Rami Ismail ha iniziato a lavorare nel settore dei videogiochi oltre dieci anni fa, quando, dopo aver abbandonato l'università assieme al suo compagno di studi Jan Willem Nijman, ha fondato con lui lo studio Vlambeer, a cui dobbiamo giochi come Ridiculous Fishing, Nuclear Throne e Luftrausers. Forte della serenità economica e della posizione ottenuta grazie al successo dei suoi giochi, Ismail ha dedicato grande impegno alla salute del settore. Ha fatto da portavoce per chi ha meno opportunità, anche organizzando eventi dedicati nelle fiere di settore; ha creato strumenti utili per gli sviluppatori come l'applicazione presskit(), che permette di organizzare facilmente i materiali da inviare alla stampa; fa lavoro da consulente, spesso accompagnando sviluppatori alle prime armi; sale sul palco delle principali fiere dedicate allo sviluppo per dare consigli agli sviluppatori su come affrontare il proprio lavoro; è costantemente impegnato nella discussione, online e non, attorno all'evoluzione del settore; ha perfino organizzato una conferenza dedicata agli sviluppatori interamente online e strutturata su un servizio di interpretariato multilingua.
Noi lo abbiamo incontrato durante uno dei primi eventi "di persona" dopo la riapertura delle fiere post-pandemia ed è stato naturale, se non proprio inevitabile, incentrare la nostra chiacchierata anche su un confronto fra il prima e il dopo.
L’impatto del Game Pass sulla scena indipendente
Per esempio, nel 2019, un tema sulla bocca di tutti era l'apertura dell'Epic Games Store, il fatto che qualcuno stava provando a proporre un'alternativa a Steam. Ismail, all'epoca, era molto esplicito riguardo al suo apprezzamento della cosa, al suo volere qualcosa che spezzasse il monopolio. Chiaramente la sua era anche un'ottica da sviluppatore che guardava alle percentuali di guadagno trattenute dai proprietari dei negozi, che su Epic Games Store sono state fin da subito decisamente più favorevoli.
Come si è evoluta, questa cosa? "Bene, ma non nel modo che speravo. Nel frattempo è esploso Game Pass, in modi che francamente non ci aspettavamo. E ha completamente riscritto le regole del gioco. Il modello è cambiato e non come speravamo ma ci sono dei benefici. All'epoca, la speranza era che Steam andasse in difficoltà e dovesse cedere su alcune cose. A conti fatti, Steam produce talmente tanti soldi che possono fregarsene e continuare per la loro strada". Si è però intensificata, dice Ismail, la conversazione su quanto gli sviluppatori indipendenti dovrebbero guadagnare dai loro giochi e, soprattutto, è aumentata la consapevolezza da parte degli sviluppatori stessi su come dovrebbero funzionare queste cose, su cosa è giusto accettare in un contratto con un publisher e altri temi simili.
Rimane, però, che a cambiare le regole non è stata Epic ma Microsoft, con il Game Pass: "È cambiata la concezione di cosa un indie deve fare con un videogioco. Si sta affievolendo l'idea di venderlo agli utenti e stiamo tornando a oltre un decennio fa, quando di fatto sviluppavi giochi e poi dovevi venderli ai produttori di piattaforme, poco importa se si tratti di un publisher, una console o un Game Pass. Oggi come oggi, un indie può sopravvivere facendo così, perché vendere direttamente al consumatore è incredibilmente rischioso. Ci sono più soldi, i publisher investono su più titoli e puoi ottenere un accordo e incassare a sufficienza per tirare avanti qualche anno e magari sviluppare un altro gioco. Nel contempo, però, il budget medio di un gioco indie è aumentato. Nel 2019 si stava fra i 150.000 e i 300.000 dollari, oggi si va dai 500.000 dollari al milione e mezzo. Per competere con cifre simili, ti servono più soldi. Per ottenere più soldi, servono modelli di business e profili di rischio diversi. E quindi stiamo vedendo un sacco di consolidamento, sia con le piattaforme che acquisiscono studi, sia in come vengono spesi i soldi. E oggi vengono spesi soprattutto nei servizi su abbonamento".
