"Anche soltanto cambiando il direttore di un videogioco, esso in larga parte muterà"; così diceva Miyamoto in un'intervista nel 1998. Il direttore di un videogame è associabile al regista di un film, è l'uomo che tiene assieme la visione creativa del progetto, che lo conduce sulle tumultuose onde dello sviluppo, dando ordini per orientare la nave verso il porto anelato.
L'immagine di Shigeru Miyamoto propone un ossimoro: praticamente sconosciuto in Giappone, dove viene nascosto agli occhi del pubblico, quasi santificato in Occidente, area in cui, per tanti anni, i titoli Nintendo e i "giochi di Miyamoto" sono stati praticamente la stessa cosa. Non solo l'azienda giapponese favoriva quest'attitudine, ponendolo sulla ribalta per ogni produzione, ma la stampa seguiva ossequiosa: solo recentemente, allontanandosi sempre di più dallo sviluppo, molti giornalisti hanno accettato il fatto che, per quanto sia importante Miyamoto, Miyamoto non corrisponde necessariamente a Nintendo. Non del tutto.
Con questo articolo proveremo a riepilogare la leggendaria carriera da direttore di Shigeru Miyamoto, non prima di aver chiarito alcuni concetti cardine della sua filosofia di sviluppo.
La filosofia di design
Shigeru Miyamoto è nato a Sonobe nel 1952 e ha studiato design industriale presso un'università pubblica di Kanazawa. Per contatti personali del padre, una volta terminati gli studi, ottiene un colloquio presso il presidente Nintendo, Hiroshi Yamauchi: lo impressiona coi suoi giocattoli e la sua abilità grafica e viene assunto dalla società come designer e disegnatore.
Orgogliosamente mancino, Miyamoto avrebbe esportato questa caratteristica a Link, il protagonista di The Legend of Zelda, una serie nata ispirandosi sulle sue infantili peregrinazioni nei boschi di Sonobe. Ci sarebbe questa leggendaria caverna, che Miyamoto avrebbe esplorato, andando sempre più in profondità, nel corso di un'intera estate. "Zelda ha una storia epica e tutto, ma per me tutto gira intorno all'escursione". Ecco la prima caratteristica chiave di Miyamoto, che lo mette in identitaria opposizione a Masahiro Sakurai: non che avesse scelta, ma lui ha creato videogiochi senza ispirarsi ai videogiochi. Miyamoto ha portato nelle sue creazioni le sue esperienze di vita reali. Non solo con The Legend of Zelda; in Star Fox si passa sotto delle strutture che ricordano l'architettura shintoista. In Pikmin si guidano dei piccoli esseri, ispirati dai movimenti degli insetti nel suo giardino.
Il secondo principio cardine di Miyamoto deriva direttamente dal suo maestro, Gunpei Yokoi, sotto il quale ha lavorato - per anni - prima di essere promosso, prima di avere il suo team personale (R&D 4, poi EAD). "Se sai disegnare, sai anche creare videogiochi". Difficile dimostrare la veridicità di quest'asserzione, ma Nintendo ci ha provato in ogni modo possibile: la quasi totalità dei suoi direttori di progetto vanta un curriculum artistico, non uno informatico. Non è una caratterista secondaria, bensì fondante dell'azienda. E se adesso può apparire banale avere un creativo a capo di un progetto, all'epoca non lo era; per Miyamoto questa distinzione era fondamentale. "In passato (dichiarava nei primi anni '80) era possibile per un programmatore realizzare da solo un videogioco. Adesso l'intervento di altri membri, come musicisti o disegnatori, è inevitabile". Miyamoto è un disegnatore, da piccolo voleva diventare un mangaka, è una persona attenta alle sensazioni che generano le sue opere: un artista, in breve. E all'interno di Nintendo è stato il primo di una lunga serie ad essere messo a capo di una schiera di programmatori; lo ribadiamo, per volontà di Gunpei Yokoi.
