Tra tecniche illusionistiche e idee concettuali
Nel videogioco i procedimenti illusionistico-mimetici della realtà e l’utilizzo delle stesse tecniche ai fini della creazione di universi estetici e interattivi “diversi”, concettuali o di pura fantasia dall’altro, coesistono in tensione, e la dimensione visuale agisce come un fattore cruciale per il progetto interattivo del gioco digitale. Evitando applicazioni forzate, si possono “prendere in prestito” degli strumenti teorici per individuare dei percorsi di lettura di un medium “altro”. Uno strumento molto utile può rivelarsi la storia dell’arte: gli storici hanno utilizzato varie metafore per illustrare il percorso dell’esperienza estetica e, tra questi, Ernst Gombrich, autore di Arte e Illusione (Leonardo Arte editore, Milano, 1998) suggerisce un percorso dell’arte come rapporto tra Mimesis (imitazione) e Poiesis (creazione), come progressivo e sistematico riassestamento (non privo di scossoni e maremoti) tra la formulazione di schemi concettuali o ideali, la riproduzione di porzioni di realtà. E, com’è chiaro, l’interazione/tensione tra i due processi. Analizzando l’illusionismo della pratica artistica, Gombrich presenta le tecniche come “abbecedari”, accumuli di conoscenze del mondo e dei processi di ricezione delle opere, che costituiscono sia vincoli di esecuzione (pratici/manuali e stilistici/normativi), sia la base di una qualunque ricerca eccentrica o individuale.
Nel gioco digitale la componente visuale non è la dimensione esclusiva dell’esperienza ludica ed estetica, ma indubbiamente la più pervasiva ed evidente: e anche in questo dominio espressivo l’evoluzione si mostra come storia del comprendere e ricreare, di tecniche e vincoli in cui gli stili e la sensibilità del fare articolano una dialettica tra imitazione e immaginazione. The Getaway è un polo estremo di questo continuum: persegue la mimesi. Lo sforzo tecnologico è votato a ricreare un ambiente di gioco che simuli una versione digitale e interattiva di Londra, ottenuta grazie alla ripresa fotografica del mondo reale e alla manipolazione digitale. Rez, al contrario, si propone come un mondo fantastico, visivamente e concettualmente unico e radicalmente distinto dalla realtà, come un universo luministico e musicale privo di tentativi di mimesi nei confronti del mondo reale. E, anzi, programmaticamente opposto ad esso. Le diverse “missioni” di questi giochi illustrano, negli estremi, la pluriforme vocazione estetica e di esperienza ludica del videogioco.
Il giorno nero del realismo
The Getaway è solo uno tra i più recenti dei sistematici tentativi di realismo “radicale” che si possono registrare nella storia videoludica. L’interazione si fonda elementi stealth, da shooter e da racer, con una meccanica fortemente sbilanciata sull’impianto narrativo, su una trama dal sapore noir. La gangster story contemporanea è ambientata a Londra, una Londra “vivibile” e “giocabile”, per la cui mappatura grafici e coders impiegano mesi di tempo (e notevolissime risorse). Entrati nella vera Londra, la documentano e ricostruiscono nelle strade, nei monumenti, negli edifici e spazi, per poi (ri)costruire un ambiente di gioco virtualmente identico alla controparte sostanziale - vetrine di negozi, cestini e manifesti inclusi. Il team fotografa e filma, quindi digitalizza e smista la grafica ottenuta su un ambiente ammobiliato con una elevatissima quantità di poligoni solidi. Il progetto illusionistico va anche oltre: per rendere il gioco immersivo come un’esperienza cinematografica, i programmatori rimuovono dallo schermo ogni tipo d’interfaccia utente. Radar, mappe, energia e aree attive, strumenti meta-discorsivi tipici del medium videoludico, e ad esso in parte necessari per garantire un’interfaccia di controllo adeguata, sono rimossi dallo schermo.