Secondo Ismail, questo modello durerà per una decina di anni e poi si cambierà ancora. Di sicuro, ritiene positivo il fatto che spesso i piccoli sviluppatori coprano immediatamente i costi di sviluppo e vadano in attivo semplicemente grazie all'accordo con Game Pass. Vede però dei rischi anche lì, perché "devi convincere un gruppo di cinque persone della bontà del tuo gioco. Il bello del modello in cui vendi direttamente al consumatore è che ricevi un po' di investimento, ti fai un nome e poi il pubblico decide se il tuo gioco merita.
Il che significa che ci sono tre miliardi di persone sulla Terra che possono deciderlo. Se hai successo, hai successo. Ma con questo modello devi convincere cinque persone, che devono provare a indovinare se il gioco piacerà a quei tre miliardi di persone là fuori". Secondo Ismail, nel momento in cui si escludono quelli palesemente basati sullo sfruttamento, non esistono modelli di business unicamente positivi o negativi. "Per esempio, tutta la discussione sul non fare volontariato, sul non lavorare gratis. È un ottimo principio, se vivi in un luogo nel quale hai accesso a finanziamenti. Ma se non hai modo di recuperare soldi... tutti lavorano gratis fino a che non arrivano i soldi. Il contesto è tutto, ti spiega perché la gente faccia determinate cose. Non è semplice comprenderne ogni sfumatura, è molto più facile dipingere le cose in bianco o nero".
È però interessante il suo punto di vista su come funziona una nuova piattaforma, che tipicamente al lancio produce un sacco di roba rischiosa che altrimenti non esisterebbe. Fa anche l'esempio di Apple Arcade, che all'inizio aveva una lineup molto particolare ma poi ha scelto di mirare alla retention, ovvero all'avere giochi che potessero trattenere costantemente la loro utenza, chiaramente più remunerativi. Oggi con Microsoft le cose vanno bene, ma come andrà fra cinque anni? "Non puoi fidarti di un'azienda. Puoi fidarti delle persone, ma le persone se ne vanno".
Oltretutto, aggiunge, un publisher di videogiochi ha sostanzialmente due gruppi di clienti, entrambi da accontentare: chi acquista i videogiochi e chi li sviluppa. "All'inizio, quando introduci qualcosa di nuovo, non hai una posizione di potere che puoi usare per far contenti gli sviluppatori. Non puoi promettere di far arrivare il gioco a milioni di persone. E quindi devi promettere altro. Prometti soldi, supporto, marketing, gestione dei rischi. Se c'è un gioco molto interessante ma rischioso a cui lo sviluppatore tiene, puoi offrirgli un finanziamento che farebbe fatica a ottenere altrove. Ma quando la piattaforma ottiene potere, l'argomento per 'vendersi' diventa la piattaforma stessa. E gli sviluppatori perdono l'accesso a quella possibilità di prendersi dei rischi".
Il profilo dell'azienda non cambia, l'obiettivo è sempre stato il profitto, ma cambiando la situazione, cambia il modo più sensato di inseguire quell'obiettivo. "Quando le cose ingranano, se le persone al comando non cambiano, il modo di fare tende a rimanere lo stesso fino a che non inizia a costare soldi all'azienda. A quel punto a quelle persone viene chiesto gentilmente di levarsi dalle scatole e le cose cambiano. Succede sempre così, senza eccezioni. Sony lo fa ogni volta. Con PlayStation 3 e nei primi anni di PlayStation 4, supportavano alla grande gli indie. Con PlayStation 5? Che io sappia, sono partiti senza avere nessuna strategia relativa agli indie. So che Hermen Hulst ci sta lavorando e magari metteranno in piedi qualcosa". Un tempo, spiega Ismail, in Sony c'erano persone come Shawn Layden e John Drake che lavoravano per far funzionare le cose, ma poi si è consolidata l'idea che essere su PlayStation genera guadagni a sufficienza perché non sia necessario altro lavoro. "E quindi hanno eliminato team, non hanno colto alcune opportunità e insomma, Microsoft investe più soldi, gli sviluppatori vanno da Microsoft. Ma va sempre così. E accadrà ancora".
