La scorsa settimana chi ha navigato questo e altri siti di videogiochi ha potuto leggere e godere di decine e decine di scintillanti videogiochi apparsi in stand fantastiliardari. Quello che sicuramente non ha letto è dei progetti minori, degli stand indipendenti, delle stanze chiuse con un anonimo videogioco a forma di poster sulla porta. Parlo dell'underground, l'angolo buio in fondo a destra, quello di ogni fiera di videogiochi che si rispetti, dove cercano di sopravvivere oggi gli sviluppatori di successo di domani. Quest'anno ho avuto due sorprese piacevoli e una riguarda anche noi italiani.
La prima sorpresa, e sicuramente inaspettata, è stata l'Iran. Abituato a sentire un giorno sì e un giorno no spiacevoli notizie legate a quella che una volta fu la Persia, culla di civiltà e di cultura in tempi in cui nel resto d'Europa ancora si andava a caccia con i bastoni e le pietre, trovare lo stand dell'Iran National Foundation of Computer Games, mi ha fatto enorme piacere. Pensare al videogioco come trait d'union di popoli un po' inorgoglisce. Laddove spesso falliscono le diplomazione, forse potranno un manipolo di programmatori-videogiocatori. Ho parlato a lungo con Arash Jafari, aspetto e movenze di un moderno Sandokan, fondatore di Fanafzar, considerata "software house d'eccellenza", insomma il non-plus-ultra della produzione iraniana. Gli ho chiesto dei problemi della censura politica e religiosa (importante e prepotente), del cosa significa lavorare con 25000 dollari di budget, di cosa cercano i giovani iraniani ("God of war" ha detto lui), di cosa vuol dire non poter contare sul mercato occidentale più florido, ovvero gli USA.
Alla fine quel che ne esce è una gran voglia di affermazione e di riscatto, non lontana da quella di qualunque altro paese emergente nella scena internazionale del videogioco. Unita però ad una dose di modestia mai vista prima. Il suo gioco, anch'esso punta di diamante in quanto a tecnologia della produzione iraniana, si chiama Garshasp. Valutato con i canoni odierni, chiuderesti con un "nun se po' guardà", visto con un senso di prospettiva (delocalizzazione dello sviluppo, mercato emergente) va apprezzato. Oltretutto anche in Occidente si producono delle porcherie mica da ridere, spesso anche blasonate.
La seconda sorpresa è stata l'Italia.
Al di là delle immancabili critiche suscitate dall'operazione (si poteva fare meglio, si poteva fare di più), è apprezzabile lo sforzo fatto da un gruppo di sviluppatori (l'IGDI, Italian Game Developers Industry) di metterci del proprio e andarsi a presentare sullo show floor. Gli italiani-sviluppatori non sono mai mancati nelle fiere internazionali, ma li potevi trovare nomadi, eleganti, con giacca e borsetta, cercando contatti stand dopo stand. Vedere finalmente qualcosa di concreto, da toccare con mano, una bandiera italiana in terra straniera insomma, mi ha fatto molto piacere. E come si dice, se son rose, fioriranno e se son spine, pungeranno.