Nel cuore di Shinjuku, l'anima di Tokyo, oggi sorge un enorme palazzo vetrato che ospita il quartier generale di Square Enix, colosso dei videogiochi che sta preparando il terreno per la pubblicazione di Final Fantasy 16, l'ultimo capitolo di una saga che ha raggiunto i quattro angoli del pianeta. Ma trentasei anni fa, molto prima di Final Fantasy 16 e soprattutto prima di Square Enix, c'era solamente una piccola bottega digitale che stava abbandonando i lussuosi uffici di Ginza per ritirarsi nel quartiere commerciale di Taitō, nel tentativo di risanare una condizione finanziaria sul viale del tramonto. Era la neonata Square, compagnia indipendente che si era mantenuta in piedi grazie a un timido accordo di licenza siglato con Nintendo, e che oltre la solida facciata lottava per sbarcare il lunario. Si dice, addirittura, che gli splendenti uffici di Ginza fossero stati affittati proprio per trasmettere un senso d'opulenza ai potenziali investitori, al fine di mascherare l'ingombrante spettro della crisi. Non solo c'era bisogno di realizzare un nuovo prodotto originale, ma era fondamentale che si rivelasse un successo senza precedenti.
Capita molto raramente, guardando al passato dei videogiochi, d'incontrare autori o gruppi di menti che hanno combattuto per la realizzazione di un'idea spesso e volentieri contrastante con le correnti dominanti, distante dai gusti del pubblico, difficile da giustificare agli occhi dei dirigenti. Idee che, una volta concretizzatesi, sono state in grado di rivoluzionare in modo irrimediabile generazioni e generazioni di videogiochi. Ma questo è proprio ciò che è successo a Hironobu Sakaguchi e al suo minuscolo team verso la metà degli anni '80, in quella piccola sede di Okachimachi, nel momento in cui nacque il primo timido germoglio destinato a diventare una delle saghe più famose dei videogiochi. Ripercorriamo la storia di Final Fantasy, i trentasei anni di evoluzione creativa che ci hanno accompagnato fino ai cancelli del sedicesimo capitolo e soprattutto alle polemiche sull'identità della serie: che cosa significa essere Final Fantasy?
Le origini
Furono un periodo di grande cambiamento per i videogiochi, gli anni '80. Tra la grande crisi dell'industria, culminata nella celebre sepoltura nel deserto delle cartucce per Atari ed esauritasi con la nascita di grandi brand come Super Mario Bros, il mercato conobbe il suo punto più basso e il suo secondo rinascimento, motivando orde di artisti a tuffarsi in un oceano che era tanto ricolmo di squali quanto traboccante di tesori. Mentre Shigeru Miyamoto rivoluzionava il tessuto dei running-game e Hideo Kojima si arrovellava per trasporre il genere shooter su hardware MSX, il giovane Hironobu Sakaguchi aveva proposto una nuova idea ai vertici della compagnia per cui lavorava, ovvero Square. Si trattava di un progetto pesantemente influenzato dalla cultura del manga e da quell'esperienza da gioco di ruolo tradizionale che - non solo nel settore videoludico attraverso Wizardry e Ultima - stava conoscendo la consacrazione in terra d'occidente. Ma, come spesso accade in casi analoghi, il publisher non comprese tale ambizione e decise di cassare gli sforzi, forse anche in ragione dell'anima squisitamente europea che fino a quel momento aveva caratterizzato l'evoluzione del genere.
Se oggi ci troviamo per le mani tonnellate di episodi di Final Fantasy la motivazione risiede in Dragon Quest di Enix, titolo pubblicato per NES nel 1986, nientemeno che lo storico rivale della fantasia finale. L'opera di Yuji Hori, forte di un'ambientazione medievale di stampo high fantasy che viveva dell'intreccio con l'arte e il cinema d'animazione orientale, si dimostrò infatti un successo straordinario, tanto ingombrante da non passare inosservato neppure agli occhi del presidente Masafumi Miyamoto, che non poté fare a meno di riconoscere l'errore commesso. Fu solo allora che il progetto Final Fantasy ottenne luce verde e Sakaguchi iniziò ad assemblare un piccolissimo team al fine di far maturare, nell'arco di un singolo anno, il primo frutto della sua nuova visione creativa. Erano solo in sette gli impiegati assegnati dalla casa al progetto, ma tra quei sette elementi c'erano anche l'allora sconosciuto Yoshitaka Amano ed il veterano Nobuo Uematsu, un artista e un compositore la cui produzione vive tutt'ora impressa a fuoco nella storia del medium.
Fu incredibile come sette elementi, in un arco di tempo così ristretto, riuscirono a comprimere una tale dose di idee nei confini di un'opera prima. Il genere, che non aveva mai deviato dalla formula della battaglia RPG in prima persona, accolse infatti la storica visuale di gruppo che ancora oggi rappresenta lo standard assoluto, mentre nell'apparato ruolistico furono integrate le stringenti formule di selezione delle classi immaginate dal programmatore Akitoshi Kawazu - figura affascinata da Dungeons & Dragons - aprendo a territori inesplorati in materia di sviluppo dei personaggi. Tale sviluppo fu tuttavia solo di natura tecnica, perché i protagonisti tratteggiati dalla penna di Kenji Terada non erano altro che vacui involucri pronti ad essere riempiti dall'identità giocante degli appassionati. La grande mole di idee fu condensata nella pubblicazione delle 500.000 copie che per la prima volta, nel 1987, fecero campeggiare le parole "Final Fantasy" sui televisori del paese, accogliendo dozzine di lodi e risollevando le sorti della compagnia.
