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Xenoblade Chronicles: Definitive Edition, riscopriamo il titolo di Monolith Soft

Manca un mese all'uscita di Xenoblade Chronicles: Definitive Edition e questa è un'ottima occasione per scoprire o riscoprire il JRPG di Monolith Soft e tutto ciò che è venuto prima

SPECIALE di Christian Colli   —   01/05/2020
Xenoblade Chronicles: Definitive Edition
Xenoblade Chronicles: Definitive Edition
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Ricorderemo questa stagione in procinto di concludersi come una delle più strane che abbiamo vissuto. È stato un vero saliscendi in cui ci siamo aggrappati ai videogiochi quasi come fossero un salvagente, in cerca di una forma di escapismo che potesse distrarci dai guai fuori di casa. E siamo stati fortunati perché, al contrario della vita reale, è stata una stagione grandiosa per il nostro hobby preferito, una stagione contrassegnata da grandi successi e ritorni tanto attesi. Xenoblade Chronicles: Definitive Edition, in uscita a fine maggio, sembra quasi voler chiudere il cerchio su questo strano momento storico proprio quando si dovrebbe cominciare a riaprire tutto.

Il capolavoro di Monolith Soft, che ha rilanciato la compagnia e dato il la a una fortunata partnership con Nintendo, torna dopo dieci anni in versione riveduta e corretta, pensata per i possessori di Switch che mancarono l'appuntamento originale su Wii, per tutti quelli che si sono avvicinati al franchise con Xenoblade Chronicles 2 e per i nostalgici che non vedono l'ora di rivivere uno dei migliori JRPG mai sviluppati. In attesa che il gioco arrivi sugli scaffali, ripassiamo questa storia che comincia nel lontano 1998...

I primi passi

Negli anni '90 Tetsuya Takahashi e sua moglie Kaori Tanaka, nota anche con lo pseudonimo Soraya Saga, lavoravano per quella che oggi conosciamo come Square Enix. Takahashi, che aveva contribuito allo sviluppo di titoli come Final Fantasy VI e Chrono Trigger, aveva buttato giù qualche idea per la sceneggiatura di quel patchwork che sarebbe poi diventato Final Fantasy VII. Idee un po' troppo audaci per la serie che, tuttavia, attirarono l'attenzione delle alte sfere, facendogli guadagnare il posto di director per un altro gioco che sarebbe poi uscito nel 1998, e cioè Xenogears. Questo sarebbe stato il primo, indimenticabile incontro tra gli appassionati di JRPG e lo sfolgorante immaginario dei due coniugi giapponesi. Xenogears, che in apparenza non si distingueva poi troppo dai RPG dell'epoca, era un titolo assolutamente rivoluzionario sul fronte narrativo. La trama affondava le radici nella religione, la mitologia e la filosofia, mescolando fantasy e fantascienza, ed era così complessa che si sarebbe dovuta sviluppare in più episodi.

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Anche il sistema di combattimento, un'evoluzione di quello giocato in Final Fantasy VI, rimaneva impresso nella mente del giocatore che controllava un party composto da tre personaggi, a piedi o a bordo dei mech chiamati Gears: per certi versi ricordava i picchiaduro perché ogni attacco era legato a un tasto e si potevano concatenare vere e proprie combo con tanto di spettacolare attacco finale. Xenogears arrivò in Nord America passando per una revisione che ne edulcorò i testi dopo una lavorazione complicata e uno sviluppo pieno di ostacoli, tant'è che Takahashi, esaurito il budget e il tempo a disposizione, era stato costretto a mutilare la narrazione per stringere i contenuti nel secondo disco. Nonostante tutto, Xenogears fu un grande successo di critica e di pubblico, e dimostrò anzitempo che i JRPG potevano sconfinare in territori inesplorati.

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La prova generale

Takahashi lascia Square insieme a sua moglie e ad alcuni colleghi per fondare Monolith Soft col preciso obiettivo di completare l'opera cominciata con Xenogears e raccontare quella storia ambiziosa senza limiti o costrizioni. Non potendo riutilizzare la sceneggiatura di Xenogears perché i diritti li aveva Square, il director riscrive la storia insieme alla sua instancabile compagna per conto di Namco, che all'epoca non si era ancora unita a Bandai. Non esistono collegamenti concreti tra Xenogears e XenoSaga, solo rimandi e citazioni: il titolo, Xeno, diventa il marchio di fabbrica di Monolith Soft. Nella nuova storia, che avrebbe dovuto contare sei episodi, una giovane scienziata si ritrova ad affrontare la minaccia degli alieni extradimensionali noti come Gnosis con l'aiuto di un androide sperimentale che nasconde un incredibile segreto. Anche questa volta Takahashi dovette scavalcare un problema dopo l'altro: fra le altre cose, sua moglie che abbandona il progetto dopo Episode II e Namco che taglia il budget, riducendolo a una trilogia, dopo le vendite insoddisfacenti del titolo di mezzo.