Terza caratterista chiave, l'accessibilità e la mimesi. Non importa quanto un gioco diventerà complesso, il suo nucleo dev'essere limpido: è inutile erigere una struttura gigantesca su una base poco chiara. Prendete l'inizio di Super Mario Bros.: il protagonista parte da sinistra, così che sia palese la necessità di proseguire verso destra. Se non si salta, il personaggio muore dopo una manciata di secondi, impattando un goomba. Saltando, è facile che si trovi un fungo, introiettando il concetto di power-up. Se Super Mario Bros. significa andare da sinistra verso destra, Donkey Kong (l'arcade) implica scalare dal basso all'alto. The Legend of Zelda esplorare ovunque si voglia. Quest'accessibilità dev'essere accompagnata dalla mimesi, dall'azione sul presente visivamente ricostruito. "Non mi piacciono i giochi con statistiche e livelli". Qualcuno lo chiamerebbe, semplificando, arcade. La realtà è che questa caratteristica per Miyamoto è un'esigenza estetica. E deve essere accompagnata, per eccellere e deflagrare, da un ottimo sistema di controllo.
Quarto punto, l'immersività. Molto spesso il maestro di Sonobe viene criticato perché convinto che i videogiochi non abbiano bisogno di una storia. Si sono consumati litri di inchiostro (digitale e non, è una vecchia diatriba) per commentare questa frase, che in questa sede ci interessa poco elaborare; il punto cardine, in questo momento, è che la storia non equivale minimamente alla narrazione. Per Miyamoto la narrazione è fondamentale. Lui la chiama, appunto, immersività. Nei suoi videogiochi si racconta principalmente attraverso la narrazione tattile. A un seminario con degli aspiranti creatori di videogiochi, corresse il progetto di uno studente, incentrato su un vampiro che succhiava il sangue di una vergine, non tanto condannando (come qualcuno potrebbe pensare) il tema del "gioco", ma suggerendo che, al momento del morso, sarebbe stato più efficace far premere ripetutamente un pulsante all'utente, così da enfatizzare la sensazione del momento. Non serviva a niente; il morso sarebbe andato ugualmente a buon fine. Questa è esattamente la narrazione di Miyamoto, che ritroviamo in ognuno dei suoi giochi. Avete presente la necessità di dover "premere" i pulsanti dell'ocarina in The Legend of Zelda: Ocarina of Time, così da suonare il pezzo desiderato? Ecco, non fosse interessato alla narrazione, avrebbe semplicemente presentato un menu da cui selezionare il pezzo; invece Miyamoto ve lo fa suonare. L'altro metodo con cui persegue l'immersività è la grafica, che non ha mai dovuto essere realistica; Super Mario Bros. è stato sin da subito un personaggio grande e colorato che correva sotto un cielo azzurro (all'epoca erano principalmente neri). Non casualmente, si chiamano video-giochi. Non romanzo-giochi, non storia-giochi, non video-storie. Potremmo dire che Miyamoto sia stato molto fedele alla definizione.
Il quinto e ultimo mantra riguarda il divertimento, che Miyamoto ha sempre messo al primo posto, indipendentemente dalla natura del titolo sviluppato; un principio che lo ha consacrato nell'industria, ma che forse lo ha limitato come artista.
Da Donkey Kong a Super Mario Bros.