Il successo dell'opera pose un problema pesante come un macigno sulle scrivanie del publisher e degli sviluppatori: come si poteva trasformare un gioco autoconclusivo in qualcosa di più di una semplice parentesi nello storico della casa? Un dilemma, questo, che si risolse nel matrimonio con la deriva antologica destinata a erigere le fondamenta della saga. Anziché optare per un sequel o per l'ampliamento del primo universo narrativo, gli artisti decisero di porre una serie di assiomi alla base della struttura futura, ideando nuovi mondi autosufficienti che restassero tuttavia ancorati a elementi ricorrenti e sempre riconoscibili. Elementi che, nel corso degli anni, hanno abbracciato l'implementazione della magia, quella delle evocazioni, la presenza di creature quali Chocobo e Moogle, il costante ritorno di armi leggendarie, in sostanza l'integrazione di caratteristiche destinate a divenire tutt'uno col marchio Final Fantasy, a prescindere dai toni e dai colori del titolo in esame.
Final Fantasy 2 introdusse proprio alcuni fra i succitati assiomi, su tutti gli splendidi Chocobo e l'immortale personaggio Cid, prima di puntare tutto sulla caratterizzazione del mondo di gioco e dei personaggi che l'animavano, scommettendo sulla costruzione di identità finalmente marcate. Sul fronte della ricerca introdusse un sistema rivoluzionario: la crescita dei personaggi sarebbe andata di pari passo con le azioni compiute dal giocatore, cosicché subendo danni si incrementavano i punti vita, infliggendone aumentava la forza, e via dicendo. Seppur destinata a scomparire dai fondali della saga, tale struttura fa ancora oggi parte dell'alchimia che ha portato opere come The Elder Scrolls al successo internazionale, ad ulteriore testimonianza del talento che in quegli anni serpeggiava tra i corridoi di Square. Pubblicato nel 1988, a un solo anno di distanza dal predecessore, il titolo riuscì a piazzare 800.000 copie per NES nel corso dell'intero ciclo vitale e raccolse valutazioni astronomiche sulla rivista Famitsu, affiancando egregiamente quelli che erano gli indiscussi titani del settore.
Vale la pena approfondire l'argomento, perché fu proprio l'accoglienza di tali opere a mutare il cammino della serie e soprattutto a guidare la mano degli artisti fino alla prima grande rivoluzione, che sarebbe giunta solamente nella forma quarto capitolo; i primi tre episodi, infatti, sono spesso considerati come una singola entità, un embrione della formula che di lì a breve avrebbe spopolato in tutto il mondo. Final Fantasy 2 riuscì a "battere" Super Mario Bros. 3, a dividere il palco con The Legend of Zelda: The Adventure of Link, ma si trovava sempre e comunque costretto ad inseguire Dragon Quest che, per merito della seconda e della terza istanza, dominava incontrastato le classifiche dell'epoca. Una rivalità, questa, che esplose nel 1990, quando Final Fantasy 3 si piazzò come secondo classificato al premio per il Game of the Year nel paese del Sol Levante, ancora una volta alle spalle del temuto Dragon Quest 4.
Il terzo episodio aveva accarezzato eccellenti velleità di costruzione del mondo di gioco, mettendo in scena avversari celebrati come Xande e ambientazioni ispirate come la Crystal Tower, esplorando un nuovo sistema di job interamente personalizzabile, realizzando gran parte dei desideri espressi dalla frangia hardcore del pubblico orientale. Il responsabile del job-system Koichi Ishii, oltre ad essere l'artefice di numerose fra le meccaniche più hardcore emerse alle origini della serie, disegnò per l'occasione anche i Moogle, recuperando alcuni vecchi schizzi risalenti ai tempi delle superiori. Fu proprio l'anima filo-nipponica a garantire all'ultima opera scritta da Terada un successo senza precedenti nel paese del Sol Levante - consentendogli di piazzare 1.4 milioni di copie - e al tempo stesso a precluderle l'accesso al resto del mondo fino al 2006, in quanto ritenuta troppo distante dai gusti dei videogiocatori d'oltreoceano.
In ogni caso, la prima trilogia entrò a gamba tesa nelle classifiche di gradimento dell'epoca, riuscì a piazzare tonnellate di copie, ma si dimostrò inadatta a raggiungere la vetta del podio critico ambita dagli autori. Cosa sarebbe servito per trasformare Final Fantasy nel videogioco migliore del suo tempo? Cosa bisognava fare per riuscire finalmente a scavalcare Dragon Quest stuzzicando anche il palato del pubblico straniero?
La primavera
Incassate tutte le lezioni e soprattutto i fondi derivanti dalle prime fatiche, la fucina di Square puntò tutto ciò che aveva sulla creazione di un protagonista carismatico capace di riportare la vicenda narrata in una dimensione umana, più vicina ai linguaggi della letteratura, del cinema e del fumetto dell'epoca, senza sacrificare la magnificenza dei grandi mondi realizzati in passato. Inutile dire che ebbe ragione: fu proprio grazie all'intervento del cavaliere nero Cecil Harvey e della sua vicenda che la saga riuscì a muovere i primi passi in una seconda fase di maturazione, non solo sul piano creativo ma soprattutto su quello commerciale.
