Il difficile, il brutto, il cattivo
Considerare Splatterhouse III per Megadrive come una delle migliori incarnazioni videoludiche di un certo immaginario horror cinematografico è l’attestazione di un dato di fatto. L’ambientazione in puro stile Evil Dead, l’anti-eroe in maschera (fusa alla faccia) ispirato a Jason di Venerdì 13, l’abbondanza di sangue, budella, smembramenti e orrori miotici vari, le arene colme di sangue e residui biologici più o meno vivi o mutilati sono tutti elementi che elevano automaticamente questa serie allo status di frequentazione obbligata dei palati fini dediti al più estremo grand gourmet. In realtà, però, risulta più intrigante porsi una questione in fondo non banale: se, cioè, il senso dell’orrore come motivazione del videogioco non debba semplicemente esaurirsi nel veicolo estetico, ma investire il tipo di interazione, arrivando proprio nel profondo dell’emotività di chi tiene in mano il joypad. In poche parole: per rendere il senso dell’orribile, un videogioco non potrebbe – o dovrebbe – non solo rappresentare l’orrore, ma anche – o soprattutto - farsi giocare in maniera disturbante? Rispondere è difficile, e pone pure la distinzione tra il gioco semplicemente brutto e il gioco volontariamente cattivo. Ma in ogni caso, purtroppo, Splatterhouse III non cade ne al di qua ne al di la di questa provocazione: non è abbastanza geniale o ben realizzato per essere un capolavoro, e pur essendo un ottimo titolo, con una vocazione potenzialmente radicale, non è abbastanza estremo nell’atto, rimanendo in una via che proprio mezza non è, ma quasi. Il vero mostro di inquietudine, nella serie, rimane d’altro canto il primo episodio, l’equivalente videoludico di quello che Nightmare on Elm Street riesce a suscitare in qualunque spettatore cinematografico sano: l’originale Splatterhouse è ancorato a una angosciante progressione quasi esclusivamente orizzontale e priva di profondità, piagato da una difficoltà immane e da una necessità di memorizzazione colossale, in un connubio tra estetica e controllo da capelli bianchi e pugni insanguinati sul vetro del cabinato. Invece il terzo episodio per Megadrive, dopo la mezza svolta di Splatterhouse 2, non ha guadagnato solo in complessità e profondità di gioco (e neppure tanto), ma anche in accessibilità: perdendo, per l’appunto, in cattiveria.
(L'inferno è ripetizione!)
La prima, sostanziale differenza rispetto ai capitoli precedenti riguarda la presenza di password che, guadagnate durante l’avanzamento nel gioco, consentono al giocatore di ripartire da un punto differente dall’inizio, evitando l’inferno della ripetizione totale e continuata. Ma Splatterhouse 3 si sforza anche di ovviare alla monotonia così deliziosamente infernale dei suoi parenti più anziani, con un set di colpi leggermente più ampio (la lezioncina tra un episodio e l’altra era stata quella del ciclone-Final Fight). Qui il repertorio include, oltre ai soli pugni e al calcio volante, un colpo rotante anti-accerchiamento, una presa con qualche variante; e, dulcis in fundo, una modalità berserk, che va alimentata a bonus raccolti e che trasforma l’eroe di jasoniana memoria in un energumeno nettamente più minaccioso e offensivo, capace – finché la barra rimpinguata di bonus non si esaurisce - di moltiplicare notevolmente il danno inferto alle creature infernali che si frappongono tra noi e il risolvimento del gioco. Le arene sono ora dotate di notevole profondità, e alle volte sono capaci di mostrare accenni di interazione con il simulacro del giocatore. In realtà, però, tutte queste aggiunte non intaccano del tutto il senso di ossessiva ripetizione del gioco, che rimane – probabilmente per scelta e non troppo per caso – il fulcro dell’esperienza. La novità probabilmente più interessante di Splatterhouse 3, invece, è quella dei finali multipli. I livelli sono accompagnati da un conto alla rovescia e vanno attraversati in maniera non-lineare, consentendo strategie che includono la totale esplorazione e raccolta di bonus, indifferente al tempo, oppure, al contrario la più rapida fuga verso il boss e la risoluzione del livello. La seconda strada è quella che si collega più proficuamente all’aspetto narrativo, sempre che il vostro fine sia davvero l’happy ending: risolvere o meno i quadri entro tempi prestabiliti consente di sbloccare finali diversi, a seconda che la ragazza e il bambino da salvare riescano a restare in vita fino alla fine, mentre sventate o soccombete ai piani del Maligno di turno, intenzionato a risvegliare un potere mortale grazie a sacrifici rituali, maschere e formule magiche. L’espediente giova moltissimo al gioco, che sfrutta le sue capacità narrative anche con frequenti e belle cut-scenes cinematografiche o in stile da horror comic per aumentare il pathos orrorifico nel corso dell’avanzamento nei livelli.
