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It Takes Two, l'intervista a Josef Fares

I suoi giochi possono piacere o meno, ma l'industria ha urgentemente bisogno di persone come lui... abbiamo intervistato Josef Fares, la mente dietro al promette It Takes Two.

INTERVISTA di Francesco Serino   —   20/03/2021
It Takes Two
It Takes Two
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Intervistare un tipo come Josef Fares è un'opportunità da non prendere assolutamente sotto gamba.

In pubblico, si è sempre mostrato eccentrico al punto giusto, estremamente libero nell'esprimere le sue idee e sempre straordinariamente a suo agio, comportamento più unico che raro nel mondo dei videogiochi. Del resto, Fares non è il classico game developer: non sa nulla di programmazione ma ha all'attivo sei film distribuiti in tutto il mondo come regista e spesso anche come sceneggiatore, incluso Jalla! Jalla! del 2000, lungometraggio che ebbe particolarmente successo anche in Italia.

Anche per questi motivi, nel preparare le domande da porgli siamo stati assaliti da alcuni dubbi: avrebbe confermato la sua personalità anche in un'intervista? Sarebbe stato più o meno contento di trattare argomenti diversi dal suo nuovo gioco, scendere nel personale là dove richiesto? Quesiti che sono andati a sommarsi a quelli soliti che precedono un'intervista di questo genere: quanta libertà ci avrebbe concesso Electronic Arts, che pubblica It Takes Two, di toccare altri temi? Quanto tempo avremo a disposizione? Ma soprattutto, saremmo stati soli o in compagnia di altri giornalisti? Chi vi scrive ha iniziato sulla carta stampata, quando le interviste erano un punto forte dell'offerta editoriale mentre oggi raramente sono i contenuti più cliccati, premessa doverosa per farvi capire che quelli elencati sono dettagli, per me, forse più importanti di quanto potrebbe sembrare al lettore di oggi. A seconda dei casi bisogna cambiare approccio, e avere sempre delle domande pronte: se l'appuntamento è insieme ad altri colleghi è sempre meglio preparare domande più concise, più sul tema, tutt'altro discorso se ci si trova faccia a faccia con l'interlocutore, senza dover sgomitare per porgergliene una in più. Il bello, in questi casi, è che non sai come andrà fino a quando non avverrà l'incontro...

Dai film ai videogiochi, sempre controcorrente

Josef Fares
Josef Fares

Ore 15:50, giovedì 19 marzo 2021.
Ci colleghiamo dieci minuti prima dell'appuntamento come richiesto dal PR, e rimaniamo in attesa che ci diano la linea. Alle sedici in punto sentiamo una voce femminile che ci avverte che siamo finalmente online. Clicchiamo così sul programma e la prima cosa che vediamo è Josef Fares a tutto schermo, stravaccato su una poltroncina reclinabile dall'aspetto estremamente comodo. Non siamo soli, c'è chi ci ascolta e vede come è da prassi, ma è lo stesso Fares a gestire la cosa.

Josef Fares: Amico, fatti vedere in faccia, dove sei?

Per qualche istante di troppo eravamo effettivamente rimasti in silenzio, in attesa che ci venisse dato il via, cosa che nella nostra idea di intervista sarebbe accaduto quando sarebbero arrivati tutti gli altri. Ma gli altri chi? Capiamo che saremmo stati soltanto noi e lui.

Ops, scusami, attivo subito, pensavo di dover aspettare l'ok. Dammi solo un secondo per avviare il programma che mi consente di registrare la discussione... bene, fatto, puoi dire qualcosa per fare un check audio?
JF: Hey, what's up, my name is Josef, i talk like this and like that and you have to stop me... I say a lot of shit - relationSHIT!

Inizia a rappare e... perfetto. Ora non abbiamo più dubbi su chi abbiamo davanti. È proprio Fares, come lo abbiamo visto urlare "Fuck the Oscar!" durante i The Game Awards del 2017.

