l’arrivo del furgoncino della ditta che distribuiva i giochi. Alcune volte la faccenda si risolveva con un successo: dopo il solito “system check”, carpivi qualcosa di buono dalle immagini su schermo e l’addetto poteva andarsene con il sorriso sulle labbra. Altre volte, complice la generale ignoranza di gestori e distributori, ti trovavi a veder sostituito un bel picchiaduro che stavi per portare a termine con gli amici (con grande esborso di denaro) con un vecchio clone di Wonderboy. Al che neanche una decina di partite gratis gentilmente offerte poteva trattenerti dall’andartene a casa incacchiato.
Macho Man prende una rincorsa e si lancia nella sua caratteristica clothesline “lunga”: l’aggancio con il collo dell’avversario e il rumore prodotto dall’impatto sugli esili materassini fuori dal ring valgono da soli il costo del gettone.
Cavalcando l’onda del successo di film come “The Warriors”, Taito ebbe l’enorme merito di creare, di fatto, il picchiaduro a scorrimento. Si trattava di un genere che in sala giochi faceva letteralmente furore, soprattutto perché ci si poteva giocare in due contemporaneamente e aiutandosi l’uno con l’altro. Double Dragon, i suoi seguiti e i suoi “figli” (Golden Axe dapprima, Final Fight in seguito) rappresentavano un po’ la “sostanza” in mezzo a tanti coin-op magari insignificanti, si lasciavano giocare, erano semplici nel sistema di controllo ma dotati di una difficoltà che aumentava in modo graduale e che rendeva sempre necessario inserire qualche moneta per continuare laddove il proprio personaggio moriva, per vedere “cosa viene dopo”.
Un piccolo caso fu creato da WWF Superstars della Technos. Arrivato in Italia durante lo storico “boom” del wrestling, con personaggi del calibro di Hulk Hogan, Ultimate Warrior, Randy Savage, ecc. ecc., si trattava di un gioco estremamente solido e divertente, sempre pieno di gente che faceva a gara per fare una partita. Di quel coin-op ricordo in particolare la qualità degli effetti sonori: ascoltare il rumore che Macho Man faceva quando agganciava gli avversari con la sua clothesline, fuori dal ring, era qualcosa di unico. Così come eseguire la powerslam di Big Boss Man, magari cento volte di seguito su avversari ridotti ai minimi termini che poi improvvisamente trovavano la forza di metterci al tappeto. Chissà, magari li si faceva arrabbiare, in barba alla barra dell’energia.
“You win”. Nonostante abbiano montato il gioco in un cabinato con tre soli pulsanti, permettendoti di sferrare pugni e non calci, sei finalmente riuscito a battere M. Bison al comando di Chun Li.
Inutile nasconderlo, il male oscuro delle sale giochi è stata l’introduzione delle console casalinghe, soprattutto quelle a 16 bit. Con il NES e il Master System si finiva sempre per incazzarsi come iene perché la confezione mostrava tanti bei disegni ma, chissà perché, nessuna foto del gioco. Poi lo si provava (rigorosamente dopo averlo acquistato) e si rimaneva male, perché non c’era confronto con i coin-op. E dunque recarsi in sala giochi aveva senso, era l’unico modo per accedere a prodotti di un certo livello. Con l’avvento dei sistemi a 16 bit (MegaDrive e, soprattutto, SNES), il gap tra quello che si poteva avere a casa propria, senza inserire alcuna moneta, e quello che si trovava in locali sempre più mal frequentati (questo in piccole realtà, figuriamoci nelle metropoli…) si fece davvero piccolo. Street Fighter 2 era un ottimo motivo per continuare a uscire di casa per giocare, comunque. Forse uno degli ultimi prima della “crisi arcade”. Per giocarci in modo decente ho dovuto aspettare che cambiassero il cabinato un paio di volte, perché di metterlo in quello originale proprio non se ne parlava e mancavano sempre dei pulsanti. Ma ne valeva la pena, era il primo gioco da anni in cui ci si cimentava tutti e si faceva il tifo l’uno per l’altro. Per non parlare della presenza delle mosse speciali, che scaturivano da combinazioni joystick/pulsanti del tutto inedite, e che ci furono illustrate da un tizio che chissà come le aveva scoperte…
Non hai mai visto un coin-op 3D. Ora ti trovi davanti al cabinato di Daytona USA e tutto sembra perdere importanza.
Come accennato, la crisi delle sale giochi si è verificata quando i sistemi da gioco casalinghi hanno cominciato ad offrire un’alternativa tecnologicamente valida ai coin-op. Con l’avvento della grafica poligonale, però, gli arcade games hanno cambiato forma: costosi ma spettacolari, i primi titoli 3D visti in sala giochi si sono imposti con lo status di “esperienza spettacolare”. Avevo visto Virtua Racing solo su MegaDrive, dunque non ero ovviamente preparato all’impatto che il cabinato di Daytona USA ebbe su di me, durante l’estate del 1994, in quel di Udine. Rimasi fermo per diversi minuti, incapace di spiegarmi quale meraviglia tecnologica potesse muovere tutti quei poligoni e quelle texture in modo così fluido. Da allora niente mi ha colpito in quel modo, neanche il demo di wipEout uscito in bundle con PlayStation, che pure lasciava a bocca aperta.
Non è un caso che da allora le sale giochi abbiano ritrovato vigore, facendo della potenza di calcolo dei propri giochi un punto di forza, diversificando l’offerta con nuovi generi (i giochi in cui si balla su tappeti sensibili, quelli con la rilevazione di movimento, ecc.) e conquistando un’utenza profondamente diversa rispetto al passato. Ormai nei bar non si trovano più coin-op, non esistono neppure le piccole sale giochi… è tutto concentrato all’interno di grandi locali, magari cinema multisala con annesso bowling. Questo perché gli ultimi cabinati costano uno sproposito e vanno necessariamente collocati all’interno di luoghi frequentati, per garantire un ritorno economico altrimenti impossibile da realizzare. È evidente che le grandi case di software sono più che mai concentrate sul mercato casalingo, ma è altrettanto evidente che ormai console e coin-op non sono la stessa cosa, magari condividono l’utenza (neanche del tutto, credo) ma si tratta di prodotti diversi per il tipo di esperienza che offrono, nonché per l’applicazione di tecnologie che possono funzionare in sala ma che sono difficilmente riproducibili a casa.
E il piccolo genio? Se ci fate caso è ancora lì, che salta con agilità sui pad di Dance Dance Revolution, pavoneggiandosi di fronte agli altri e improvvisando coreografie degne della Cuccarini con le braccia. Che ne dite di spezzargliele?
Ci avete mai fatto caso? I vecchi coin-op avevano sempre, di fianco al joystick e ai pulsanti, una placchetta di metallo su cui era possibile appoggiare la sigaretta, ed eventualmente scrollarne la cenere. I più erano soliti utilizzare quel vano improvvisato per poggiarvi le monete, poi si producevano in immonde bestemmie quando si rendevano conto che un fumatore era passato di lì…
Se appartenete alla “vecchia guardia”, molto probabilmente i vostri primi ricordi in tema di videogiochi risalgono al tempo in cui ogni bar era dotato di almeno un coin-op, ci si trovava con coetanei e non a scambiarsi strategie di gioco e si coniavano nuovi termini che a distanza di anni sarebbero entrati nel linguaggio comune. Non ho intenzione di scoprire come siano nate le sale giochi, mi limiterò a dare la mia “versione dei fatti”, la testimonianza di com’è nata una passione, di chi era presente all’evento, di come si è evoluta la “scena” e di cosa ne è rimasto oggi. Inserite le monete, che si parte.