Orrori videoludici
Il risultato degli sforzi di Namcot è un picchia-picchia abbastanza solido, non troppo vario o preciso ma privo di grosse sbavature, dotato di una buona sostanza ludica, di una narrazione originale e di un’estetica letteralmente horrorshow. Il discorso estetico, d’altronde, non può che chiudere simbolicamente il giudizio sullo splatter fest di Namco: Splatterhouse 3 non raggiunge i livelli di disgusto suscitati dal primo capitolo ma, come i suoi predecessori, è comunque un tripudio di oscenità corporali. Gli orribili, disumani nemici non sono moltissimi, ma si impongono per la loro riuscita mostruosa: e, soprattutto, ci si affeziona presto ai loro diversi modi di grondare sangue, al perdere pezzi dei soma man mano che si avvicinano alla disfatta e, infine, al loro scomparire in pozze di sangue e bile e frammenti vari. Le armi ci regalano animazioni diverse, facendo deliziosamente esplodere crani e dolcemente sfondando costole, mentre gli ambienti della magione infestata provvedono a colpi d’occhio biologico-orrorifici, suggestioni halloweeniane e persino gigeriane. Ma sono soprattutto i boss di fine livello a colpire con la loro magnificente repulsività. Uno di questi perde la testa ma non la parte inferiore della mascella, con enorme lingua penzolante inclusa. Un altro ride felice del suo essere un incrocio tra un wurstel e un invertebrato, morendo tra migliaia di vermi. Un altro ancora si rivela solo dopo che il simpatico orsetto di peluche che ci corre incontro perde la testa, rivelando l’orribile contenuto nascosto, che corre dentro all’orsetto ridendo sulle braccia e spalancando una bocca dentata da dentro il petto. In tutto questo, la colonna sonora e gli effetti sonori si rivelano sempre professionali nel mantenere alta l’inquietudine e ispirati nel suggerire tensione e senso di incombente disfatta: bella, poi, la colonna sonora dei titoli di testa, con scale rodate per suggerire una fiabesca, allegra fascinazione pronta da un momento all’altro a sconfinare nel terrore.
SPLATTERHOUSE 3 - IL VOTO DI RETROLUDICA
[IMG=6742.xx.s][/IMG] L'estremismo estetico, la radicalità nella concezione della sfida, il tentativo di fornire profondità all'esperienza narrativa attraverso bivi e variazioni, l'attenzione per l'elemento musicale convergono in Splatterhouse 3 e danno vita a una delle migliori esperienze orrorifiche dell'epoca a sedici bit. Non è certo abbastanza per fare un vero e proprio capolavoro, visto che Splatterhouse non riesce a brillare per coinvolgimento o qualità di level design. Né, forse, è sufficientemente infernale per avvalorare o dirimere il sospetto per cui un gioco che dipinge l’orrore debba giocare volontariamente come un orrore, nel senso di saperlo veicolare davvero. In questo senso, il primo episodio della serie rappresenta un picco di sadismo videoludico a tuttoggi ineguagliato. Eppure, anche Splatterhouse 3 basta e avanza non solo per rovinare più di una notte davanti allo schermo in maniera anche più estrema dell’ennesimo survival horror. Come anche per imporsi come uno dei molti documenti di un universo estetico giunto ai nostri giorni con molte trasformazioni, mutilazioni e compromessi e qui, invece, ancora disturbantemente, ingenuamente retrò: quindi, paradossalmente, più "originale".
RetroLudica è la rubrica di vintage e classic gaming che vi porta alla scoperta dei classici del passato. Retroludica supera il paradigma del "nuovo a tutti i costi". E soprattutto punta il dita sul paradosso per cui, nella folle corsa verso il next gen di turno, il valore di un gioco viene a indentificarsi col suo livello di avanzamento tecnologico, per cui quello che viene atteso e amato viene poi abbandonato. Retroludica guarda al gioco del passato valutando il suo valore intrinseco, senza rinunciare al suo posto nella storia.
In questo numero: Retroludica vol. 06 - SPLATTERHOUSE 3 (Megadrive). Un picchiaduro horror vecchia scuola, con smembramenti, mazzate decapitanti, influenze di molti classici dello splatter, difficoltà snervante e ripetitività quasi come vocazione. Splatterhouse 3 è il più "narrativo" tra i capitoli che hanno reso questa serie un classico del retrogaming notturno. Ma il gioco sull'horror deve essere anche un incubo da giocare?
Violenta, orrorifica, disturbante nella veste estetica quanto nella controversa sostanza ludica, la serie di Splatterhouse respirava ancora l’humus malvagio di certe produzioni cinematografiche dai budget non troppo elevati quando non di pura exploitation. Nel corso degli anni ’80, fino ai primi del decennio successivo, aveva avuto luogo una virulenta ed esaltante esplosione del filone orrorifico, con una tendenza alla visibilità cinematografica improntata al macabro e al disgustoso. Un simile filone estetico - perlopiù frequentato da early-teenagers disposti a espedienti di vario tipo per rimediare film vietati, dischi metal, sollievo dalle chiesette, pornografia e birre - non poteva non emanare e proliferare all’interno dell’esplosivo mezzo videoludico, con le sue arcade piene di giochi picchia-picchia e i rimescolamenti degli universi visivi più amati dai ragazzini. Ma i videogiochi non erano ormai solo un fenomeno da sala, si erano spostati sempre di più nella camere da letto, sopra i videoregistratori, accanto ai film horror e di fantascienza. E la scatolina da gioco più adatta a ospitare in casa il fluido velenoso ed etereo dell’Orribile - proprio mentre Nintendo riempiva i salotti delle case americane di avventure di idraulici inoffensivi e avventure nel Mushroom Kingdom – era una console dallo spirito commerciale e dall’immagine di marketing nettamente più intrigante per il teenager medio, il Megadrive di Sega. Dopo una conversione per Megadrive e PC Engine dello Splatterhouse originale, uscito nel 1988 per le sale, un secondo episodio in esclusivo Sega confermava formula e target; mentre tocca a Splatterhouse III, malvagiamente reincarnato in un lussuoso involucro di sedici megabit di memoria, a portare ad uno snervante epilogo la controversa saga splatter. Nel nome del male.