Final Fantasy 4, progetto scritto dal grande padre Sakaguchi assieme a Takashi Tokita, si sarebbe rivelato un crogiolo ricolmo della filosofia e delle scelte tecniche che avrebbero guidato la mano degli artisti nel corso degli anni, forse anche dei decenni a venire. In ragione del nuovo focus stretto attorno alla caratterizzazione dei protagonisti, questi furono ancorati a una classe predefinita da sfruttare sullo sfondo delle prime "Active Time Battle" incontrate nel medium, che assoggettando il combattimento al fattore tempo iniettavano una grande dose d'incertezza nell'amalgama. Ancor più importante dell'innovazione tecnica, fu l'introduzione di una nuova interpretazione della narrativa drammatica, una deriva che lasciò un segno indelebile nell'intero genere RPG. Fu proprio in tale contesto che prese forma l'anima celata dietro il successo della casa: la capacità di raccontare grandi storie dalla forte carica emotiva ricamate attorno al dramma della vita di protagonisti ben caratterizzati, vicende che intrecciano il racconto e la componente meccanica al punto da incidere direttamente sulle sorti dei compagni di viaggio. In tali confini, grazie anche all'incalcolabile apporto della prima relazione romantica ad emergere dalle pieghe della saga, fu innestato il seme che ancora oggi porta gli appassionati a stringere legami profondi con protagonisti e comprimari virtuali.
L'idea iniziale di Takashi Tokita era quella di caricare l'intreccio di un peso drammatico ancor maggiore, portando alla morte di quasi tutti membri del party, ma tale ipotesi fu scartata in ragione della tradizionale formula di gameplay, inadatta ad accogliere un simile sacrificio sul piano delle meccaniche. Il passaggio alle sponde del Super NES concesse maggior risalto all'operazione di adattamento delle fatiche di Amano, convincendo al tempo stesso Nobuo Uematsu a comporre una colonna sonora orchestrale per accomodare al meglio il nuovo stile grafico; l'opera si trasformò in un punto di riferimento tecnico oltre che creativo, raccogliendo l'eredità dei primi tre capitoli e conoscendo un'esplosione commerciale anche negli Stati Uniti, dove debuttò come sequel diretto del capostipite della serie. Ciò detto, l'opera più influente dello studio non fu in grado di portare di per sé alla maturazione di un'età dell'oro, perché la fantasia finale avrebbe conosciuto un'ultima contrazione prima di radicarsi definitivamente nella cultura di massa.
Il ritorno di Hironobu Sakaguchi alle redini di Final Fantasy 5, affiancato da Yoshinori Kitase sul fronte del racconto, produsse infatti un lavoro d'artigianato destinato a una nicchia, un altro videogioco che non fu ritenuto adatto ad attraversare il Pacifico; al netto di una eccellente interpretazione della succitata narrativa tragica, restava senza dubbio vicino all'ispirazione più grezza e minimalista della serie, quella emersa dalle fondamenta prima trilogia. Dal calderone di Final Fantasy V sono emersi avversari del calibro di Exdeath - recentemente tornato a fare capolino nel quattordicesimo episodio - nonché personaggi noti come Gilgamesh, ma soprattutto si è consolidato il forte orientamento della scrittura verso il colpo di scena, poi divenuto un cardine dell'età dell'oro. Keizou Kokubo, all'epoca uomo di spicco di Square, dichiarò che molti fan erano rimasti scottati dalla presunta linearità del quarto capitolo, spingendo gli sviluppatori a comporre un intricato mosaico di meccaniche GDR. Tuttavia, probabilmente a causa della superficiale caratterizzazione dei protagonisti, Final Fantasy 5 non si rivelò il grande spartiacque promesso nonostante la rivoluzionaria interpretazione di un job system che, per merito della sua straordinaria varietà e della natura innovativa, è tutt'oggi il più rimpianto dal pubblico del genere. C'era più che mai bisogno di scolpire nella pietra le regole scritte dal quarto episodio, facendo finalmente maturare la formula prima del più grande balzo generazionale di tutti i tempi: quello dalle due alle tre dimensioni.
Il capolavoro
È il 1994 quando Final Fantasy 6 colora per la prima volta i televisori CRT connessi ai Super-NES di mezzo mondo, e i tempi di sviluppo - dilatatisi di un anno rispetto allo standard - mostrano immediatamente i frutti dell'impegno profuso. Alla direzione spicca il nome di Yoshinori Kitase, che ricopre ancora una volta il ruolo di scenario-writer assieme al veterano Sakaguchi: questo piccolo dettaglio - quello del cambio al vertice creativo - rappresenta il motore nascosto che è stato capace di muovere alcuni fra i più grandi successi targati Final Fantasy. Quando un episodio della saga scaturisce dalla mente di un autore che non vede l'ora di raccontare la "sua" storia con le "sue" meccaniche, allora si può star certi di trovarsi di fronte a un papabile capolavoro. Da non sottovalutare l'impatto di Amano, ormai forgiato dal fuoco di cinque titoli e destinato a raccogliere le prime grandi lodi in terra occidentale; quello di Uematsu, la cui produzione musicale fu interpretata dall'Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi nel disco Grand Finale; soprattutto il grande esordio del tanto discusso Tetsuya Nomura alla direzione grafica, allora una recluta che si era limitata a tratteggiare le silhouette dei mostri nel capitolo precedente. Più di ogni altra cosa, Final Fantasy 6 rappresenta la cristallizzazione definitiva di una componente meccanica ormai rodata, pensata per accogliere una formula narrativa interamente votata alla caratterizzazione profonda - non solo dei protagonisti ma soprattutto degli avversari - sullo sfondo di mondi tanto ben scritti da imprimersi indelebilmente nei cuori degli appassionati.