Menzioniamo Housemarque come esempio simbolo della ciclicità di certe cose, uno studio che per tanti anni è stato legato a doppio filo a Sony e PlayStation, per poi ritrovarsi completamente tagliato fuori quando cambiarono le strategie, al punto di finire per mostrare il loro gioco su un tavolino fuori dalla hall principale dell'E3 in cui solo un anno prima Sony accoglieva decine di giochi indie. E poi, qualche anno dopo... Returnal e l'acquisizione. "Sono fermamente convinto," aggiunge Ismail, "che queste corporazioni siano intrinsecamente incapaci di prevedere un pericolo per la loro azienda. Perché finché le cose vanno bene, puoi continuare a fare le stesse cose, investendo sempre meno. Se hai qualcosa che funziona molto bene, ti serve sempre meno sforzo per continuare a venderlo. E quindi riducono costantemente lo sforzo fino a che, inevitabilmente, le cose vanno male. Non importa quanto sia bravo chi c'è all'inizio, prima o poi qualcuno dall'alto chiederà come mai si spendono tutti quei soldi e si mettono gli indie nel booth in fiera quando non sono gli indie che vendono le console. Qualcuno gli risponde che sono importanti per il brand e i rapporti con gli sviluppatori, ma poi si decide comunque di chiudere tutto".
Secondo Ismail accadrà anche con Game Pass: il team attuale, dice, è fantastico, tutti quanti, tutta la gerarchia, Chris Charla, il team di ID@Xbox, su su fino a Phil Spencer, lavorano con gli sviluppatori, sono affidabili nelle promesse che fanno. Ma prima o poi le cose cambieranno. Il problema, però, è che tutta la consolidazione di potere attualmente in corso sta generando spazi talmente ridotti che, quando qualcosa si rompe, diventa davvero complicato. In una certa misura, si è visto con Stadia e quanto la chiusura immediata ha messo nei guai gli studi che, siccome Stadia aveva investito su di loro, avevano deciso di basare su quella piattaforma il loro modello di business.
"L'unica cosa di cui ti puoi fidare è il fatto che chi sviluppa videogiochi vuole fare quello, vuole sviluppare videogiochi. La gente che si comporta bene potrebbe cambiare obiettivi e comportamento. Lo studio che tratta benissimo i suoi impiegati potrebbe entrare in crunch mortale. Devi essere pronto e capire che ci sono un sacco di forze che influiscono sullo sviluppo di videogiochi e che è veramente facile approfittarsi di te se tieni davvero a quello che fai. Vale anche per la stampa specializzata. Ti piace quello che fai, ti piacciono le parti belle di quel lavoro. Le uniche persone che lavorano in questi ambiti sono persone che amano quello che fanno. Altrimenti non lo farebbero. Non lo farei io, non lo faresti tu. Siamo entrambi qui perché amiamo i videogiochi. Il che ci rende facili da sfruttare".
Avendo menzionato Game Pass e Stadia, viene spontaneo passare a parlare di streaming. Ismail vede un possibile futuro "smaterializzato", in cui sarà possibile giocare un po' a tutto tramite qualsiasi pezzo d'hardware grazie allo streaming: "Penso che prima avremo una sorta di modello ibrido, in cui si scaricherà una piccola parte del gioco, il cuore, e il resto passerà dallo streaming. Pensa agli FPS, non possono funzionare in streaming, con la logica del gioco eseguita altrove. Ma il gameplay di base, 'moment to moment', è probabilmente una parte molto piccola del gioco. Se giochi a un Destiny, il 95% del gioco, probabilmente, è composto da contenuti, roba che viene scaricata, effetti speciali eccetera. Ma il gameplay di base, le meccaniche centrali, probabilmente, è qualcosa come 100 o 200 MB. Penso che troveranno una soluzione di compromesso, non so come, ma credo che sia la direzione da seguire perché questa cosa possa funzionare. Parte del gioco verrà eseguita sul tuo dispositivo. E se pensi a Chromecast, quell'oggetto fa girare in locale l'app di Netflix e una serie di altre app. Per fare quello che sto dicendo basterebbe un dispositivo lievemente più potente, e se pensi a cosa gira su un telefono oggi... Quindi basta un telefono o un dispositivo che possa far girare bene la logica di gioco e poi la grafica, il networking, tutta la roba che richiede effettivamente potenza la lasci sul server. Secondo me andremo in quella direzione".