Il giorno nero del realismo
Ma, a parte la scelta di rimozione dell’interfaccia, come si è arrivati a queste possibilità? Il videogioco è un fenomeno ludico in cui l’evoluzione tecnologica si presenta sia come causa endemica di progresso che come causa di obsolescenza precoce. The Getaway è sicuramente allo stato dell’arte di una storia evolutiva in cui le tecniche si sono moltiplicate ed evolute di pari passo con l’incremento della capacità di calcolo dei processori, generando un rapporto complesso tra quello che il game designer avrebbe potuto fare alla luce dei vincoli tecnologici e quello che invece avrebbe voluto fare seguendo il proprio estro creativo. Dai primi oggetti a matrice di punti o a calcolo di vettori che animavano i mainframe del M.I.T., dove è nato il gioco elettronico, si è passati in pochi decenni a complessi modelli a poligoni solidi di oggetti e ambienti, rivestiti da testure grafiche dal livello di fotorealismo sempre più elevato per un’industria dal massimo grado di serializzazione.
Il giorno nero del realismo
In The Getaway lo sforzo più notevole è quello relativo alle texture. Oggetti, com’è noto, importanti nella costituzione dell’opera videoludica: non solo perchè i rivestimenti grafici a mappa di punti ricoprono ambienti e modelli poligonali fungendo da “pelle” per gli “scheletri” in wireframe; ma anche perché, cio facendo, serveno l’intentio operis (e del guadagno), richiamando universi estetici, stili e consumatori radicalmente diversi. Le textures fotorealistiche si accompagnano al motion capture, per cui in The Getaway sono i movimenti di attori in carne ed ossa ad essere stati trasferiti ai modelli poligonali, attraverso l’applicazione di sensori sul corpo che registra un pattern dinamico del mondo reale. Un’altra serie di routine di rappresentazione sembra occuparsi, infine, di accentuare o diminuire gli effetti di distorsione che agirebbero sugli elementi architettonici come esiti naturali delle visuali e dalle soggettive, e di “armonizzarli” ai fini estetici: esattamente come le statue di Fidia, che, nel racconto di Franciscus Junius, decide di costruire, al contrario di Alcamene, dei simulacri che, in cima ai palazzi, risultino belli alla vista dalla prospettiva del pubblico sottostante, e non da quella, usuale ma qui inutile, dello sguardo ravvicinato. Insomma, lo spirito creativo di The Getaway passa radicalmente attraverso il comprendere il mondo “naturale”. Nonostante lo sforzo tecnico, però, The Getaway fallisce. La potenza di elaborazione, infatti, non può prescindere da un utilizzo sensato. L’esito artistico non può essere correlato deterministicamente alla tecnologia, anche se è frutto proprio della tensione tra la tecnica e il suo utilizzo. Texture fotorealistiche, mimiche facciali e movimenti verosimili mostrano il fianco proprio ai limiti stessi del “realismo” ludico. Il giocatore e l’osservatore passano più rapidamente dall’effetto-sorpresa iniziale all’additare i limiti goffi di quest’approccio di quanto non impieghino a godere del primo impatto illusionistico. Un teatro di marionette dai volti fotorealistici ambientato in impalcature scenografiche non è certo una Londra virtuale: ne è piuttosto un’imitazione impoverita, un campo minato di “falle ontologiche”, di vicoli ciechi ambientali privi di esiti estetici o interattivi soddisfacenti, che stridono con la sua forzata pretesa di realismo. Nel proposito realista o cinematografico, peraltro, si consuma un suicidio ludico. La mancanza di interfaccia rende il gioco frustrante. Gli eventi ludici lineari e precostituiti, non sorgono da ambienti ricchi di eventi possibili dalla logica rizomatica: di titoli come GTA, simili e più validi, si è imitata la sola patina narrativa, visto che nel videogioco il complesso narrativo, rappresentazionale-scopico, interattivo non deve prodursi per sintagmi lineari, ma attraverso la costruzione di ambienti dal potenziale di attualizzazione più o meno complesso, dotati di fasci di proprietà estetiche, narrative, internazionali. The Getaway, invece di ispirarsi al mondo reale per costruire un mondo possibile dalla matrice di eventi coerente, viola in maniera impacciata la regola non scritta di qualunque mondo finzionale: mai tentare di abbracciare il continuum del mondo reale!