Terra Branford e gli altri 13 personaggi giocabili - per la prima volta caratterizzati direttamente attraverso delle attività dedicate nel mondo di gioco - furono cullati da un profondo intreccio che li avrebbe portati a fronteggiare il terribile Kefka Palazzo. E sarebbe stato lì, al cospetto di quell'enigmatico clown, che Square avrebbe preso coscienza dello straordinario peso della figura dell'antagonista, perché questi avrebbe scavalcato santi e antieroi nelle classifiche dei personaggi più amati. L'eccellente tratto, non solo estetico, sfruttato per dipingere i contorni della maschera di Kefka, divenne la pietra focale di un racconto in totale controtendenza rispetto agli standard, una storia capace di stupire, di far ridere, di far piangere, di emozionare. Se esiste un progetto che più d'ogni altro incarna tutt'ora la ricetta definitiva per il Final Fantasy di successo, quello è senza ombra di dubbio Final Fantasy 6, un manifesto per l'intero genere JRPG che contribuì a pavimentare la strada per tutti i più grandi exploit dell'epoca. Il cast ispirato, il sistema di gameplay estremamente vario e ricamato sulle caratteristiche di ciascun personaggio, il disorientante design dei livelli - che modificavano l'approccio stesso al gioco- e la minuziosa attenzione riservata all'ambientazione, si trasformarono in pilastri destinati a sorreggere il futuro della saga.
In seguito all'approdo negli Stati Uniti gli utenti occidentali giunsero ai titoli di coda con l'acquolina in bocca, ormai ben consapevoli di cosa ci si potesse aspettare da un episodio legato al brand: un mondo fantasy segnato da contaminazioni sci-fi o dieselpunk, capace di srotolarsi tra fondali curati e ogni volta diversi, volenteroso di ospitare grandi storie drammatiche, determinato ad accogliere tonnellate di contenuti capaci di intrattenere il pubblico per dozzine di ore. Una descrizione, questa, che è perfettamente calzante su tutte le produzioni successive della software-house, che in risposta al successo del sesto capitolo decise di abbattere tutte le barriere residue fra mercati internazionali.
I nuovi assiomi alla base della formula Final Fantasy si riveleranno determinanti tanto per leggerne i più grandi successi quanto per decifrarne i tonfi più sonori. Final Fantasy, nell'interezza dei '90, rappresenterà uno scrigno capace di dischiudersi su universi che si nutrono della componente magica per farla brillare su tele mutevoli, talvolta vicine all'high fantasy e talvolta segnate da contaminazioni più moderne. In tali mondi, elementi ricorrenti si mescolano con grandi sceneggiature originali figlie dell'ispirazione drammatica orientale, colorando le vicende di personaggi visivamente impattanti e profondamente caratterizzati. Egualmente importante è l'offerta collaterale, perché non serve unicamente ad aumentare la conta delle ore, ma ha l'obbligo di contribuire all'arricchimento di mondi virtuali vivi e immersivi, determinati a condurre per mano il giocatore anche nei più remoti villaggi che punteggiano i continenti. Che cos'è un Final Fantasy? In molti, oggi, riducono l'essenza della saga a singole componenti, su tutte al sistema di combattimento, ma la risposta a questa domanda è decisamente più complessa.
L'età dell'oro
Il succitato identikit veste a pennello sul grande affresco prodotto negli anni successivi da Yoshinori Kitase e Hironobu Sakaguchi, quando il duo di creativi poté finalmente dedicarsi al progetto Final Fantasy 7. Un titolo dalla genesi antica - dato che da anni esisteva sulla carta - che sarebbe stato anche il primo ad approdare su console PlayStation, traghettando la leggenda fino alla nuova generazione di console. Come già era accaduto su altri palchi, come ad esempio quello di Super Mario 64 in casa Nintendo, da tempo ci si domandava se la trasposizione dei principali topoi nell'era delle tre dimensioni fosse effettivamente attuabile. Ironicamente - tanto nel caso del platform quanto in quello del JRPG - la complessa operazione di adattamento alla next-gen produsse una serie di capolavori conclamati. Ciò è ancor più vero nel caso di Square, dal momento che proprio allora nacque uno storico binomio attualmente caduto nel dimenticatoio: quello tra il brand di Final Fantasy e il concetto stesso di innovazione grafica, consolidatosi al punto tale che la serie raggiunse più volte l'apice tecnico della generazione di riferimento.
I tre CD-ROM che costituivano l'opera si snodavano tra sequenze pre-renderizzate completamente aliene ai comparti grafici dell'epoca e veri e propri quadri disegnati a mano, alzando il sipario su vicende che non necessitano di alcuna presentazione: quelle che hanno coinvolto, e che tutt'ora coinvolgono, personaggi del calibro di Cloud Strife, Aerith Gainsborough e Tifa Lockhart. Il fatto stesso che nella nostra contemporaneità la "compilation" di Final Fantasy 7 stia continuando ad inerpicarsi tra software e nuovi media, è una testimonianza concreta dell'impatto che il settimo capitolo ebbe nel vasto sottobosco della cultura pop. Di tali testimonianze ne esistono a dozzine, basti pensare al peso specifico di Sephiroth nell'economia globale dei villain, oppure al fatto che nel corso dei concerti Distant Worlds che fanno il giro delle grandi capitali si odano più brani tratti da quest'opera che da ogni altra in circolazione. Final Fantasy 7 non fu semplicemente una produzione capace di segnare una generazione, ma si rivelò l'artefice di una pesantissima bordata inflitta alle fucine creative orientali, avendo dimostrato al mondo che persino un prodotto della nicchia JRPG aveva le carte in regola per diventare campione d'incassi in terra straniera, al fine di puntare a un astratto GOTY internazionale e colorare una vicenda capace di sottrarre decine di ore degli appassionati.