Con la tecnologia attuale, secondo Ismail, lo streaming funziona molto bene su giochi dal ritmo contenuto, avventure, RPG, strategici, "Ma deve funzionare bene con Destiny, e non mi sento di dire che mi sia capitato di giocare davvero bene a Destiny in streaming, se non sulla mia rete locale, che però non è il punto. Il punto è fare in modo che, se sono in viaggio e provo a giocare nella mia camera d'albergo, funzioni. Poi, certo, c'è anche il problema che la connessione in albergo non è abbastanza rapida".
E riguardo alla possibilità di comprare un singolo pezzo d'hardware e avere accesso a tutto grazie allo streaming, invece di dover comprare quattro macchine diverse, "il problema è che dovrebbe produrlo un'azienda con cui vogliono lavorare tutti. Inoltre, tutti hanno capito che i soldi veri li fai ponendoti come intermediario, lo si è visto con le innumerevoli piattaforme di streaming che sono nate per film e serie TV. Quindi, insomma, funzionerà su un singolo pezzo d'hardware, ma tutti vogliono che sia il loro pezzo d'hardware. Quello che penso potrebbe accadere, e Microsoft è chiaramente in vantaggio su questo fronte, è che saranno Microsoft e Nintendo. Se ci sono due aziende che potrebbero lavorare assieme per far accadere questa cosa, sono loro".
Superare le barriere linguistiche per unire il mondo degli sviluppatori
Ismail, come detto in apertura, è molto impegnato sul "dietro le quinte", sul lavorare per migliorare le condizioni nella comunità degli sviluppatori indipendenti. Nella primavera del 2020, organizzò Game.Dev World, una conferenza online rivelatasi estremamente attuale, considerando che proprio in quel periodo tutti gli eventi live furono costretti a chiudere i battenti. Com'è andata? "Molto bene," ci dice. "Era un evento online, in otto lingue diverse, con traduzione simultanea. E il nostro obiettivo era di fare in modo che tutti fossero in grado di ascoltare non solo chi parlava in inglese. La maggior parte della gente parla la propria lingua, magari l'inglese, i più fortunati un'altra lingua, o altre due. Ma per noi era importante permettere di ascoltare gente che parlava in arabo, cinese, giapponese, francese, spagnolo, portoghese, russo... Un monte enorme di conoscenze a cui puoi accedere solo se capisci la lingua".
Quello dello spostare almeno parzialmente il circo delle conferenze sulle piattaforme online era un tema importante anche prima che il Covid-19 lo rendesse di attualità estrema e sembrava un qualcosa di inevitabile. Ma l'esserci ritrovati forzatamente chiusi in casa per lungo tempo ha cambiato un po' la prospettiva: "Tutte le conferenze si sono manifestate online e mi sono reso conto che averle tutte in quella forma, startene sempre lì al computer a seguirle, è davvero stancante. Anche perché il bello di andare a una conferenza è che vai lì, magari ascolti un talk, poi decidi di farti un giro fuori, ti fai una chiacchierata con un po' di gente, poi magari vai un attimo in stanza a ricaricare le batterie (metaforiche e letterali). E poi magari vai a seguire un altro talk. Con una conferenza online, c'è solo lo startene lì a guardare gente che parla".
Senza contare che se vai fisicamente in un posto, metti in pausa la tua vita per seguire quell'evento, ma se devi seguirlo ritagliandoti il tempo mentre sei a casa, coi tuoi impegni, le ore di lavoro regolare ecc... diventa più complicato. E in generale è proprio bello essere tornati a vedersi di persona dopo quel periodo di chiusura forzata. Però, aggiunge Ismail, "penso che le conferenze online inizieranno ad avere un valore significativo, perché comunque è indubbio che siano estremamente accessibili. E infatti mi preoccupa la possibilità che col ritorno alla normalità post-COVID, un sacco di organizzazioni che stavano facendo un gran lavoro per l'accessibilità finiscano per abbandonarlo e tornare agli eventi solo in presenza. Penso che il modello ibrido sia ormai fondamentale".
Rimane la barriera del linguaggio, un tema a cui Ismail tiene particolarmente: "Il problema più grosso sta nel fatto che l'industria del videogioco è centralizzata. Ci piace far finta che non lo sia, ma è sostanzialmente un'industria statunitense, con delle derivazioni in Europa, e poi c'è una specie di industria separata in Giappone. E c'è il mercato cinese, che è isolato e fa storia a parte. Ma in generale, il settore è spalmato sulle superpotenze globali e questo significa che ci sono poche alternative, ma anche che non serve crearne, perché tutti sono costretti ad adattarsi a come si fanno le cose". L'evento GameDev.World è nato partendo dall'idea che esistano molti modi diversi di fare le cose e sia sbagliato pensare che ce ne sia solo uno giusto, perché quello giusto viene dettato dal contesto.
