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Il pubblico ha fame di videogiochi complessi

Nell'ultimo periodo i classici videogiochi per pochi, quelli più complessi e profondi, stanno vendendo decine di milioni di copie: la nicchia non è più una nicchia?

SPECIALE di Lorenzo Mancosu   —   09/08/2023
Il pubblico ha fame di videogiochi complessi

"È un videogioco destinato a una nicchia". "Gli sviluppatori hanno scelto di semplificarlo per raggiungere una fetta di pubblico più grande". "Si tratta di un'esperienza pensata esclusivamente per i giocatori hardcore". Frasi del genere, in epoca recente, hanno spopolato in fase di descrizione e analisi di dozzine di titoli differenti: era più che sufficiente sfogliare qualsiasi discussione per imbattersi in commenti e osservazioni di questo tenore; è capitato attorno ai lavori di Larian Studios, magari nei confini della serie Monster Hunter di Capcom, oppure nell'orbita di quello che ha rappresentato il padre spirituale della nuova corrente, ovvero Dark Souls di FromSoftware. Ma sono frasi che, nel corso degli ultimi anni, sembrano aver perso qualsiasi significato.

C'è stato un momento, nella storia dei videogiochi, nel quale il medium ha conosciuto un'enorme inflazione numerica, radunando sulle sue sponde decine di milioni di persone che, a giudicare dai dati di vendita, fino ad allora non erano affatto interessate a tale mondo. Un periodo che è coinciso con la settima generazione di console, con l'epoca d'oro di Call of Duty, con il lancio fiammante di Nintendo Wii, con l'emersione delle nuove formule open world capaci di catturare chiunque grazie alla loro magnificenza estetica. Il numero di utenti continuava ad aumentare, convincendo chi sedeva in cabina di regia a recitare un nuovo mantra: il videogioco, per crescere e vendere ulteriormente, dev'essere semplice, accessibile, asciutto.

Per certi versi ebbero ragione, trovarono riscontri nel mercato, mutarono profondamente l'approccio alla produzione di nuovi titoli. Ma adesso il vento è cambiato. I 'videogiochi destinati a una nicchia' superano agilmente i 20 milioni di copie vendute in un singolo anno. Le 'esperienze per il pubblico hardcore' riescono a scavalcare il muro dei 15 milioni. I titoli che scelgono di non semplificarsi e di ancorarsi a generi considerati morti, proprio in questi giorni, stanno infrangendo tutti i record di Steam dopo aver sfiorato il milione di utenti contemporanei.

Nel frattempo, saghe storiche abbandonano i sistemi che le hanno rese celebri nel tentativo di aumentare il bacino d'utenza, andando incontro a numeri delle vendite che calano al di sotto aspettative dei produttori. Cosa sta succedendo? Il pubblico sembra avere una fame smisurata di videogiochi complessi, proprio quelli che sino a questo momento sono stati considerati i più acerrimi nemici del grande successo internazionale.

La complessità, oggi, sta vincendo contro tutti

Baldur's Gate 3 sta infrangendo un record dietro l'altro
Baldur's Gate 3 sta infrangendo un record dietro l'altro

Una volta è una coincidenza, due volte è un colpo di fortuna, alla terza si inizia a intravedere uno schema, alla quarta non ci sono più dubbi: la maggioranza del pubblico dei videogiochi vuole vivere esperienze complesse, e ha iniziato a sorvolare su quelle meno impegnative. Il successo di Baldur's Gate 3 di Larian Studios, che ha superato tanto le aspettative del pubblico quanto quelle degli stessi autori, è emblematico: per anni il genere CRPG è stato accantonato in funzione delle correnti moderne, in ragione della sua intrinseca difficoltà, della mole di opzioni e situazioni distanti dalle esigenze del pubblico di massa; oggi, invece, siede in vetta a qualsiasi metrica e classifica di riferimento. La maggior parte dei videogiochi AAA contemporanei continuano a tremare al solo pensiero di mettere il controllo delle statistiche nelle mani del giocatore, di gettarlo nel cuore di uno scontro in cui le probabilità di vittoria sono minime, di inserire una condizione di fallimento critica. Swen Vincke, invece, ha scelto di 'fidarsi dei giocatori', cavalcando una corrente che già da anni serpeggiava nel medium.