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Aggirando persino un discutibile cambio di look in Episode II che avrebbe dovuto attirare i giocatori occidentali, e lasciando il posto di director in un difficile momento di transizione, Takahashi riesce a scrivere un finale per la sua opera con Episode III, pur amaramente consapevole di non aver potuto esprimere il suo massimo potenziale neanche in questa occasione. XenoSaga delinea tuttavia i fondamentali nella narrativa dei titoli Monolith Soft, che pescano a piene mani nella mitologia, nella fantascienza e nella filosofia, citando pensatori come Nietszche e Jung già nei sottotitoli, e scomodano icone religiose come Gesù Cristo con il criterio di chi ha qualcosa da dire e non lo fa solo perché è cool. Immancabili anche in XenoSaga i mech, un chiodo fisso di Takahashi, che i personaggi pilotano in alcuni momenti di gioco, modificando drasticamente un sistema di combattimento che cambiava forma di episodio in episodio, protendendosi verso un orizzonte più moderno senza riuscire a scrollarsi di dosso l'ingombrante DNA di Final Fantasy.

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Forgiare la Monade

Le difficoltà affrontate nello sviluppo di XenoSaga e le vendite risicate diedero non pochi problemi a Takahashi e il suo team, che per qualche anno si ritrovarono a portare avanti progetti minori qua e là per tirare a campare, fra i quali spicca un titolo per Nintendo DS, Soma Bringer, che dal Giappone neppure uscì mai. Dopo che il fondatore di Namco, Masaya Nakamura, si era ritirato intorno al 2002, Takahashi si era accorto che la società - ormai prossima alla fusione con Bandai - concedeva sempre meno libertà creativa ai suoi sviluppatori. Nel mentre, un team secondario della compagnia, capitanato da Yasuyuki Honne, sviluppava per GameCube i due titoli della serie Baten Kaitos tra il 2003 e il 2006, allacciando un rapporto fondamentale con Nintendo che si tradusse in un'offerta davvero allettante quando Shinji Hatano, un direttore esecutivo presso la grande N, propose a Takahashi di sganciarsi da Namco e diventare una sussidiaria di Nintendo. L'esclusività in cambio di una maggiore libertà creativa.

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Per i ragazzi di Tetsuya Takahashi non era stato un gran periodo. Il morale nella compagnia era veramente a terra dopo la debacle XenoSaga, ma nell'estate del 2006 Takahashi era stato colto da un'idea folgorante: aveva immaginato un mondo in cui gli abitanti vivevano sopra i corpi giganteschi dei loro dèi. Nel disperato tentativo di coinvolgere attivamente il suo staff, Takahashi aveva cominciato a buttar giù schizzi e copioni di quello che poteva essere il setting di un nuovo gioco di ruolo. Yasuyuki Honne lo aiutò a costruire un modello tridimensionale degli dèi in lotta e, convinto che avessero per le mani qualcosa di veramente interessante, insistette perché Takahashi ne discutesse coi vertici di Nintendo. In quello stesso periodo, alla grande N si stava varando anche lo sviluppo di un altro JRPG, The Last Story, titolo griffato Mistwalker che vantava la pluripremiata firma del mitico Hironobu Sakaguchi: l'idea era quella di inaugurare su Wii un nuovo corso di JRPG che doveva essere più moderno e doveva rivolgersi a un pubblico molto più ampio.

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Al director Koh Kojima, un veterano di Monolith Soft, fu affiancato Genki Yokota, così che Tetsuya Takahashi potesse concentrarsi sulla scrittura della storia e sulla supervisione di un progetto in cui, almeno questa volta, doveva arrivare fino in fondo. Il problema è che Takahashi non si era fatto ancora un'idea precisa sulla trama. Era fondamentale che il gioco lasciasse una discreta libertà al giocatore, senza vincolarlo alla narrazione come facevano spesso i JRPG in quegli anni, un genere che cominciava a sentire tutto il peso della sua stessa tradizione: per questo motivo si esclusero i combattimenti a turni in arene separate dalla mappa esplorabile, ripiegando sull'affascinante "open world" che stava andando sempre più di moda. Al fine di trovare un equilibrio sensato tra narrazione e gameplay, Takahashi rinunciò alle cinematiche lunghe e frequenti di XenoSaga e si ispirò piuttosto ai videogiochi di ruolo occidentali e ai MMORPG. Rendendosi conto in più di un'occasione che il team non sarebbe riuscito a rispettare le scadenze, Takahashi trovò un alleato prezioso nel producer Hitoshi Yamagami che, avendo intuito le potenzialità del progetto, persuase Nintendo a concedergli ancora più tempo e libertà creativa.

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Sempre più coinvolto nella progettazione del gioco a più a livelli, Takahashi decise anche di reclutare alcune vecchie conoscenze perché lo aiutassero a stendere la sceneggiatura. Yuichiro Takeda aveva scritto alcuni anime, tra i quali spiccava l'adattamento televisivo di XenoSaga, mentre Yurie Hattori aveva lavorato sulle trame di svariati titoli Nintendo: in pratica erano due punti di vista complementari, uno esterno al panorama videoludico e l'altro intimamente legato ad esso. Insieme avrebbero trovato l'equilibrio di cui Takahashi aveva bisogno, mentre nel suo script convergevano le idee che aveva avuto ai tempi di Xenogears e che negli anni si erano trasformate in XenoSaga e pure in Soma Bringer. Le tematiche fantascientifiche, filosofiche e religiose dovevano spiccare gradualmente e organicamente nel corso della storia, che avrebbe dovuto cominciare su toni molto più fantasy rispetto al passato.

