Quando al giorno d'oggi ci si confronta con un videogioco, c'è un punto fermo dal quale sembra impossibile sfuggire, a prescindere dal genere di riferimento. Che si stia esplorando un'era ormai tramontata in un capitolo di Assassin's Creed, che si stia mettendo a ferro e fuoco la Midgard di God of War, che si stiano affrontando orde di ganados in Resident Evil, i livelli che si attraversano accolgono sempre una qualche forma di oggetti da collezionare. Non importa che si tratti di strumenti utili per ottenere potenziamenti o di meri ninnoli da raccogliere per sfizio: ormai si tratta di un elemento onnipresente col quale è necessario scendere a patti, un elemento in grado di dividere le folle fra silenziosi estimatori e critici agguerriti.
Ma c'è stato un tempo lontano in cui l'atto di collezionare oggetti era molto più di una semplice appendice delle avventure interattive. Attorno alla metà degli anni '90, durante il complesso periodo di transizione verso il mondo delle tre dimensioni, le fucine creative di Nintendo hanno involontariamente inaugurato l'età dell'oro di un genere di videogiochi di straordinario successo, uno che al giorno d'oggi parrebbe caduto nel dimenticatoio. Il platform collectathon - o collect-a-thon, dalla crasi delle parole "collectibles" e "marathon" - partiva proprio dal presupposto di sfruttare l'integrazione della terza dimensione per costellare i neonati livelli aperti di oggetti celati in ogni singolo anfratto dei poligoni, dando vita a rilassanti esperienze unicamente votate alla raccolta di collezionabili.
Oggi il collectathon è una reliquia di un'epoca scomparsa che torna di rado a fare capolino nel sottobosco dell'industria, spesso per mano di piccoli studi indipendenti e gruppi di veterani sopravvissuti al rimpastone dei '90. Ma la filosofia del genere si è intrecciata saldamente con le stesse radici del concetto di videogioco, diventando un tassello al tempo stesso discusso e presente nel mosaico di qualunque produzione.
Rivoluzione: Super Mario 64
Osservando attraverso le lenti della contemporaneità Super Mario 64, ciò che si nota è una sorta di brodo primordiale del videogioco moderno, una culla di meccaniche legate al primo sfruttamento dell'asse Z che si rivelarono talmente efficaci da sopravvivere intonse fino al giorno d'oggi; basti pensare al semplice fatto che persino Super Mario Odissey, ventuno anni dopo, condivide ancora il medesimo sistema di movimento introdotto allora. All'alba dei '90, tuttavia, l'attacco alla terza dimensione era osservato con grande diffidenza, un salto nel buio studiato come una scommesa estremamente rischiosa. I videogiochi a piattaforme potevano ormai contare su dozzine di formule rodate, al pari di altri generi estremamente diffusi come gli shooter e gli RPG, pertanto un tale stravolgimento degli assiomi era percepito come il potenziale avvento di una apocalisse creativa. Sarebbe stato possibile riprodurre le medesime sensazioni offerte da un qualunque Super Mario Bros. una volta indossato l'abito delle tre dimensioni?
"Mario 64 è stato il primo gioco nel quale ci si poteva muovere liberamente in un'ambientazione in 3D, e quindi ci si divertiva anche solo a muovere Mario e a cercare le Stelle", affermò Shigeru Miyamoto all'alba di Nintendo Wii. Fu proprio tale realizzazione a spingere il team guidato da Koizumi e Tezuka a disegnare un videogioco interamente basato sull'esplorazione di livelli tridimensionali, ampi spazi nei quali raccogliere tonnellate di oggetti oltre alle semplici Power Star. Collezionando le celebri otto monete rosse nascoste appariva una Stella, raccogliendo cento monete di qualsiasi genere ne compariva un'altra, individuando determinate uscite nascoste si potevano ottenere i cappelli speciali di Mario; in sostanza, l'intera struttura dell'opera era ricamata sulla possibilità di esplorare liberamente piccoli labirinti tridimensionali non lineari, andando alla ricerca di minute ricompense nascoste. Frutti, cuori fluttuanti, anelli: fin dall'alba dei videogiochi le interfacce erano state punteggiate di oggetti la cui raccolta portava conseguenze immediate sul piano del gameplay, ma non era mai capitato di poterli collezionare per il puro gusto di farlo. Se già negli anni '80 il pubblico gioiva oltremisura dinanzi a qualunque implementazione di oggetti segreti, tale interpretazione fu sufficiente per farlo andare fuori di testa: mai prima d'allora era emersa la moderna concezione di "completismo", ovvero la volontà d'impadronirsi di ogni singola ricompensa posizionata dagli sviluppatori.