Qualche mese fa, infatti, sviluppatori di Naughty Dog tra cui Neil Druckmann e Vinit Agarwal hanno fatto visita al creatore di Dark Souls - Hidetaka Miyazaki - e hanno voluto condividere ciò che hanno 'imparato' a seguito di una lunga chiacchierata a tema Elden Ring. "La cosa fondamentale che abbiamo portato a casa da quella conversazione è il concetto di 'fidarsi del giocatore', che consente di realizzare un design più soddisfacente per gli sviluppatori e soprattutto per gli utenti", ha dichiarato Agarwal, suggerendo che le prossime opere dello studio sceglieranno di rendere onore a tale massima. Hidetaka Miyazaki, dal canto suo, questo concetto l'aveva già interiorizzato nel 2009, nel momento in cui Demon's Souls ha imboccato una netta deviazione rispetto alle meccaniche che governavano il mercato. Trovandosi improvvisamente libero di fare tutto ciò che voleva, ha scelto di recuperare un'antica ispirazione perduta, piantando il seme che sarebbe sbocciato nella creazione nella saga di Dark Souls.

Elden Ring ha consacrato definitivamente la sete di complessità e profondità
Elden Ring ha consacrato definitivamente la sete di complessità e profondità

E Dark Souls quella rivoluzione l'ha avviata, dimostrando al mondo - ma soprattutto ai potenziali investitori - che c'era una domanda esagerata di titoli più difficili, più criptici, meno volenterosi di tenere per mano il giocatore. La serie di Dark Souls ha venduto complessivamente oltre 35 milioni di copie, e dopo aver intascato il suo primo premio per il Game of the Year grazie a Sekiro: Shadows Die Twice, FromSoftware si è ripetuta con Elden Ring, che oggi viaggia verso i 25 milioni di copie piazzate in poco più di un anno. Il pubblico di massa, nel corso degli anni, si è reso conto che le produzioni di Miyazaki non sono videogiochi d'élite, opere dedicate a pochi eletti, ma esperienze delle quali chiunque può godere, traendo proprio dalla complessità dei sistemi una soddisfazione del tutto aliena alla maggior parte di titoli AAA.

A individuare l'inversione di tendenza prima di molti altri è stata Capcom, che nella sua età dell'oro ha rifatto il look ad alcune IP storiche al fine di presentarle a un pubblico più ampio mantenendo del tutto invariata la profondità che le ha sempre contraddistinte. Il caso più eclatante è quello di Monster Hunter World, che a oggi ha venduto 22,5 milioni di copie. Si tratta di numeri sensazionali, basti pensare che - consultando i dati disponibili - vanno ben oltre i risultati raggiunti da esperienze destinate alla massa come Marvel's Spider Man e Assassin's Creed Valhalla. Dieci anni fa sarebbe stato impensabile anche solo immaginare la presenza di un capitolo della serie in una lista dei top seller, e invece Capcom è riuscita addirittura a segnare una doppietta, sfondando il muro dei 14 milioni di copie distribuite con il recente Monster Hunter Rise. Tra meccaniche di combattimento difficili da padroneggiare e un ostico sistema di build, si tratta della formula più distante in assoluto dalla tradizionale idea - probabilmente datata - di 'videogioco per tutti'.

Monster Hunter World rappresenta una sorta di miracolo contemporaneo
Monster Hunter World rappresenta una sorta di miracolo contemporaneo

A ogni forza ne corrisponde una uguale e contraria, pertanto a questa flessione si è contrapposto l'andamento delle esperienze figlie dei 2000. Final Fantasy 16, per esempio, ha saputo impressionare sotto diversi punti di vista, ma ha messo quasi tutti d'accordo nella critica al livello di sfida, alla scarsa profondità dei sistemi, alla mancanza di guizzi nella costruzione fisica del mondo; una situazione, questa, che ha abbracciato la quasi totalità delle produzioni AAA contemporanee, dai grandi tie-in come Hogwarts Legacy fino agli splendidi panorami di Horizon Forbidden West, passando per l'appena abbozzato sistema GDR di Cyberpunk 2077 per arrivare infine alle meccaniche che regolano Star Wars Jedi: Survivor. Si tratta di ottimi titoli che in certi casi raccolgono risultati straordinari - talvolta al limite dell'incredibile come nel caso di Hogwarts Legacy - ma faticano a convincere una particolare fetta di pubblico che sta crescendo con una velocità allarmante.