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Takahashi assunse il controllo pure sul fronte musicale, reclutando una squadra composta da Manami Kiyota, i tre membri dello studio ACE+ e Yoko Shimomura, su consulenza dell'etichetta Dog Ear Records di Nobuo Uematsu. Takahashi, che aveva in mente una colonna sonora grandiosa e cinematografica, supervisionava ogni brano e non si faceva problemi a respingere quelli che, nella sua immaginazione, non erano adatti al gioco. Contrariamente a quel che si pensa, Shimomura ha composto soltanto una decina di tracce tra le oltre novanta che costituiscono la colonna sonora, e non senza fatica, dato che dovette occuparsi di alcune tra le più significative. Per il brano di chiusura, Takahashi riesumò poi la sua amicizia con Yasunori Mitsuda, il compositore che aveva lavorato alle musiche di Xenogears e XenoSaga Episode I: nonostante il poco tempo a disposizione e l'enormità dello script che avrebbe dovuto leggere per comprendere meglio l'opera, Mitsuda è riuscito a comporre il brano per la canzone "Beyond the Sky", scritta da Takahashi in persona e cantata in inglese dall'australiana Sarah Àlainn.

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Operation: Rainfall!

Xenoblade Chronicles nasce con un altro titolo, Monado: The Beginning of the World, che mette subito in primo piano la spada Monade intorno a cui ruota gran parte della storia. A consigliare diversamente fu Satoru Iwata, il presidente della Nintendo che all'epoca insistette perché Tetsuya Takahashi scegliesse un titolo che conteneva la parola Xeno: essa avrebbe onorato gli sforzi dello scrittore e l'eredità di Monolith Soft, ricordando i titoli che avevano fatto la sua storia. Xeno, poi, deriva da ksénos, una parola greca che significa "diverso", "strano" e anche "unico", e nell'idea di Takahashi sarebbe servito a identificare uno specifico franchise in cui le storie, pur essendo slegate, mantenevano specifici punti di riferimento.

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Annunciato nell'E3 del 2009, previsto per il 2010, Xenoblade Chronicles rischiò di non uscire mai dal Giappone. E anche dopo che fu annunciato per l'Europa, a un anno di distanza dall'uscita nel paese del Sol Levante, la localizzazione per il Nord America rimase a lungo nel dubbio. Nintendo neppure lo portò all'E3 2011, alimentando l'idea che la release fosse ormai fuori discussione. Fu allora che i fan misero in movimento una delle più famose campagne di sensibilizzazione nella storia di questo medium, la cosiddetta Operation: Rainfall. Tempestando i canali social di Nintendo, firmando petizioni e scrivendo migliaia di e-mail, i più tenaci, appassionati sostenitori dei JRPG - con l'aiuto di Mistwalker e di Soraya Saga - riuscirono a persuadere Nintendo perché localizzasse non solo Xenoblade Chronicles, che arrivò negli Stati Uniti a 2012 inoltrato, ma anche The Last Story e Pandora's Tower.

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Oggi Xenoblade Chronicles è un titolo di culto, un'opera stimata e anche un po' invidiata che ha fatto conoscere i Monolith Soft anche a chi non si era mai filato i JRPG proprio grazie alla risonanza che ebbe attraverso l'Operation: Rainfall e la risposta ultrapositiva di critica e pubblico. Il capolavoro di Tetsuya Takahashi vide pure la luce in un momento complicato per il genere JRPG che, a cavallo tra le generazioni, stava sacrificando la sua identità storica nel tentativo di svecchiarsi e prendere nuove direzioni che non sempre incontravano le aspettative dei fan. Nel suo equilibrio ponderato, Xenoblade Chronicles è riuscito proprio a rivitalizzare un intero genere, mostrando la via e ridando fiducia non soltanto agli appassionati, ma anche agli sviluppatori.

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Convertito in seguito anche per New Nintendo 3DS col titolo Xenoblade Chronicles 3D, questa strepitosa avventura ha dato inizio a un nuovo franchise che ha impegnato Takahashi e i suoi collaboratori nelle ultime generazioni Nintendo, prima su Wii U con Xenoblade Chronicles X e poi su Switch con Xenoblade Chronicles 2. Nessuno sa che cosa ci riserva il futuro, se vedremo un Xenoblade Chronicles 3 o se Monolith Soft riprenderà la storia lasciata in sospeso con Xenoblade Chronicles X. Quel che è certo è che Tetsuya Takahashi alla fine ce l'ha fatta, e non possiamo fare a meno di domandarci come sarebbe potuta essere quell'idea di Xenogears in sei parti se le cose, nel 1998, fossero andate diversamente. Ma forse, chissà che un giorno...

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