"Il modo in cui qualcuno sviluppa un gioco a San Francisco non è lo stesso in cui viene fatto a Dubrovnik, Il Cairo, in India. Comprenderci a vicenda è forse la cosa più potente che possiamo fare come umani ma le lingue ce lo impediscono". L'utilizzo dell'inglese come lingua franca è da un lato ovviamente utile, perché viene studiata più o meno dappertutto, ma significa anche che se non la conosci sei completamente tagliato fuori. Senza contare che, aggiunge Ismail, ci sono inglesi "diversi", e la cultura, i manierismi e talvolta perfino le singole parole di quello britannico, per esempio, possono creare confusione se rapportate all'inglese statunitense. "Se siamo tutti obbligati ad essere fatti allo stesso modo, la quantità di cose che possiamo inventare ne esce limitata. È senza dubbio un problema di creatività: la globalizzazione è la morte della creatività. Quindi credo fermamente nel lasciare le cose nella loro lingua. Mi piace proprio. Mi piace l'idea che uno possa fare lo sviluppatore di videogiochi nel mondo arabo, crearli per il pubblico arabo e disinteressarsi completamente di come funzionino le cose negli Stati Uniti. Mi piace davvero! Quello che non mi piace è l'assenza di una via di comunicazione diretta fra le persone tramite cui imparare. Mi va ovviamente bene quando si tratta di una scelta personale, dello sviluppatore o dello studio, ma al momento non è una scelta, devi partecipare alla cultura statunitense, devi sapere come vanno le cose lì, perché è ciò che definisce cosa è o non è appropriato, accettabile. Le cose che si possono dire e quelle che non si possono dire. Ciò che è popolare o scomodo, generi che hanno successo e generi che non lo hanno. Ti garantisco che in questo momento i generi che vanno per la maggiore negli Stati Uniti non sono gli stessi che hanno successo in Egitto o in Cina. Ma tutti devono comunque guardare in quella direzione. E non mi piace. Quindi, penso sia positivo avere dei muri, ma ci servono modi accessibili, alla portata di tutti, per scalare quei muri".
Va pure detto che in molti paesi la situazione è ancora talmente arretrata che non si arriva nemmeno al punto in cui ci si deve confrontare con gli standard del settore stabiliti dagli USA. "La prima sfida che molti affrontano nei mercati minori è costituita dai genitori, dal voler dimostrare che si tratta di un vero lavoro". Tipicamente questa cosa cambia quando un videogioco ottiene un successo enorme, diventa una storia di cui si parla nei giornali e la gente comune capisce che è un modo concreto di fare soldi. Viene in mente l'esempio della Finlandia, che è diventata un territorio importante nel campo dei videogiochi dopo il successo smodato di Angry Birds. Tra l'altro, a proposito di mercati minori, Ismail ha per qualche tempo lavorato sull'evento #1reasontobe, che nel contesto della Game Developers Conference dava spazio agli sviluppatori marginalizzati per raccontare le loro storie. "#1reasontobe aveva un valore enorme. Lo spiego per chi non lo sapesse o ricordasse: era una tavola rotonda, molto, molto importante, originariamente incentrata sulla parità di genere, a causa di un hashtag diventato virale su Twitter. Tramite l'hashtag, le donne del settore parlavano apertamente di molestie e abusi ricevuti, era straziante. E fu una cosa molto potente. Credo abba anche anticipato il movimento MeToo, probabilmente ha fatto perfino parte del crescendo che l'ha fatto nascere. Da lì è nata la tavola rotonda alla GDC e poi si è deciso di traslare quell'opportunità dalla parità di genere ad altri argomenti". Qualche tempo fa, però, "è arrivata una mail dalla GDC per dire che l'evento sarebbe stato annullato. Va tutto bene. A posto. La diversità non è più un problema. È stata mandata una lunga serie di email cariche di rabbia, non è servito a molto, ne invieremo altre... È stata una conclusione brutta e triste per una cosa molto potente".