Prima cosa, siamo davvero felici di incontrarti Josef, del resto sei una personalità unica nel mondo dei videogiochi. Non vedevamo l'ora di fare questa intervista.
JF:Grazie, amico. Anche tu sembri un "one of a kind"

Chissà, magari in fondo lo spero, ma iniziamo, dai... prima sei film da regista, poi tre giochi nella stessa posizione, come ti sei infilato nello sviluppo di videogame e cosa ti piace di più in questo campo?
JF: Sì, ho fatto sei film, dal 2000 al 2010, ma sono sempre stato un grandissimo appassionato di videogiochi. Quando ne ho avuto l'opportunità ho sempre parlato di gaming su diverse riviste e media. A un certo punto ho avuto modo di creare dei prototipi di alcune idee, piccole demo, con un gruppo di scuole in Svezia. L'inizio della mia carriera coincide con la demo di quello che sarebbe diventato Brothers. Di Brothers abbiamo creato due demo e poi il gioco completo, e il resto è storia. Dopo Brothers, che è stato un grande successo, è stato il turno di A Way Out e adesso siamo qui. La grande differenza rispetto alla mia carriera passata è il fatto che fare film è molto più facile che sviluppare videogiochi. Questo perché oramai sappiamo tutto di come fare un film: sappiamo come produrlo, come scriverlo, come girarlo. Nei videogiochi stiamo ancora tutti apprendendo cose nuove e fondamentali, soprattutto per quel che riguarda le sceneggiature. Come si racconta una storia in un videogioco? È più difficile fare videogiochi anche perché sono opere interattive; i film sono passivi, e hai pieno controllo di quello che proveranno gli spettatori.

It Takes Two, i protagonisti
It Takes Two, i protagonisti

Da quel che capiamo, non sei un programmatore, non sai come scrivere un programma, è vero? Pensi che questa tua particolarità ti è mai stata da aiuto? E in altri casi ti ha mai fatto sentire inadeguato del ruolo che stavi e stai ricoprendo?
JF: Oh, no, no, no. Non lo so fare. Sì, è successo. Quando lavoro a un film, so esattamente quello che posso fare, dal punto di vista della fotografia, come voglio un set, il tipo di illuminazione che mi ero immaginato... a volte, quando mi rivolgo al mio team e gli dico "voglio questo in questo modo", loro mi rispondono cose del tipo "non siamo mica tanto sicuri che questo sia possibile...". Posso provare a convincerli, ma non con la stessa sicurezza che avrei in un set cinematografico. E secondo me a volte mi fregano pure, ma io li controfrego di gusto. È divertente. Con il mio team abbiamo davvero una bella relazione, a volte discutiamo su alcune cose inerenti al gioco in lavorazione, ma è davvero una bella relationSHIT... ship.

Sì, sembra avere dei problemi a non fare giochi di parole con la merda, ma è anche questo che ci ha fatto subito entrare in "shitntonia".

Abbiamo letto qualche tua vecchia intervista notando che non hai problemi a metterti contro i giocatori più rumorosi. Per esempio, dici che quelli che tacciano A Way Out di avere un brutto finale, in fondo ti stanno facendo un complimento. Oppure, ripeti spesso di non voler lavorare per troppo a lungo a un singolo gioco, quindi non ti piace farne di giganteschi come spesso viene richiesto. Non pensi che i grandi publisher siano un po' in ostaggio di questi appassionati, o presunti tali, che in fondo non sono altro che una minoranza del pubblico?
JF: Allora, le cose stanno così. Tutto quello che noi facciamo lo facciamo per fare in modo che il pubblico possa poi fruirne. C'è però una grossa differenza tra l'adattare la tua visione in modo che piaccia al pubblico, e adattarla in modo che il pubblico la capisca. Capisci la differenza? È Giusto adattare la visione, l'opera, in modo che venga capita, ma deve continuare ad essere la tua visione, non la loro. Anche i developer vogliono qualcosa di nuovo, di fresco, ma se inizi ad adattare troppo il tuo lavoro per fare in modo che coincida con le richieste del pubblico, penso che si finisca nel creare giochi non così interessanti. Devi credere nella tua visione.

Grazie per la risposta, bisogna crederci fino in fondo ma bisogna farsi capire.
JF: esatto, dovresti porla al contrario, del tipo: proprio perché rispetto il pubblico, faccio in modo di rimanere ancorato alle mie idee. Invece che fartela sotto come un pollo.