Una pesante eredità, questa, che ricadde nelle mani di Final Fantasy 8, titolo pubblicato nel 1999 che nel nostro paese gode tutt'oggi di una fama peculiare. Essendo il primo capitolo tridimensionale interamente localizzato in italiano, si trasformò per migliaia di appassionati nel primo punto di contatto con la serie, tramutandosi di riflesso anche nel "preferito" di tantissimi connazionali. D'altra parte, con il passare del tempo, è stato sovente riletto e interpretato sotto una luce negativa, prevalentemente in ragione dei piccoli inciampi che ne hanno segnato il comparto narrativo e di un sistema di sviluppo troppo facilmente frangibile. Ed è indubbiamente vero: la scrittura di Final Fantasy 8 non è certo impeccabile, come le meccaniche non sono sicuramente le più brillanti, e ha mostrato le prime crepe di una crisi autoriale che si sarebbe fatta via via più concreta, ma attorno al suo centro di gravità orbitavano anche eccellenti declinazioni tecniche della classica formula JRPG. Fu un'opera eccezionale per il target adolescente, volenterosa di elevare l'asticella contenutistica oltre ogni limite noto, capace di dare i natali al Triple Triad, che probabilmente rappresenta il miglior mini-gioco ad aver mai graziato le sponde del genere. Mise in scena un grande manifesto di natura creativa, scolpì nella pietra il tessuto della costruzione del mondo e soprattutto l'architettura dell'offerta collaterale, raddoppiando su tutte lezioni impartite dal predecessore.
In fin dei conti il settimo, l'ottavo e il nono capitolo si possono considerare diramazioni differenti della medesima radice creativa, appendici simili al cuore ma volenterose di mettere in scena note e colori diversi. Se il settimo nasceva dall'embrione della spy-story per poi maturare nel dramma psicologico, l'ottavo era decisamente più vicino alla classica deriva del manga battle shonen, mentre il nono - di lì a breve - avrebbe tentato di riportare le atmosfere pericolosamente vicino alle origini della saga. Una natura fiabesca, quella di Final Fantasy 9, che per certi versi anticipò il germe dello scisma avvenuto nella comunità di appassionati, che è una creatura estremamente complicata. Se a un occhio meno esperto potrebbe apparire come un'entità coesa e ottimista, la verità è che vive ancora oggi del forte contrasto fra i tradizionalisti, che già allora vedevano nel passato high fantasy il lume da seguire, e gli evoluzionisti, volenterosi di accogliere a braccia aperte contaminazioni distanti dalla storica formula RPG. Nel caso di Final Fantasy 9 non ci furono mezze misure: c'era chi lo considerava il migliore esponente della epoca d'oro in ragione della sua anima e dell'estetica fiabesca, e c'era chi per gli stessi identici motivi lo riteneva il peggiore.
In ogni caso, Final Fantasy 9 del 2000 segnò la più classica delle chiusure del cerchio, portando a compimento l'evoluzione creativa dei '90 attraverso una formula più che mai vicina alle sortite dei primi capitoli, impreziosita dagli elementi di gameplay e l'architettura del mondo che avevano trasformato i predecessori in straordinari successi. Attraverso le avventure di Cloud, Squall e Gidan, gli artisti della casa elevarono allo stato dell'arte la struttura JRPG che si era lentamente formata nel corso degli anni, al punto che all'epoca sarebbe stato quasi impossibile immaginare un qualsivoglia cambio di rotta. L'era PlayStation fu segnata dalla standardizzazione di una formula ben definita ed estremamente diffusa, priva di rivali imponenti, capace di primeggiare tanto sul fronte tecnico quanto nell'orbita della narrativa. In parole povere, il genere rappresentava il ricettacolo perfetto per realizzare i più grandi videogiochi d'avventura in circolazione, raccontando storie emozionanti e catturando gli appassionati in un vortice di attività e contenuti extra capaci di far lievitare oltremisura la conta delle ore.
Il pubblico non tenne mai nascosta l'insaziabile fame verso la ricetta a base di esplosivi colpi di scena e mondi in cui perdersi per settimane, e persino internamente sarebbe stato piuttosto difficile ipotizzare rivoluzioni. Eppure, di lì a breve le cose sarebbero cambiate completamente, anche a causa dell'esordio alla design e alla scrittura di Tetsuya Nomura, un personaggio il cui nome campeggiava ormai da anni nei titoli di coda delle opere, un creativo che non vedeva l'ora di impugnare il microfono e gridare al mondo la sua storia.
L'estate della saga
Se il passaggio a Sony PlayStation 2 fu complicato, prima di tutto a causa dell'associazione spontanea tra Final Fantasy e innovazione grafica che si era radicata nella mente dei fan, le rare critiche stavano arrivando ad assumere contorni riconoscibili, specialmente quella mossa alla formula dell'Active Time Battle. A non subire alcun attacco, di contro, furono la struttura generale delle opere, la costruzione del mondo e la messa in scena, eppure uscirono anch'esse stravolte dal calderone di Final Fantasy 10. All'epoca, proprio come sta accadendo nell'orbita di Final Fantasy 16, molti appassionati guardarono con sospetto l'abbandono del sistema ATB in favore del combattimento a turni, la morbida struttura lineare, l'assenza di una mappa del mondo esplorabile, convinti che la saga stesse facendo a pezzi la sua stessa anima. Il brand di Final Fantasy funzionava da tempo come una spugna, assorbendo costantemente influenze dai quattro angoli del mondo dei videogiochi, e di converso era estremamente suscettibile ai mutamenti nei venti del mercato. Square, dal canto suo, prestava grandissima attenzione ai gusti del pubblico, e già allora aveva subodorato l'avvento di un netto cambio di rotta dell'industria che avrebbe rischiato di far invecchiare precocemente la sua storica saga; se, in un futuro allora lontano, tale visione premonitrice avrebbe condotto la serie sull'orlo del baratro, nel caso di Final Fantasy 10 si tradusse in un successo capace di oltrepassare ogni più rosea aspettativa.