Miyamoto inizia lavorando come artista - inteso come disegnatore - su Sheriff e Space Firebird. Soltanto due anni dopo la sua assunzione, arriva la prima grande opportunità; Nintendo è costretta a ritirare varie unità dell'arcade Radar Scope, e Yokoi, assieme a Yamauchi, decide di assegnare a Miyamoto il compito di creare un nuovo gioco per rimpiazzarlo e limitare le perdite economiche. Shigeru, all'epoca ventinovenne, crea un concept per utilizzare il brand Popeye (Braccio di Ferro), di cui ai tempi Nintendo deteneva i diritti. Un eroe, un cattivo e una donzella da salvare. Nel frattempo la licenza scade, l'idea resta, e Miyamoto condisce il tutto col proprio immaginario: ispirandosi a La Bella e la Bestia e King Kong, crea un gioco arcade in cui l'obbiettivo sia, partendo dal basso, arrivare alla sommità dello schermo. La visuale è laterale e il salto, pur semplice, è al centro della scalata; si tratta di un'opera molto diversa da quelle più comunemente diffuse in sala giochi, tra cloni di Pac-Man e shooter. Quel gioco, pubblicato nel 1981, è naturalmente Donkey Kong: Miyamoto fa centro al primo colpo. Non crea soltanto un'opera deliziosa ma, come diventerà un suo tratto distintivo, origina un "universo" da sfruttare in futuro: il protagonista, il carpentiere Jumpman, successivamente noto come Mario, è subordinato all'antagonista. Donkey Kong, appunto.
Nel 1982 inizia un periodo di grande attività, che confluisce in Donkey Kong Jr., il seguito di Donkey Kong, in cui si prende il controllo del figlio del gorilla: lo scopo è sempre arrivare in alto, ma stavolta arrampicarsi - e non saltare - rappresenta l'attività principale. Non è un capolavoro come il predecessore, ma mette in evidenza una tendenza tipica di Miyamoto: i suoi sequel non sono quasi mai delle semplici aggiunte contenutistiche ma, anche rischiando di tradire lo spirito originale, propongono un'impostazione diversa, qualcosa di innovativo. Nello stesso anno esce Popeye. Nel 1983, e qui la tendenza a cambiare si palesa in eccesso, Miyamoto crea Donkey Kong 3: si controlla Stanley, e l'obbiettivo è sparare verso l'alto, comunque controllando il personaggio. Nello stesso anno arriva Mario Bros., in cui il "protagonista" del primo Donkey Kong, con uno spin-off - dirlo ora fa sorridere - origina la propria serie. Si tratta di un arcade a schermata fissa, sviluppato sotto la supervisione di Yokoi e, al solito, creato sotto l'egida R&D1. Al di là dei fatti storici - Mario ottiene il proprio nome e diventa un idraulico, con annesse tubature, fogne e tartarughe che le abitano - il controllo del personaggio è evoluto rispetto a Donkey Kong, più dinamico; il salto resta centrale e viene introdotto un abbozzo di sistema inerziale.
Il 1984 non è l'anno della svolta - posto che si debba svoltare dopo aver creato Donkey Kong - ma è il periodo che ne genera i presupposti. Mentre John McEnroe (pure lui mancino) mette in scena una delle più grandi stagioni tennistiche della storia, Shigeru firma ben cinque giochi a suo nome. Tre di questi usano la Zapper, pistola per il neonato Famicom: Hogan's Alley, Wild Gunman e il fortunatissimo Duck Hunt, in cui bisogna sparare (nella modalità principale) a delle anatre, col maledetto cane sghignazzante in caso di fallimento (una delle tante attenzioni narrative di Miyamoto).
Al di là delle notevoli qualità effettive di Duck Hunt, si tratta di un gioco importante anche perché tra i primi sviluppati da R&D4, quella che diventerà la divisione di Miyamoto, ormai abbastanza stimato all'interno dell'azienda per staccarsi da R&D1 e Yokoi (che considererà sempre il suo mentore). Gli altri due giochi del 1984 sono Devil World, ispirato a Pac-Man, ed Excitebike, un bellissimo titolo con moto da cross. Queste creazioni sono fondamentali per la carriera da Miyamoto; non tanto per le qualità intrinseche, piuttosto perché in Devil World collabora con Takashi Tezuka, che diverrà il suo braccio destro, e in Excitebike con Nakago, un programmatore eccezionale, titolare di SRD (soltanto quest'anno, nel 2022, acquistata da Nintendo... pur essendo in "famiglia" dagli anni '80, appunto). In futuro, questo trio sarà noto come il "triangolo d'oro" Nintendo, quello che più di ogni altro scolpirà l'estetica della società, che in altri ambiti definiremmo "manifesto artistico". Se nei giochi di Miyamoto si trova la sua anima, Nakago gli presta i muscoli per muoversi: la sua abilità di programmatore permette finalmente a Shigeru di definire la sua cifra stilistica, di creare una qualità interattiva all'altezza delle proprie aspettative. Due dettagli non secondari: con Devil World Miyamoto capisce l'importanza di avere un personaggio grande all'interno della schermata, con Excitebike comprende le meraviglie dello scrolling laterale.