Epidemia: Rare entra in gioco
La filosofia abbracciata dal più leggendario dei team di casa Nintendo fu rapidamente sposata da una fra le fucine più prolifiche dell'epoca, da sempre attenta alle mosse che prendevano forma in terra orientale. Rare, dopo aver ultimato i lavori su GoldenEye 007 e Diddy Kong Racing, presentò al mondo la strana coppia formata da Banjo e Kazooie attraverso il primo titolo del relativo franchise, un'opera che prese tutti gli insegnamenti di Super Mario 64 per applicarli a un vastissimo universo interamente votato all'elemento collezionabile. Banjo-Kazooie era un tripudio di note musicali magiche, pezzi di puzzle, simpatici Jinjo, pagine del libro Cheato e chi più ne ha più ne metta; decine e decine di oggetti volti a regalare un senso compiuto alle ampie mappe aperte protagoniste di ciascun livello. Persino l'overworld era una scatola dei segreti colma di interazioni nascoste volte ad alzare il sipario su ulteriori trofei, eppure si trattava della semplice anticamera sulla vera e propria "lista della spesa" che caratterizzava ogni ambientazione. Oggi la lista degli oggetti collezionabili è un elemento capace di far storcere il naso alla maggior parte dei videogiocatori, specialmente quando inserita nei contesti open-world, eppure allora tale formula fu accolta con un entusiasmo tale da scatenare un vero e proprio terremoto nell'industria.
L'anno successivo, Rare raddoppiò applicando la medesima ricetta alla fantasia di Donkey Kong, trasformando il debutto tridimensionale del gorilla in un collectathon talmente pieno di contenuti da richiedere tassativamente l'utilizzo dell'Expansion Pack per Nintendo 64. Donkey Kong 64, nonostante sia divenuto parte integrante della cultura pop, mostrò con chiarezza le prime crepe della formula, perché l'isola protagonista dell'avventura era talmente inondata di oggetti da raccattare - 3.821 in totale - da aggiudicarsi l'apposito Guinnes World Record introdotto nel 2008. Come se non bastasse, gran parte dei caschi di banane e dei gettoni disseminati nelle mappe richiedevano l'interazione di un determinato membro della famiglia Kong, sottendendo di fatto anche le operazioni più semplici a una serie di meccaniche ridondanti e tediose. Il relax, che storicamente aveva caratterizzato gli esordi del genere, avrebbe ceduto per la prima volta il passo alla macchinosa artificiosità che si sarebbe ripresentata nell'orbita di Banjo-Tooie, il sequel diretto del nonno di tutti i collectathon moderni. Nel tentativo di evolversi, il genere iniziò ad accogliere strati su strati di meccaniche: se una volta era sufficiente vagare nei livelli e raccogliere oggetti godendosi le giocose colonne sonore di Grant Kirkhope, Banjo-Tooie era una creatura alimentata da un brutale backtracking nonché da decine di abilità inedite che costringevano il giocatore a visitare e rivisitare i livelli infinite volte. Fortunatamente, ai primi battiti dei 2000, Rare diede un ultimo colpo di coda al mercato attraverso Conker's Bad Fur Day, sfruttando il suo dissacrante e politicamente scorretto scoiattolo per cucirgli attorno un'avventura che rappresentava l'antitesi stessa del collectathon, una parodia orientata alla narrativa che non esitava a prendere in giro il passato della casa.