"Questa è la mia storia". Basta una frase tanto semplice per sintetizzare la genesi del decimo capitolo, un'opera che il creativo - coadiuvato da Katsushige Nojima - aveva limato mentalmente per anni. Lanciato nel 2001, Final Fantasy 10 batté tutti i record imposti dalla serie e dall'intera nicchia RPG, piazzando un milione e mezzo di copie in due settimane e arrivando, nel corso dell'intero ciclo vitale, a oltrepassare quota 20 milioni. Un successo che, seppur non fosse inaspettato per i fan della prima ora, lo era senza dubbio per Square, che aveva messo in preventivo numeri decisamente inferiori. La vicenda di Tidus e il suo viaggio nei meandri di Spira diedero vita a un vero e proprio culto, spingendo le parole Final Fantasy fino alle porte di videogiocatori che non avevano mai accarezzato l'idea di perdersi in un titolo della serie, e che invece divennero la spina dorsale di una nuova fanbase. L'opera mantenne intatta la storica filosofia creativa pur andando a stravolgere interamente il comparto meccanico, dalla costruzione del mondo fino al sistema di combattimento, adottando una lunga serie di sistemi dissonanti con la tradizione decennale. Il messaggio più grande di Final Fantasy X si può trarre proprio da tale constatazione: non importa quale sia la declinazione tecnica, non importa quanto impattanti si rivelino gli stravolgimenti meccanici, perché per confezionare episodi capaci di entrare nella storia è sufficiente sviluppare un'idea originale e raccontarla in modo convincente, trascinando il pubblico lungo una montagna russa votata alle grandi emozioni.
E di emozioni forti Square ne visse parecchie negli anni a venire, dal clamoroso flop della pellicola The Spirits Within fino alla crisi che portò, infine, alla fusione con la rivale Enix. Fu un periodo di enormi cambiamenti, non solo per la software-house ma per il medium intero, che stava subendo una profondissima metamorfosi segnato dall'avvento dei videogiochi online e dall'esplosione delle esperienze open-world. Influenze, queste, che condussero alla costruzione del mondo di Vana'diel e all'emersione inaspettata di Final Fantasy 11, un universo votato a capitalizzare la passione dei fan nel substrato degli MMORPG, cosa che dall'altra parte del mondo stava accadendo anche al brand di Warcraft. Nonostante tutt'oggi siano poche le produzioni sospinte da un'ambizione pari a quella che mosse i fili dell'undicesimo capitolo, e nonostante i picchi di qualità ancora ravvisabili in quel gigantesco mondo persistente, il confronto con l'opera di Blizzard Entertainment fu impietoso, perché World of Warcraft conobbe un successo tale da riuscire a inserirsi direttamente nel sottobosco dei media popolari. Il supporto, tuttavia, procedette ininterrotto per anni e anni, facendo la felicità di milioni di appassionati e impiantando il seme che eoni più tardi sarebbe germogliato nel miglior esponente del genere mai realizzato. Ancora oggi c'è chi rimpiange la cruda e inaccessibile avventura online, i pomeriggi trascorsi prima tra le dune di Valkurm poi nelle incursioni nel Dynamis, in un valzer di meccaniche emergenti capace di accogliere tutta la magia della saga. Sta di fatto che, tutt'ora, una nutrita schiera di appassionati fatica a confrontarsi con la deriva MMO della serie.
Nel frattempo, la neonata Square Enix aveva da mesi messo in cantiere il dodicesimo progetto legato al filone principale, tentando di proseguire sull'onda autoriale inaugurata con il decimo capitolo. Se Tetsuya Nomura aveva a suo tempo avuto l'opportunità di raccontare la sua grande storia originale, lo scettro sarebbe passato nelle mani di Yasumi Matsuno, già noto per la creazione di Vagrant Story e per la supervisione dell'undicesimo episodio nella partnership con PlayOnline. E Matsuno aveva le idee più che mai chiare, essendo volenteroso di esplorare a fondo la componente fanta-politica che da anni serpeggiava nei meandri della serie, intessendo un intreccio maturo e ricamato attorno a un protagonista che fosse altrettanto maturo, sviscerando quell'universo di Ivalice con il quale aveva affrescato i fondali di Final Fantasy Tactics e del succitato Vagrant Story. Purtroppo, nel viaggio di Final Fantasy 12, la sfortuna assunse un ruolo da protagonista assoluta. In primis quando diversi impiegati lasciarono la compagnia per seguire Hironobu Sakaguchi in una nuova avventura, scatenando le ire del fumantino Matsuno, ma soprattutto quando l'ideatore dell'opera dovette confrontarsi con un lungo periodo di malattia, poi sfociato nell'abbandono del progetto verso la metà del 2005. Fu così che un capitolo attesissimo si trovò spoglio del suo autore, lasciando tutto il peso nelle mani del solo Hiroyuki Ito e spalancando le porte a un'incursione corporativa nei meandri del racconto.