It Takes Two, una sessione cooperativa
It Takes Two, una sessione cooperativa

Raccontaci di più sul Josef Fares appassionato di videogiochi. Che tipo di giocatore sei? I tuoi giochi ci fanno pensare che il giovane Josef deve essersi divertito un mondo insieme al fratello (l'attore Fares Fares). È così, o eri l'unico a giocare in famiglia?
JF: Mio fratello anche giocava tantissimo, non quanto me, ma anche lui ci dava dentro. Ora fa l'attore, non lavora nel campo dei videogame, anche se ha fatto qualcosa al riguardo, in A Way Out per esempio (è uno dei due fratelli). Anche mia sorella minore giocava, spesso con me. Per quel che riguarda me, io ho una figlia piccola e ho intenzione di farla diventare la più convinta delle hardcore gamer. Penso seriamente che i videogiochi siano oramai una cosa fondamentale. Se mi capita di entrare in una casa e non vedere una console sotto la Tv, mmm non mi fa pensare bene dei proprietari...

Eh sì, capita anche a me, "questi sono strani, non mi fido...".
JF: sì, sì, sì, è come entrare a casa di uno e scoprire che non ha il bagno. È strano. Comunque, provo a giocare a tutto, ma i giochi che mi piacciono di più sono gli action adventure, tra i miei preferiti ci metto Half-Life 2, Mario Galaxy 2, Mass Effect 2... ci sono un sacco di 2 effettivamente.

Effettivamente è strana questa passione per i seguiti, per chi non ne ha mai sviluppato nessuno. JF: ...it Takes Two!. Però dai, è vero che un seguito a volte è utile, aiuta a migliorare una formula che magari non hai avuto modo di esprimere al meglio la prima volta.
JF: è vero, è vero... Sarà pure vero, ma tu non fai seguiti!
JF: (ride) non dico che non succederà mai, ma per adesso è molto più divertente provare a fare cose sempre nuove. Per esempio, siamo già al lavoro sul prossimo progetto e sarà qualcosa di completamente diverso, nuovo.

Ti capiamo perfettamente, se noi fossimo nel tuo ruolo, faremmo la stessa cosa provando sempre cose nuove.
JF:Ottimo, bravo, questo è parlare! You'r my man, Francesco!

Sai cosa succede? Ultimamente tanti ci chiedono un'opinione, per esempio, su Hideo Kojima, sul fatto che debba o meno sviluppare un seguito di Death Stranding. E la risposta è sempre "ma perché dovrebbe? Non c'è nulla da aggiungere, lasciategli fare quello che vuole".
JF: fantastico, è quello che penso, qualcosa di nuovo, e quando crei qualcosa di nuovo impari qualcosa di nuovo.

I giochi coop contraddistinguono la tua produzione, sarà sempre così? E cosa ti piacerebbe fare che non hai ancora fatto?
JF: Ma sai quanto ancora c'è da dire al riguardo? E poi io e il mio gruppo siamo letteralmente gli unici a fare cose del genere. E mi riferisco allo scrivere e al concepire fin dal principio un titolo con il coop come modalità principale. It Takes Two! non può essere proprio giocato da soli, non è proprio possibile. Non è che hai la campagna che puoi affrontare da solo, e poi la modalità coop. È un gioco pensato per il coop fin dal principio. E dal punto di vista creativo c'è ancora tantissimo da esplorare, da inventare: come creare storie per due giocatori, come implementare dinamiche interessanti tra i due giocatori e così via. Non dico che faremo sempre giochi coop, ma sicuramente abbiamo molto da dire al riguardo. Penso poi che i miei tre giochi siano comunque tre giochi molto diversi tra di loro. Brothers è una sorta di gioco in single player dove il coop è importantissimo, le uniche similitudini è la possibilità o l'obbligo di giocare insieme. Li hai giocati?

Ma certamente, tutti quanti.
JF: Mi segui dal principio allora? (ridendo)

Come potrebbe essere altrimenti, Brothers è stato un enorme successo era impossibile non giocarlo. Brothers l'ho finito con mio fratello (bugia bianca! N.D.R.) A Way Out l'ho giocato con un amico...
JF: e con chi lo giocherai It Takes Two!?