Età dell'oro: collezioni ovunque
La scia del successo di Super Mario 64 fu inseguita da decine di produttori di videogiochi sparsi in tutto il mondo, tanto che il collectathon divenne uno dei generi più diffusi dell'epoca. Nel 1998, quattro mesi dopo la prima apparizione di Banjo e Kazooie, Insomniac Games battezzò le sponde di PlayStation attraverso l'esordio di Spyro the Dragon, opera capostipite di una lunga dinastia di videogiochi a piattaforme costruiti attorno alle movenze del piccolo draghetto, ideato per trasformarsi in una mascotte al pari di quelle della concorrenza. A onor del vero, i giocatori di casa Sony avevano già potuto tastare timidamente le acque del genere attraverso pubblicazioni come Croc: Legend of the Gobbos di Argonaut Software - non ancora un collectathon in senso stretto - oppure per mezzo del debutto di Gex nel mondo 3D a opera di Crystal Dynamics. Il centro della scena su CD-ROM restava tuttavia occupato da Crash Bandicoot, che nel 1996 aveva tratteggiato un sentiero inedito nel mondo dei platform tridimensionali, abbracciando solo parzialmente la deriva collezionistica e restando invece estremamente fedele alle regole cardine del genere. La strada imboccata dal peramele più famoso del mondo, dal canto suo, non fu sufficiente a limitare la diffusione di produzioni quali Bugs Bunny: Lost in Time e le dozzine di ulteriori derive maturate da progetti tie-in, come ad esempio A Bug's Life del 1998 e Toy Story 2: Woody e Buzz alla riscossa! del 1999, che all'epoca monopolizzavano gli scaffali dei negozi e i sogni degli appassionati.
Insomma, negli anni antecedenti il nuovo millennio era praticamente impossibile guardarsi attorno senza trovarsi al cospetto di un platform tridimensionale, quasi sempre realizzato secondo i dogmi del collectathon. Dal successo di Ape Escape fino a opere esoteriche come Glover o Chameleon Twist, le produzioni iniziavano ad accumularsi l'una sull'altra, e ancor più importante fu il fatto che le regole del genere avevano da tempo iniziato a varcarne i confini. Guardando semplicemente ai primi due capitoli tridimensionali nella saga The Legend of Zelda ci si può render conto di quanto fosse marcato l'elemento del collezionismo, fra bottiglie, contenitori di cuori e persino le maschere protagoniste di Majora's Mask; persino un'opera come Tomb Raider del 1996, molto lontana da tali derive creative, ospitava all'interno ben quarantacinque oggetti da collezionare nascosti nei meandri più oscuri dei livelli. Una volta attraversata la soglia del 2000, praticamente ogni videogioco - a prescindere dal genere e dalla natura - era caratterizzato da una qualche forma di oggetti da collezionare.
Crisi e assorbimento
La fiamma del collectathon non si spense da un giorno con l'altro, ma finì per affievolirsi lentamente mentre trasferiva il proprio calore alle produzioni che la circondavano. Rare chiuse la sua serie di vittorie con Starfox Adventures per GameCube, titolo d'azione e avventura che conservava all'interno dell'ambientazione preistorica qualche scampolo dell'antica visione creativa. Nello stesso periodo emerse il primo episodio di Jak and Daxter di Naughty Dog, ovvero The Precursor Legacy, probabilmente uno fra i migliori esponenti del genere mai realizzati, eppure la sua formula fu scartata e reinventata sin dall'esordio del primo sequel, che decise di imboccare una direzione completamente diversa. La virata verso le formule d'azione fece assumere contorni più rigidi anche a produzioni come Ratchet & Clank, che ormai trovavano nel puro e semplice gameplay d'avventura la propria ragion d'essere. A ben vedere la prima metà dei 2000 fu un'epoca complessa per tutti i platform tridimensionali: Crash Bandicoot si trovò ad attraversare un periodo di crisi impossibile da pronosticare, mentre persino Shigeru Miyamoto - designer che aveva gettato le fondamenta del genere - si stava interrogando sullo stato della formula; analizzando il concept alla base di Super Mario Galaxy e le differenze rispetto al caro vecchio 64, disse: "Oggi, un gioco non suscita più interesse solo perché è realizzato in 3D".