I videogiochi destinati alle nicchie non sono più destinati alle nicchie: qualsiasi genere di utente gioca gli Elden Ring e i Baldur's Gate, assaporando meccaniche di gameplay intransigenti, ostiche e criptiche, toccando con mano il livello di profondità che affresca esperienze dalle quali diventa sempre più difficile tornare indietro. La scena indipendente, nel frattempo, ha alzato il sipario su opere aliene come Valheim, Outer Wilds, Undertale, Celeste e Hollow Knight, una pletora di produzioni estremamente distanti da quella che per anni siamo stati abituati a definire l'epitome del successo commerciale, trasformando nei più grandi fra i cult proprio i lavori che nascevano pensati come gemme destinate a pochi appassionati.

La grande semplificazione dei videogiochi

Oggi in molti criticano titoli come Diablo 3, ma all'epoca vendettero oltre ogni aspettativa
Oggi in molti criticano titoli come Diablo 3, ma all'epoca vendettero oltre ogni aspettativa

È accaduto tutto molto rapidamente, nell'arco di una singola generazione. Dove l'esplorazione, l'avventura e la meraviglia regnavano sovrane hanno iniziato ad apparire GPS e puntatori di missione. Dove bisognava seguire le indicazioni degli NPC basandosi sulla geografia sono apparse liste dotate di localizzazione satellitare. Dove un tempo si snodavano dozzine di alterazioni di stato, effetti delle armi, mutazioni e quant'altro, tutto si è ridotto a una barra della salute. E ha funzionato, eccome se ha funzionato. L'accessibilità del design ha accompagnato alla perfezione la marea di pubblico giunta con la settima generazione di console, preparando il terreno per oltre una decade di straordinari successi. Basta rivolgere lo sguardo al destino di alcune storiche saghe: The Elder Scrolls V: Skyrim ha sestuplicato le vendite del suo predecessore Oblivion, allo stesso modo in cui Diablo 3 ha decuplicato quelle del capitolo precedente. Quelle che allora rappresentavano minoranze si sono lamentate delle evidenti semplificazioni, andando a sbattere violentemente contro un coro di voci soddisfatte.

E, attenzione, non c'era nulla di male in tutto questo. Il mondo dei videogiochi ha continuato a sfornare produzioni per tutti i palati, trovando grandi blockbuster nelle opere più semplici e relegando a una nicchia più minuta i titoli più complicati: semplicemente, il mercato si muoveva in tale direzione, convincendo i produttori di opere AAA ad abbracciarla una volta e per sempre. I videogiochi che sceglievano d'intrecciarsi con menù carichi di statistiche, con meccaniche di gioco difficili da apprendere, con sistemi considerati proibitivi per la nuova era, erano costretti a muoversi nell'oscurità. Gli Armored Core, i Divinity: Original Sin, i Prey, i Demon's Souls dovevano accontentarsi delle briciole lasciate dai grandi. Grandi che, nel frattempo, iniziarono ad evolversi nella direzione di formule sempre più accessibili e standardizzate, come le grandi avventure d'azione cinematografica in terza persona, praticamente trasposizioni in scala uno a uno della grande pellicola hollywoodiana. Ora, di fronte alle evidenze del cambiamento, sarà molto interessante osservare come gli antichi portabandiera sceglieranno di muoversi: assisteremo a una nuova corrente come successo in passato o più semplicemente verranno meno gli squilibri fra filosofie creative?