Cosa significa essere indie?
A proposito di piccoli sviluppatori, un tema di cui negli ultimi anni si discute abbastanza è la definizione di indie. Ismail ha detto su Twitter di non essere troppo interessato a una definizione esatta e di farne più che altro una questione di di sensazioni che trasmette ("vibe" è il termine che ha usato). C'è chi però è molto radicale sul tema e sostiene che se lavori con un publisher non dovresti essere definito indie. Ed è un concetto che va al di là della semantica: alcuni pensano che se definisci indie Stray, un gioco che ha un publisher e soprattutto ha alle spalle la spinta comunicativa di quel publisher, fai un disservizio ai "veri" giochi indie, perché levi loro spazio per esempio sulle riviste. Ismail capisce il senso dell'osservazione ma non è troppo d'accordo: "Non è che se decidiamo che uno Stray non è indie, allora lo spazio che ha occupato va per forza a dei giochi indie. Significa semplicemente che quello spazio svanisce. Di solito va così. Detto questo, personalmente, non considero Stray un indie, direi che è un AA. Che è una bella cosa, eh. Doppia A è una 'fascia' fantastica. Ma in generale un gioco indie non ha quel livello di rifinitura e tende a focalizzarsi su una singola cosa che fa molto, molto bene. Non facciamo tutto bene, mentre Stray fa un po' tutto bene e questo, in un certo senso, gli fa perdere proprio quel sapore da indie. È un AA. Che va benissimo! Stackland, invece, è un gioco di carte sviluppato da tre ragazzi che si sono finanziati su Patreon. Quello è un indie. L'altro giorno ho provato un altro gioco di cui non mi ricordo il nome, era molto rifinito, bellissimo da vedere, come gioco era però solo OK. Quello è un indie. Ma se qualcuno ha i fondi per fare tutto bene, ha un publisher e ha una grossa spinta di marketing, sì, sono d'accordo, è una cosa diversa".
Alla fine, la "vibe" di cui parla Ismail non riguarda tanto il gioco quanto le persone che lo sviluppano, il modo in cui interagiscono con la community, con gli altri sviluppatori, se vogliono far parte di un sistema basato sulla condivisione delle conoscenze, sull'accesso, sul parlare di come fanno le cose. "Non conosciamo il budget di Stray," aggiunge, "ma generalmente si conosce il budget di un gioco indie. Insomma, è quel feeling di "siamo tutti sulla stessa barca e navighiamo assieme". Per me questo è essere indie. È una definizione precisa? Non mi interessa".
Alla fine, aggiunge, le parole non sono reali. Sono dei costrutti che indicano qualcosa, su cui ci mettiamo temporaneamente d'accordo. La parola acqua evoca sensazioni diverse in base al contesto, se la pronunci nella comodità di casa tua o dopo aver passato tre giorni nel deserto. L'ambiguità, dice, è il bello delle parole. "Quando ti incastri sul discutere della definizione del termine indie, finisci per perdere di vista il motivo per cui esiste quella parola. La parola esiste perché serve per categorizzare una certa cosa in un certo contesto. E quando il contesto cambia, deve cambiare anche la parola. Inizialmente, nella scena degli sviluppatori indipendenti, abbiamo anche provato a farlo, a usare 'indie' per lo spirito e 'indipendente' per l'assenza di publisher. Ma non siamo riusciti a fare funzionare la cosa".
Oggi il termine indie vuol dire tutto e niente, perché è un termine ottimo per il marketing, e anche i grossi publisher hanno le loro etichette indie. La cosa veramente positiva, però, è che nel corso degli ultimi dieci anni è un po' scomparsa la necessità di avere una separazione fra gli indie e tutto il resto. Lo si vede anche nella quantità di premi che a fine anno vengono assegnati ai giochi indipendenti. "All'epoca, la gente vedeva, che ne so, Passage, di Jason Rohrer, e diceva che non era un gioco perché durava cinque minuti e non aveva le regole classiche di un videogioco, dovevi muoverti e basta. Ci stava, se ne poteva parlare. Ma oggi la categoria indie sta sparendo perché abbiamo accettato culturalmente che i videogiochi indie sono videogiochi. E insomma, a posto così".