Furono proprio ragionamenti maturati in seno al marketing a stravolgere alcuni punti fermi del progetto, come ad esempio la sostituzione di quello che avrebbe dovuto essere il protagonista, i cui tratti furono ereditati dal vecchio capitano Basch, con le figure dei giovani Vaan e Penelo. Nonostante le rettifiche dell'ultimo minuto, Final Fantasy 12 vide luce nel 2006 mantenendo intatta l'anima da JRPG hardcore e conservando la natura creativa socio-politica, tratteggiando i contorni di un'opera che fin dal lancio si dimostrò estremamente divisiva. Per i fan dei JRPG di vecchia data fu un lavoro monumentale, eppure assunse al contempo le tinte del flop per gran parte della nuova utenza attratta dal vortice dell'età dell'oro, ormai abituata a stilemi molto distanti dai maturi fondali di Ivalice. Non aiutò neppure la peculiare natura meccanica, vicina alla formula open-world e deprivata degli scontri casuali, cucita attorno all'eccellente sistema Gambit e tuttavia inadatta al pubblico di massa. Insomma, il brand di Final Fantasy mosse i primi passi nelle acque di una crisi autoriale che era in realtà una crisi dell'utenza, ormai nettamente spaccata in due frange incerte riguardo cosa effettivamente desiderassero dalla saga.
Ma a ben vedere era il medium nel suo insieme che stava cambiando a velocità folle, accogliendo rivoluzioni come quelle portate da Assassin's Creed e Mass Effect, accarezzando la consacrazione dei GDR occidentali come The Elder Scrolls IV: Oblivion, e soprattutto prendendo coscienza del travolgente impatto degli sparatutto in prima persona.
Autunno
Un tale contesto turbolento non poteva che portare all'emersione di un'istanza controversa, nata proprio in ragione delle qualità adattive del brand di Final Fantasy, come sempre volenteroso di assorbire influenze e di mettere in scena fra i più grandi videogiochi in circolazione. Ma è proprio in questo frangente che torna utile il manifesto degli assiomi alla base del successo del brand, perché nel momento in cui le regole vengono tradite - anche solo parzialmente - la risposta del pubblico non tarda mai ad arrivare. Final Fantasy 13 prese forma dall'idea iniziale, poi fortemente ridimensionata, di inaugurare un lungo filone narrativo legato ad un'unica grande entità - la Fabula Nova Crystallis - al punto tale che nel 2006 fu presentato il primo trailer del progetto "Versus XIII", destinato a divenire dopo lunghissimi anni parte delle fondamenta del quindicesimo episodio. Un contesto segnato da incertezza e confusione, questo, che non andò ad impattare solamente il segmento creativo-autoriale, ma si riflesse nell'orientamento generale del marchio, regalando una forma indecifrabile al capitolo diretto da Motomu Toriyama e scritto da Daisuke Watanabe.
Al netto delle vendite da record, parzialmente legate alla prolungata assenza della saga dagli scaffali dei negozi, con l'avvento di Final Fantasy 13 accadde per la prima volta che un episodio della serie principale fosse travolto da un'ondata di critiche negative. Alcune erano emerse dai media di settore, scontenti della forte impronta lineare che caratterizzava gran parte dell'opera, ma la maggior parte sorse in modo endemico dalle comunità di appassionati, che trovarono nell'avventura di Lightning scarsa attinenza con la storica identità della serie. Se Toriyama rispose ai primi affermando che i media occidentali fossero eccessivamente viziati dal boom dei videogiochi open-world, Yoshinori Kitase - che ricopriva il ruolo di produttore - affermò senza peli sulla lingua che il tredicesimo capitolo: "Non era nato per funzionare come RPG ma come un titolo nuovo, per certi versi anche come un nuovo genere che fosse più vicino all'esperienza FPS che a quella del gioco di ruolo". La chiosa giunse con una dichiarazione del presidente di Square Enix, Yoichi Wada, che durante un'intervista svelò tutte le carte in tavola: "Final Fantasy dovrebbe o non dovrebbe diventare un nuovo tipo di gioco? Gli utenti hanno opinioni contrastanti, ed è estremamente difficile scegliere quale strada imboccare". Un'affermazione, questa, che sintetizza tutte le paure e le pressioni subite all'epoca dalla casa, incatenata a formule che in passato erano state in grado di raggiungere risultati straordinari, ma che in tale presente rischiavano di soccombere sotto i colpi inflitti dai grandi videogiochi d'azione e avventura occidentali. Il pubblico dei videogiocatori aveva assaporato le avventure dinamiche di Nathan Drake, quelle di Ezio Auditore, si era perso nella Liberty City di GTA IV, presto avrebbe scoperto la regione più a nord di Tamriel, prima di discendere nei meandri di Lordran. Square-Enix era sempre stata la migliore a fare ciò che faceva, ma ciò che faceva non era più adatto a soddisfare le esigenze del grande pubblico internazionale al quale la saga mirava a rubare il cuore.
Lo scisma
Udite e metabolizzate queste parole è decisamente più semplice decifrare la spinta che guidò la mano degli artisti durante la realizzazione del quindicesimo capitolo: imprimendo su una copertina le parole "Final Fantasy", l'obiettivo è sempre stato quello di produrre il più grande videogioco in circolazione. Final Fantasy 15 si rivelò l'ennesimo titolo segnato dalle sfortune sul piano autoriale, dal momento che il progetto originale a firma di Tetsuya Nomura fu deviato in corso d'opera per giungere nelle mani di Hajime Tabata, andando incontro a riletture, modifiche e rinvii che fecero lievitare fino a nove anni il tempo trascorso dalla pubblicazione del primo trailer al momento del lancio. Lancio che, dal canto suo, segnò l'apice della guerra intestina fra tradizionalisti ed evoluzionisti, fra veterani e giovani fan, trasformando l'opera al tempo stesso in un clamoroso successo e in una cocente delusione. Milioni di nuovi appassionati hanno amato l'odissea di Noctis Lucis Caelum e compagni, assaporando ogni oncia del meraviglioso universo open-world costruito con il Luminous Engine proprietario e studiando le trame delle nuove battaglie; l'altra faccia della medaglia era rappresentata da uno zoccolo duro di veterani che ne criticavano la deriva d'azione, la nuova natura aperta, la scarna caratterizzazione del mondo e la superficialità dell'intreccio. Ciò che più conta, d'altra parte, è il fatto che Final Fantasy 15 abbia rappresentato, per tantissimi giovani, un equivalente moderno dei fenomeni dell'età dell'oro dei '90, trasportando orde di nuovi fan all'interno dei confini della saga.