Una rivoluzione non troppo silenziosa

La stessa emersione dei Battle Royale ha rappresentato un fenomeno imprevedibile
La stessa emersione dei Battle Royale ha rappresentato un fenomeno imprevedibile

Possibile che l'inversione di tendenza sia avvenuta nel silenzio? A bene vedere non è così, e per rendersene conto è sufficiente osservare le esperienze più massificate, quelle che di solito sfuggono ad analisi di questo genere. Nel tessuto degli sparatutto, ad esempio, l'emersione del genere Battle Royale è stata una forte testimonianza della fame di un'esperienza complessa e stratificata: l'idea stessa di giocare con una sola vita a disposizione, per svariati anni, è rimasta appannaggio dei soli appassionati di Counter Strike, salvo poi dare il via a una fra le correnti più redditizie del pianeta. Un fenomeno, questo, che si è potuto ravvisare anche nell'evoluzione di League of Legends e dei MOBA in generale, che certamente non sono tra i videogiochi più semplici e immediati in circolazione, ma che - tra centinaia di contenuti volti all'analisi tecnica e una mastodontica scena esport - si sono imposti fra i più giocati e seguiti in assoluto.

Il terremoto mediatico scatenato dal Dark Souls di FromSoftware ha generato una florida corrente di "soulslike", così come dozzine di roguelite hanno iniziato a emergere in seguito all'esplosione di The Binding of Isaac. Generi e ispirazioni dimenticate si sono nuovamente fatte largo fino a raggiungere centro del palcoscenico, portando alla maturazione di piccoli e impensabili fenomeni quali il succitato Valheim o il minuto Dark & Darker. L'esempio più emblematico, tuttavia, risiede probabilmente in Minecraft, che dietro l'apparenza del parco giochi in cubetti Java nasconde una fra le esperienze più profonde della storia dei videogiochi, ed è stata proprio quell'essenza occulta a renderlo il titolo più venduto di tutti i tempi. Una sete di profondità, questa, che si è riversata anche nell'offerta dei titoli più mastodontici: stiamo vivendo una linea temporale nella quale l'ultimo capitolo della saga di Zelda ha compiuto la scelta estremamente coraggiosa di fare affidamento sull'approccio emergente, consentendo a ogni giocatore di affrontare qualsiasi situazione con una libertà aliena persino agli immersive-sim.

Cosa accadrà ora che Elden Ring è il più grande successo di nona generazione e Baldur's Gate 3 ha fatto il suo esordio?
Cosa accadrà ora che Elden Ring è il più grande successo di nona generazione e Baldur's Gate 3 ha fatto il suo esordio?

Cosa rimane più impresso nella mente del videogiocatore? Una missione criptica e oscura come quella assegnata da Ranni la Strega nell'Interregno di Elden Ring, oppure un'attività secondaria ben scritta e scarsamente profonda come i tantissimi compiti di cui è costellato Final Fantast 16? Le esperienze impattanti, quelle che non perdonano, che riescono a trasmettere il senso di scoperta, quello della sfida e soprattutto l'emozione della conquista, stanno ottenendo un riscontro che non è più semplicemente filosofico, ma assolutamente concreto soprattutto sul piano commerciale: semplicemente, i videogiochi più complessi - salvo rare eccezioni - generano molti più ricavi rispetto al titolo AAA medio.

Si dice spesso che nella nostra epoca c'è una sorta disconnessione tra coloro che assumono le scelte in fase di sviluppo e le persone che fruiscono dei videogiochi. Alcuni sentieri imboccati con il preciso fine di aumentare il pubblico di un'opera finiscono invece per ridurlo, le patch dei maggiori titoli online si trovano a peggiorare l'esperienza utente, interi progetti prendono la direzione del gioco come servizio per generare più ricavi e finiscono per essere subissati di critiche, se non addirittura ignorati del tutto. L'inversione di tendenza si è fatta ormai tangibile, ma una grossa fetta dell'industria sembra tutt'ora proiettata verso obiettivi che sembrano ogni giorno più arcaici. Cosa succederà adesso che le esperienze per pochi sono diventate le regine indiscusse del mercato? La speranza è che tutti possano continuare a giocare i titoli che amano, ma siamo di fronte a una rivoluzione che non si può più ignorare.