Nel 1985, per essere esaustivi, Miyamoto cura la versione NES di Kung Fu. Ma, come scrivevamo poc'anzi, è soprattutto l'anno in cui tutti i pezzi confluiscono al loro posto: R&D4, appena prima di passare al Disk System, esibisce il proprio talento. Al nuovo progetto collaborano assieme Nakago, Miyamoto e Tezuka (e un certo Koji Kondo, compositore): c'è un grande personaggio (come in Devil World) e lo scrolling laterale (come in Excitebike). Nasce Super Mario Bros., e come nel caso di Donkey Kong, ma in modo ancora più roboante, origina un nuovo universo, il Regno dei Funghi. Un mondo popolato e composto da funghi viventi, funghi che fanno diventare grandi (come in Alice nel Paese delle Meraviglie), da tubature che conducono a mondi sotterranei, da pesci volanti, da una Principessa da salvare e da un tartadrago (passateci il termine) che la rapisce: Koopa, da noi noto come Bowser. Il sistema di controllo supera tutto ciò che si era visto in precedenza, anche grazie a un primitivo "motore fisico" (espressione sbagliata, speriamo sia chiaro il senso) con corsa, inerzia e gravità; la libertà d'azione è eccelsa, il level design sostanzialmente perfetto. Donkey Kong è considerabile un capolavoro, ma Super Mario Bros. è ancora superiore: segna un prima e un dopo nella storia dei videogiochi.
Da The Legend of Zelda a Ocarina of Time
Da Super Mario Bros. in poi l'ascesa di Miyamoto è inarrestabile. E ascesa, in Nintendo (ma in generale in Giappone), significa scalare posizioni professionali; questo, purtroppo, implica anche abbandonare il ruolo di direttore. Un grande direttore, in Nintendo, finisce sempre per divenire produttore di progetto; a volte con esiti positivi, altre volte con esiti negativi (si veda Takashi Tezuka, molto più abile nel primo ruolo che nel secondo). Delle attività di Miyamoto in questa veste parleremo in un altro articolo, quello che in questo pezzo è importante sottolineare risiede nel progressivo allontanamento di Shigeru dal "contatto ravvicinato" coi suoi giochi, per divenire responsabile generale di tutta la divisione EAD.
Nel 1986 esce il prevedibile seguito di Super Mario Bros., Super Mario Bros. 2, da noi noto come Super Mario Bros.: The Lost Levels. In epoca attuale sarebbe stato un DLC: stesso engine, nuovi contenuti. È l'eccezione che conferma la regola per quanto riguarda i seguiti diretti da Miyamoto, che guida il progetto assieme a Tezuka. Nello stesso anno - il 21 febbraio - arriva il terzo capolavoro del maestro nipponico, non importante quanto Super Mario Bros., ma quasi: ritorna tutto il team, quindi Nakago, Tezuka (come assistente, non come parigrado) e Kondo. Inizia la storia di The Legend of Zelda, che miscela l'azione arcade coi giochi di ruolo per PC, donando un'enorme libertà d'azione, consentendo all'utente di perdersi (quasi impossibile completare il tutto senza consultare la mappa, inserita all'interno della confezione), e proponendo un'avventura che, a differenza delle coeve, non altera mai le proporzioni del mondo di gioco per comunicare meglio l'idea di viaggio. Il rapporto dimensionale tra Link - il protagonista - e Hyrule - la terra da scoprire - è fisso, continuo, che si esplori una caverna, un dungeon o una prateria. Anche in questo caso, è nato un nuovo universo da approfondire con dei successori.