Certo, Super Mario Sunshine aveva mantenuto alto lo stendardo del collectathon, e probabilmente l'anima stessa di Mario non potrà mai distaccarsene del tutto, eppure furono in pochissimi a tentare sortite convinte dalla sesta generazione di console in avanti. Epic Mickey di Junction Point, Psychonauts di Double Fine, Poi di Polykid e pochissimi altri collectathon "puri" sopravvissero con estrema fatica all'avvento delle ricette moderne. Di contro, quell'antica essenza fu assorbita fino all'ultima goccia dalle produzioni emergenti, tanto che saghe come Assassin's Creed di Ubisoft finirono per rendere l'elemento collezionabile parte integrante delle proprie fondamenta. Al giorno d'oggi nei God of War di Santa Monica Studios incontriamo i Corvi di Odino, in The Last of Us Parte 2 ci sono carte e manufatti, The Legend of Zelda: Breath of the Wild trabocca di Semi di Korok, persino le avventure narrative lineari integrano spesso delle variazioni sul tema. Nonostante ciò, nella nostra contemporaneità, sembra quasi impossibile riuscire a immaginare una produzione interamente ricamata attorno alla mera raccolta di oggetti.
Il viaggio è finito?
Verrebbe quasi da dire che se oggi nessun videogioco è un collectathon, tutti i videogiochi sono parzialmente collectathon, ma la verità è che sarebbe un'inesattezza. Da qualche tempo gruppi di sviluppatori nostalgici stanno infatti tentando di rispolverare quell'antica formula, rileggendola alla luce delle moderne meccaniche di gioco. Sfortunatamente i ritorni in scena di alcuni grandi del passato, su tutti quello degli ex-Rare che nel 2017 hanno realizzato Yooka-Laylee, sono inciampati nella volontà di mantenere la ricetta originale pressoché invariata, quasi volessero cancellare con un colpo di spugna decenni di evoluzione del medium. Il medesimo destino è toccato a Snake Pass di Sumo Digital, che nonostante le innovazioni intrinseche nella sua formula non è riuscito a riportare alla ribalta l'essenza del genere, cadendo nelle stesse mancanze poi incontrate nuovamente fra i confini di Super Lucky's Tale di Playful Corp, troppo volenteroso di perdersi nel fiume dei ricordi. Accanto a loro, tuttavia, c'è stato un piccolo e silenzioso rinascimento.
PlayStation 5 si è affacciata sul mercato accompagnata da Sackboy: Una Grande Avventura di Sumo Digital, che rappresenta molto più di un semplice tuffo nella nostalgia, ma soprattutto da Astro's Playroom del Team Asobi, che ha reso onore alla storia del brand PlayStation adottando proprio la formula più pura possibile del collectathon tradizionale. Nel 2017 Gears for Breakfast aveva fatto un salto nel buio con A Hat in Time, titolo nato dalla difficile promessa di riportare in vita le atmosfere dimenticate dei '90; promessa che incredibilmente fu mantenuta: oggi è uno dei pochissimi videogiochi che su Steam - al netto di oltre 30.000 recensioni - può vantare una valutazione di 10/10. Più di recente, la rediviva Double Fine ha presentato al mondo Psychonauts 2, ben volenterosa di abbracciare le derive moderne per piegarle alle regole del passato. Ed è ancor più fresco il caso di Sonic Frontiers, che al netto delle numerose etichette appuntategli - da quella di open-world a quella di gioco d'azione - probabilmente trova la corrispondenza più netta proprio con il sottobosco del collectathon. Insomma, ci sono videogiochi che non invecchiano mai, ce ne sono altri che necessitano di evolversi, altri ancora finiscono per essere assorbiti dalle correnti più giovani: quella del collectathon è una delle rarissime storie che sono sfociate in ciascuna di queste eventualità.