Con mia figlia!
JF: wow, e quanti anni ha? (inizia a spippolare sul telefono)

Sette anni, dici che potrebbe andare bene il gioco per lei?
JF: wow, wow, guarda (mostra il telefono alla camera) lei è mia figlia, ha solo due mesi, vorrei giocarci anche io con lei ma forse è troppo presto. Tua figlia gioca quindi, è brava?

Qua cambia espressione, è davvero interessato alle dinamiche padre- figlia, come se volesse conoscere il suo futuro.

JF: Ma te lo hanno dato un codice del gioco?
Sì, certo. Appena scaricato, però devo ancora farlo partire.
JF: Su quale console lo giochi, Ps4 o Ps5?

Ps5
JF: Perfect! Lo amerai, fidati.

It Takes Two, un'ambientazione
It Takes Two, un'ambientazione

Prossima domanda, c'è il supporto al multiplayer crossplatform?
JF: C'è tra Ps4 e Ps5, Xbox One e Xbox S, X M, XS, o come le hanno chiamate.

(Ce la ridiamo di gusto) È impossibile nominarle tutte senza sbagliare!
JF: Eh sì, hanno combinato un bel casino con i nomi.

Ma come gli è venuto in mente, perché?
JF: Xbox Series MAS, così ogni volta mi viene da dire.

In italiano è pure peggio, quando provi a dire il nome sembri Super Mario che cerca di parlare in simlish. Next Question, è meglio: Cosa ne pensi di servizi come il Game Pass, giochi come i tuoi secondo te possono funzionare all'interno di un servizio all you can eat o pensi che ne potrebbero soffrire?
JF: guarda, io penso che in un senso Game Pass è un ottimo servizio. Ho paura per un paio di cose che potrebbero accadere, tipo il Netflix Effect, quando hai troppe cose e alla fine non guardi nulla.

Tipo quando passi un'intera serata a scegliere e poi alla fine vai a dormire...
JF: Esattamente, un'altra cosa che mi spaventa, ma di cui non sono sicuro, è il modo in cui questo influenzerà la creatività degli sviluppatori. Per esempio, da qualche parte i soldi devono entrare, e il rischio è che spinga gli sviluppatori a infilarci troppe microtransazioni. Se cambia la visione, c'è da preoccuparsi. Vedremo in futuro cosa accadrà.

Concedimi un'ultima domanda, questa volta sulla longevità dei giochi. Quanto deve essere lungo un gioco secondo te per essere perfetto? Sappiamo che ti sei lamentato parecchio del fatto che sempre meno giocatori arrivano ai titoli di coda di un gioco...
JF: Esatto, amico, fatti dire questo. Un gioco deve essere lungo quanto basta, non di più. Mi chiedono sempre della rigiocabilità, ma non s'accorgono che la gente non li finisce nemmeno la prima volta questi giochi. Questo è un problema serio di questa industria. Non devi chiederti se un gioco sarà rigiocabile, ma se lo finirai una volta, e se nel finirlo ti sarai divertito o meno. Per qualche ragione, la gente dà valore al proprio tempo libero in modo molto strano. Tendono a pensare che più ore di gioco siano automaticamente una cosa buona, la domanda che uno dovrebbe porsi è che valore do al mio tempo libero. Un gioco deve essere una grande esperienza. Capisco che pagare 60 Dollari per tre o quattro ore di gameplay può dar fastidio, ma ci sono diverse soluzioni a questo. Per esempio, prendi The Witcher 3, uno dei giochi più venduto degli ultimi anni: lo ha finito soltanto il 30% di chi lo ha comprato, il resto a un certo punto ha detto "arrivederci". E chi se ne frega della rigiocabilità, quando il problema è convincere le persone a finire il gioco la prima volta. Questa dovrebbe essere il nostro problema principale da risolvere. Quante volte rigiochi i giochi?

Pochissime volte
JF: Io ne avrò rigiocati cinque in tutta la mia vita

Stesso numero anche io.
JF: ecco, appunto. In verità mi piacerebbe pure rigiocarli alcuni, ma quanti sono così buoni dall'inizio alla fine? E allora lascio perdere.

Grazie Josef, di cuore. Speriamo che la prossima volta potremo parlare di persona. Non siamo fan di queste interviste a distanza: abbiamo bisogno di toccare le persone, abbracciarle.
JF: Grazie, grazie, sì, tu sei mio amico, anche io, italian way!