Fino a questo momento abbiamo analizzato il centro di gravità di Final Fantasy, incarnato dagli episodi cosiddetti "numerati" - la serie mainline - ma non bisogna dimenticare che il nome della saga si è legato spesso e volentieri a capitoli spin-off, improbabili sequel, persino film e intere compilation ricamate attorno a un singolo universo narrativo. Se da una parte questa è una grande testimonianza dell'impatto cross-mediale portato dal brand, nel caso specifico del quindicesimo episodio divenne la radice alla base di una pubblicazione dilazionata, composta della somma di tante piccole parti autonome che solo nel loro insieme - attraverso la Royale Edition - avrebbero potuto districarne l'intero intreccio. Quella dell'esperienza in divenire è una lama a doppio taglio, specialmente nei confini creativi di opere che dovrebbero tassativamente alzare il sipario su grandi storie drammatiche fin dal primo giorno. Eppure c'è un titolo che non abbiamo ancora preso in esame che corrisponde perfettamente a questa descrizione, uno che è riuscito a sovvertire un destino avverso, e che oggi si ritrova investito del difficilissimo compito di riportare l'intera saga di Final Fantasy ai fasti dell'età dell'oro. Un titolo che vive legato a doppio filo con il nome di un singolo individuo: Naoki Yoshida, il leader della Creative Business Unit 3 di Square Enix.
Il futuro della saga
Prima ancora che l'avventura di Noctis graziasse le sponde delle console di ottava generazione, la compagnia aveva tentato una seconda sortita nel sottobosco degli MMORPG attraverso Final Fantasy 14, andando incontro a un pesantissimo fallimento, uno di quelli che spingono a riflettere seriamente sull'eventualità di staccare la spina. Fu allora che intervenne Naoki Yoshida, una figura distante dalla storica filosofia della casa, volenterosa di guardarsi attorno e di tenere in considerazione i competitor, consapevole di quanto fossero preziosi i legati tramandati dall'altisonante nome di Final Fantasy. Nel giro di un anno, il nuovo director riuscì a stravolgere il destino del progetto, alzando il sipario su A Realm Reborn e traghettando milioni di appassionati nel cuore di un universo che era un tributo alla saga nel suo insieme, regalando loro la possibilità di accarezzare una vita dall'altra parte dello schermo. Final Fantasy 14 si trasformò nell'unico cigno bianco a vagare deciso per le acque tumultuose della compagnia, raccogliendo un successo dietro l'altro e inaugurando una leggenda che non si è ancora interrotta.
Le espansioni Heavensward, Stormblood, Shadowbringers e la recente Endwalker, sono state tutte capaci di raccogliere medie di valutazione astronomiche, e l'ultima - nello specifico - è diventata l'opera legata al nome Final Fantasy meglio valutata di tutti i tempi dalla critica internazionale. Non deve stupire, in tale contesto, che Square Enix abbia inquadrato nella figura di Naoki Yoshida il frontman perfetto per accompagnare il marchio in una nuova era. Circondatosi di scrittori straordinari, di compositori del calibro di Masayoshi Soken, di artisti e programmatori capaci di spingere la fantasia finale verso nuove vette, Yoshida ha cambiato il volto della vecchia Business Division 3 al punto tale che sarà proprio lei, nel giugno del 2023, ad alzare il sipario su Final Fantasy 16. Ed ecco spiegati i motivi per cui i fan più accaniti nutrono tante speranze verso il nuovo capitolo numerato: sono ben consci che stia venendo costruito artigianalmente da mani che sanno curare a dovere l'eredità della serie, avendo questi più volte dimostrato di puntare tutto sulla soddisfazione delle esigenze degli appassionati e sul rispetto dei pilastri della saga. La nuova primavera portata da Final Fantasy 14 è passata inosservata alla nutrita fetta di appassionati distante dal mondo degli MMORPG, eppure rappresenta una fra le vette più alte - se non addirittura la più alta in assoluto - toccata sul fronte creativo e autoriale.
Nella nostra contemporaneità, il marchio di Final Fantasy vive sospeso tra un passato glorioso e un futuro incerto a causa della fitta coltre di nebbia che avvolge tanto il sedicesimo episodio quanto il pieno compimento del discusso progetto Remake di Final Fantasy 7. Sono queste due le opere selezionate da Square Enix per guidare il brand attraverso l'ennesimo vortice di cambiamenti, nel domani di un'industria indomabile che è profondamente cambiata e che indubbiamente cambierà ancora.
Alcune cose, invece, non cambieranno mai: ci sarà sempre un nuovo capitolo di Final Fantasy all'orizzonte, pronto ad occupare le prime posizioni nelle classifiche dei videogiochi più attesi, forte di una fanbase che si è formata lungo trent'anni di grandi successi e di vistosi scivoloni. In fin dei conti, per tornare a brillare, serve solo mettere insieme i tasselli di un mondo minuziosamente caratterizzato, impreziosito da una grande storia drammatica, punteggiato di personaggi complessi e stretto nell'abbraccio di meccaniche profonde, a prescindere da caratteristiche sempre mutevoli come il sistema di combattimento. In poche parole, serve che Final Fantasy si comporti da Final Fantasy, niente di più e niente di meno.