Una finestra aperta sullo sviluppo di videogiochi
Se il pubblico ha preso maggiore consapevolezza sulla "biodiversità" nel mondo dei videogiochi, c'è ancora da crescere sul capire come funzionino le cose dietro le quinte, che aspetto abbia un gioco in sviluppo, quali problematiche e tematiche siano importanti in questo senso. Per ogni esempio positivo, tipo Electronic Arts che mostra il prototipo del nuovo Skate in un trailer di qualche anno fa, ci sono casi come le polemiche infinite seguite al leak di Grand Theft Auto VI. E in quest'ambito, secondo Ismail, deve migliorare anche il modo in cui queste cose vengono mostrate e comunicate. "Il problema è che ci sono diverse forze in azione su questo aspetto, una delle quali è la cultura dell'accesso anticipato. Poi ci sono le campagne marketing, che spesso sono un darsi la zappa sui piedi, su questo fronte, perché vogliamo sempre mostrare i nostri giochi come perfetti su tutti i fronti. Ai tempi, con Vlambeer, facevamo delle sessioni di sviluppo in diretta su Twitch, così la gente poteva vedere come si fanno effettivamente i giochi. Penso che col passare del tempo, quell'idea di mostrare le cose 'in progress' stia diventando un po' più accettata, anche perché gli sviluppatori ne hanno bisogno per i giochi online. Per quel tipo di gioco, è molto utile avere un feedback dalla community. Il rovescio della medaglia che non ci si aspettava è che ora i giocatori pensano di avere potere decisionale sullo sviluppo del gioco, e non è così. E quindi abbiamo questa situazione strana in cui gli sviluppatori sono più aperti ma il pubblico è più esigente e le pretese spesso non sono particolarmente utili. Quando bilanci un gioco multiplayer, un Overwatch... Sai da cosa capisci che il gioco è equilibrato e tutti possono scegliere il loro eroe preferito? Dal fatto che ogni singolo personaggio riceve lo stesso numero di lamentele riguardo al fatto che è op. Se ogni singolo personaggio è 'troppo potente', il gioco è bilanciato bene. Se nessuno si lamenta dei campioni, hai creato un gioco noioso. Se la gente si lamenta che un personaggio è troppo debole o un personaggio in particolare è troppo potente, chiaramente son cose da verificare, ma in linea generale, se ci si lamenta allo stesso modo per ogni personaggio, le cose vanno bene".
Il problema, aggiunge Ismail, è che spesso questo tipo di feedback lo ricevi da gente che ti urla addosso, e le persone si sentono in diritto di essere sempre più aggressive perché hanno investito tempo, e magari anche denaro, nel gioco. C'è insomma ancora da capire come gestire un sacco di cose che non erano necessariamente previste o prevedibili, ma in generale si tratta di una strada positiva da seguire. "Penso che l'abitudine di parlare dei propri giochi quando sono ancora in sviluppo rimarrà, ed è una cosa di cui sono molto contento. Ma ci vorranno ancora dai cinque ai dieci anni perché la gente si adatti davvero. Fa parte del gioco".
Ritorno allo sviluppo
Tra l'altro, quando ci siamo incontrati, Ismail era anche impegnato, per la prima volta da anni, a fare il giro dei publisher per proporre un suo nuovo gioco. "Non avevo completamente smesso di fare cose del genere perché ho sempre fatto lavoro da consulente e sono stato coinvolto in molti pitch andati a buon fine e altrettanti andati male. Ma è la prima volta da un bel po' di tempo che si tratta effettivamente di un mio progetto. Ed è divertente, è una cosa diversa. Ho fatto parte di Vlambeer per dieci anni e quel periodo si è concluso. È stato un periodo bellissimo, io e Jan avevamo creato quello studio nella speranza di creare un gioco dopo aver abbandonato gli studi e riscuotere un po' di successo. Abbiamo collaborato per dieci anni e poi abbiamo deciso che erano sufficienti. Ci siamo lasciati di comune accordo, senza litigare, senza problemi, siamo amici. Abbiamo dimostrato quello che avevamo da dimostrare. E adesso ho un altro obiettivo. Non voglio lavorare su cose che non hanno niente da dire. Ora ho un'idea nuova che voglio portare avanti e con cui voglio dimostrare qualcosa. È bello ed è divertente".