Rez: fantasia e sinestesia
Esiste, nella critica del settore, una tendenza a privilegiare, a volta ingenuamente o forzatamente, una visione tecnocentrica nel valutare l’estetica del gioco elettronico. Perlopiù, il gioco è posto nell’infausta condizione di dover sfidare fotorealisticamente (e dunque come mondo possibile) la realtà. Un esempio di simili discorsi è un Forum, riportato in immagini, dal titolo eloquente di “Forza Motorsport VS Reality”, in cui un’immagine di una pista da corsa del mondo reale e la sua riproduzione videogiocabile vengono messe a confronto e valutate secondo i criteri del “realismo”.
Rez: fantasia e sinestesia
Il caso di Rez, spesso citato come una “sinestesia interattiva”, è del tutto opposto: la sinestesia giocabile, dalle tinte cyberpunk e le proprietà luministiche, vibratili, sonore creato da Tetsuya Mizuguchi è un parto di creazione per quanto possibile “pura” rispetto alle suggestioni naturalistiche. I labirinti di suoni e colori, l’eliminazione di virus e bug, l’ispirazione a film come Tron e alle suggestioni tipiche della letteratura cyberpunk sono la punta dell'iceberg del titolo, visto che il successo di Rez risiede nella sua portata interattiva e sinestesica: il giocatore, come abbiamo esaminato in uno special su Mizuguchi, non si limita ad andare a ritmo di musica, ma crea la musica in accordo agli eventi visivi e vibratili, eliminando i nemici e creando nel contempo la soundtrack. Game designers e teorici del gioco elettronico sono concordi nel reputarlo uno degli esempi più unici che rari in cui l’arte può “farsi videogioco”, costituirsi, anzi, come una tela bianca per i comandi del giocatore e per gli eventi visivi, musicali e vibratili che può innescare. Il programma può ospitare ogni combinazione di comandi possibile sul continuum spaziale e temporale, diventa un mondo possibile totalmente alternativo, che si compone di vettori e griglie come formanti figurativi e primitivi, riletti alla luce delle possibilità dell’hardware contemporaneo e votati a denegare il realiso. Le texture contribuiscono a un’estetica del tutto avulsa dalla verosimiglianza.
Rez: fantasia e sinestesia
Tra le fonti di ispirazione viene citato Kandinsky. I movimenti dei simulacri ludici non rispondono a logiche antropomorfe o naturali. L’ambiente di script è concepito in maniera programmaticamente diversa, come un flusso di esperienza audiovisiva dagli esiti aperti e plurimi. La sincronizzazione potenziale e attualizzabile di musica, estetica e interazione caratterizza Rez come esito di una visione di fantasia, non mimesi. Mizuguchi parla di sinestesia, di “correlazione sensoriale tra ordini di senso diversi” e del loro reciproco richiamo, discute dei nessi tra suoni, immagini e colori, unioni “percettive o culturali tra una particolare forma e il viola, oppure tra un suono determinato e il giallo o il rosso”. Il gioco, in congiunzione con una periferica vibratile, è risemantizzato da diverse giocatrici persino come stimolatore sessuale. In questo caso il mondo possibile non solo non si spegne goffamente nel tentativo mimetico, ma si presenta come un fortunato campo di immersione sensoriale, dove le “passeggiate interazionali” di cui parlano i teorici dei mondi possibili (rinviamo tra questi a Eco e Dolozel) non incontrano falle ontologiche, zone morte dell’interazione, ma territori da colonizzare, spazi liberi di mondi altri.
Realistico o Fantastico?
&forumidQuale, dunque, la strada del videogioco? The Getaway e Rez sono esempi estremi, perché il continuum dell’estetica del ludus digitale presenta, com’è ovvio, infinite sfumature e varietà, e non è poi del tutto vero che nel primo non esista alcuno spunto fantastico o nel secondo alcuna ispirazione naturalistica.
Realistico o Fantastico?