L'ultima opera diretta da Miyamoto, prima di una pausa quasi decennale, è Super Mario Bros. 3: un platform eccezionale, che resta fedele all'anima del capostipite ampliandolo in ogni modo possibile: mappa di gioco, power-up (utilizzabili a discrezione del giocatore), capacità di tornare indietro nello stage, abilità di volare in alto (verticalità del livello, quindi). Si tratta di un capolavoro, uno dei migliori platform bidimensionali mai realizzati, ed è incredibile pensare che il NES abbia iniziato con Donkey Kong e abbia finito con questo: sembrano appartenere a due console differenti.
Probabilmente la carriera da direttore di Miyamoto si sarebbe conclusa qui, non fosse esistito il balzo tridimensionale. Semplicemente, in quel momento, sente la necessità di tornare in cabina di regia. Da Super Mario Bros. 3 sono passati otto anni, e su SNES non ha diretto alcun gioco: nel 1996 esce il suo ultimo capolavoro ufficiale, Super Mario 64. Al suo fianco torna Tezuka, e soprattutto giunge un nuovo pupillo, Yoshiaki Koizumi (anche lui con un background artistico, come da tradizione), con cui plasma i movimenti e la fisicità del primo Super Mario tridimensionale. L'influenza di quest'opera è enorme: c'è un pezzetto di Super Mario 64 in ogni gioco attuale. Il sistema di controllo è perfetto, la libertà di movimento sorprendente. Abbiamo scritto che è il suo ultimo capolavoro ufficiale perché in The Legend of Zelda: Ocarina of Time, stando ai crediti, è "semplicemente" produttore del progetto.
La verità, leggendo le interviste dell'epoca, è che l'opera richiede talmente tanto personale, e investimenti, da passeggiare su territori inesplorati: così vengono individuati cinque direttori specializzati, più un produttore che, di fatto, è effettivo direttore di progetto. Semplicemente il tutto - rispetto al solito - era così grande che, per forza di cose, aveva richiesto un cambio di prospettiva del ruolo stesso di direttore: meno specifico, più "registico". Con Ocarina of Time vengono poste le basi degli action game tridimensionali e, ad eccezione del mondo di gioco (l'Hyrule Field), è tuttora un'opera incredibile, l'unica ad aver mai ottenuto 99 su Metacritic. Dobbiamo citare, anche perché resterà nella storia come "ultimo gioco di Miyamoto" (probabilmente), l'ultima volta in cui il suo nome è stato associato a quello di direttore (Supervising Director per la precisione, una via di mezzo tra direttore e produttore, che indica comunque una pesante influenza sul gioco): sono passati diciotto anni da Ocarina of Time, e il maestro torna in pista collaborando con Platinum Games. Star Fox Zero tenta di sfruttare al massimo il GamePad di Wii U, ma il risultato è mediocre.
Bene, eccoci alla fine. I giochi di Miyamoto sono questi: ha collaborato a centinaia di progetti, con ruoli diversi e varie modalità di coinvolgimento, ma quelli cuciti a mano da lui li abbiamo appena descritti. Nella sua vita ha realizzato sei capolavori, quattro bidimensionali e due tridimensionali, che hanno plasmato e influenzato - per sempre - l'intera industria dei videogiochi. Donkey Kong (1981), Super Mario Bros. (1985), The Legend of Zelda (1986), Super Mario Bros. 3 (1988), Super Mario 64 (1996) e The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998). Forse di nessun altro si può scrivere altrettanto.