Si tratta, però, di esempi utili per comprendere il rapporto tra l’estetica del videogioco e il mondo possibile che schiude. La componente visuale ha un ruolo centrale nel processo di costruzione di questi mondi possibili e nel loro rapporto con il continuum del mondo reale. David Lynch, nella commercial “different worlds, different rules” girata per Sony, ha dimostrato come in un altro mondo, apparentemente identico al nostro, è il camion che si distrugge contro il cerbiattino che attraversa la strada. E David Cronenberg, in ExistenZ, ha firmato, oltre che un capolavoro cinematografico, un vero trattato teorico dei mondi possibili videoludici: nel film i personaggi vivono tra un mondo reale e un mondo di gioco visivamente “reale” quanto la realtà, fino al punto di confondervisi: ma hanno competenze dialogiche che li portano prima o poi, in caso di sollecitazioni non previste, a oscillare inevitabilmente in attesa di input riconoscibili, come nel più comune e poco fantasioso RPG, i loro cervelli sono sceneggiature già scritte e altamente prevedibili. Ovviamente, il mondo non è come un videogioco, e quest’ultimo non può costruirsi come valida alternativa ad esso. Prima o poi finiremmo come un fantoccio di Cronenberg, dondolante in attesa di uno stimolo-risposta già computato, oppure malediremmo un daimon che ci comunica la nostra esistenza in un mondo di script infiniti e ciclici. Per un videogioco, a nostro avviso, è sempre consigliabile (e non solo per motivi di pigra convenienza) proporsi come un altro mondo piuttosto che come una porzione del mondo reale: nel primo caso può configurarsi come dimensione altra, nel secondo soltanto come riproduzione destinata a incorrere geneticamente in precipizi e goffaggini. Codici, tecniche, procedimenti, stilemi creativi e imitativi, infatti, possono muoversi per istituire generi che tendono alla cristallizzazione. O, in mano a pochi altri, possono virare verso visioni originali o rivoluzionarie.
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VIDEOLUDICA è la premiata rubrica di storia, critica e teoria del videogioco dedicata all’universo del gioco elettronico con un taglio diverso, accattivante, maturo. VIDEOLUDICA vi porta alla scoperta dei generi perduti, dei veri autori, delle teorie sul videogioco, degli incroci con il cinema e le altre arti, delle tematiche più scottanti: tutto quello che avreste voluto leggere sui videogiochi e non avete mai osato chiedere.
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In questo numero: VIDEOLUDICA vol. 13 - Realistic VS Fantastic. The Getaway e Rez. Realismo contro fantasia. Due giochi a confronto, due filosofie del gioco elettronico. Tra motion capture e sinestesia ritmica, Videoludica vi porta alla scoperta dell'incontro/scontro tra mimesi del reale e fuga nella fantasia nei territori del gioco digitale.
vol. 13 - REALISTIC VS. FANTASTIC
Per un videogioco è più importante essere realistico o fantastico? Un mondo digitale può e deve essere una vera e propria riproduzione della natura, di un ambiente reale, di una fisica verosimile? Oppure deve tentare di spalancare una porta su una dimensione altra, esterna alla nostra realtà, dominata da regole proprie? Come si intuisce, dare una risposta unilaterale alla questione risulterebbe limitante. Tentare di abracciare l’intera questione dell’estetica del gioco elettronico, d’altro canto, risulterebbe forzato anche per un lavoro enormemente esteso, e certo impossibile da racchiudere in un singolo contributo. Ci limiteremo, quindi, a suggerire due modelli, per così dire, “estremi”, due casi limite da utilizzare come poli di un continuum, per indagare, nel videogioco, il rapporto complesso tra imitazione della realtà e attività creativa. E per analizzare la dimensione estetica del gioco digitale ci rifaremo a due esempi concreti: ‘The Getaway: Black Monday’, con il suo tentativo di riproduzione fotorealistica di una città reale, e ‘Rez’, il capolavoro di Tetsuya Mizuguchi, con la sua dimensione audiovisiva e vibratile psichedelica, sinestesica, immersiva e totalmente “altra” rispetto alla realtà.