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Black the Fall, recensione

Un piccolo titolo indipendente in cerca di affermazione

RECENSIONE di Simone Tagliaferri   —   12/07/2017
Black The Fall
Black The Fall
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La strada fu aperta nel 1991 da Another World di Éric Chahi, titolo che rielaborava in chiave filosofica il lavoro fatto da un riluttante Jordan Mechner (voleva fare lo sceneggiatore cinematografico, non il game designer) con le animazioni del capolavoro Prince of Persia. Niente più dungeon orientali da esplorare, ma un'avventura action organica capace di raccontare una storia pur in assenza di lunghe sequenze narrative, caratterizzata da personaggi ottimamente animati per quanto visivamente stilizzati. Come spesso accade, quelle che all'epoca furono scelte fatte a causa di limiti tecnici, si trasformarono in un vero e proprio stile, in un certo senso rinnegato da Chahi stesso con Heart of Darkness, in cui il protagonista era ben definito nell'aspetto, titolo di scarso successo da non confondersi con il brutto seguito apocrifo di Another World, Heart of the Alien. Ma non divaghiamo troppo e facciamo un lungo salto fino al 2010, anno in cui Limbo di Playdead fa irruzione sul mercato indie, rinverginando commercialmente il genere, oscurato negli anni dall'imperio del 3D, nonostante molti suoi elementi fossero sopravvissuti influenzando autori di grande fama come Fumito Ueda (iCO, Shadow of the Colossus), Hideo Kojima (serie Metal Gear) e Goichi Suda (Killer 7).

Considerato nella sua forma originale, era ormai diventato appannaggio di pochi appassionati che negli anni si erano trastullati tristi e solitari con titoli minuti e semi sconosciuti come OnEscapee, o hanno dovuto ripiegare su prodotti più moderni capaci quantomeno di evocare le atmosfere alla Another World (ad esempio Outcast), almeno fino al già citato Limbo, cui ha fatto seguito nel 2016 Inside, e che nel frattempo ha concepito innumerevoli figli fuori dal talamo nuziale come Little Nightmares, Silence of the Sleep, Detention e altri. In un'epoca di giochi servizi sempre più elaborati, standardizzati e impersonali, i "giochi alla Limbo" sono diventati sinonimo di ricercatezza stilistica e di ritorno a una visione autoriale del videogioco, dedicati a una nicchia commercialmente prolifica che non ha ceduto completamente ai compromessi imposti dal mercato di massa.

Prima di Inside?

Senza alcuna timidezza, Black the Fall tende subito la mano al giocatore tipo di Limbo e Inside (in realtà è uscito molto prima di quest'ultimo in Accesso Anticipato, ma lo sviluppo travagliato ne ha ritardato la pubblicazione). Inizia senza dare alcuna spiegazione, con il giocatore chiamato ad apprendere le poche funzioni del sistema di controllo sperimentandole sul campo: si salta, ci si abbassa e si interagisce con gli oggetti, almeno fino a che non si ottiene un puntatore laser che consente di controllare a distanza alcuni apparecchi elettronici, compresi quelli sulle schiene dei nostri "colleghi". Il protagonista è un lavoratore schiavo di una fabbrica prigione dove viene prodotto non si sa bene cosa. Nella prima sequenza lo vediamo uscire da una gabbia piena di suoi simili e raggiungere la sua postazione lavorativa: una bicicletta collegata a un generatore elettrico.

Il tipo di regime non è un mistero
Il tipo di regime non è un mistero

Deve pedalare per far muovere alcuni carrelli minerari, ma è in quel momento che vede la sua via di salvezza, unico ad avere una coscienza/videogiocatore che lo guida: una porta rimane aperta giusto il tempo per farlo sgattaiolare fuori. Da lì inizia la fuga dai suoi carcerieri e dai letali sistemi di sicurezza della fabbrica, alla ricerca di una via per il mondo esterno. A differenza di Playdead, che ama il non detto, Sand Sailor Studio mette subito in chiaro alcuni elementi fondanti dello scenario in cui si svolge Black the Fall: ci troviamo in un futuro alternativo in cui il comunismo in qualche modo ha prosperato. Per dire: durante la fuga ci ritroveremo in una stanza decorata con una falce e martello e da alcuni ritratti di personaggi come Marx, Lenin e Stalin. Insomma, lì dove Inside ci faceva fuggire da un regime prototipo, di cui si poteva comprendere solo in parte la natura decifrando alcuni segni lasciati nelle ambientazioni, qui abbiamo una definizione precisa di chi è il nostro oppressore, definizione che va a delimitare l'interpretazione di tutti gli altri elementi, finale compreso. Certo, non tutto viene chiarito fino in fondo, ma diciamo che conoscere il nome del nemico rende l'intera avventura in un certo senso più tangibile.

Puzzle e ombre

I primi momenti del gameplay lasciano un po' spaesati e si finisce per morire spesso. Quando ci si è ambientati si inizia a ragionare nei termini previsti dal gioco e le cose migliorano. Prima di fare ogni passo, si osserva con più efficacia l'ambiente che ci circonda alla ricerca di oggetti con cui interagire.

Ecco il nostro compagno di viaggio
Ecco il nostro compagno di viaggio

Diciamo che per avanzare bisogna risolvere una serie continua di piccoli puzzle, alcuni dei quali davvero molto semplici, come aspettare che un grosso bipede robotico ci dia le spalle per scappare via, e altri più complessi, come far rimbalzare il segnale del già citato puntatore laser per agganciare un altro schiavo e sfruttarlo per liberarci la strada. In generale è davvero difficile rimanere bloccati per più di qualche secondo e, anche quando le cose si complicano, bastano pochi tentativi per capire come avanzare. Diciamo che avere un minimo di spirito d'osservazione non fa male, ma è tutto qui. A onore degli sviluppatori va detto che sono riusciti a diversificare moltissimo gli enigmi, senza quasi mai ripeterli (a parte per alcune piccolezze), incastrandoli perfettamente nello scenario. Nonostante la natura ludica delle azioni, non ci sono quindi forzature evidenti e tutto ciò che accade è ben contestualizzato a livello narrativo. Certo, manca della raffinatezza di un Another World, o della maggiore pregnanza politica di un Detention, ma riesce comunque a coinvolgere e a raccontare una storia che va oltre gli stilemi del videogioco, regalando anche qualche immagine di insolita potenza visiva. Stilisticamente è stata privilegiata una forma moderata di stilizzazione, che punta dritta verso un minimalismo quasi astratto, cullato però da un forte espressionismo di stampo cinematografico, visibile soprattutto nel modo plastico in cui vengono sfruttate le ombre, che arricchiscono la composizione di alcuni scenari, dando un peso maggiore alla rappresentazione.

Non mancano delle sequenze particolarmente evocative
Non mancano delle sequenze particolarmente evocative

D'altro canto tra tutti i titoli citati nell'articolo, Black the Fall è quello che fa meno per distaccarsi dalla sua fonte d'ispirazione principale. La verità è che non ci prova neanche, finendo per subordinarsi ineluttabilmente a Limbo e Inside. Ecco, il suo problema principale è proprio la mancanza di una personalità forte che lo distingua dai titoli di Playdead. Non fraintendete: non stiamo parlando di un gioco brutto. Anzi, è migliore di quanto ci si potesse aspettare da un team emergente. Solo che avremmo preferito poter giocare a una rilettura più personale del genere. Sicuramente sarebbe stata più rischiosa, ma ci avrebbe tolto dalla mente quella insopprimibile sensazione, che non va ne su e ne giù, di devozione eccessiva.

Requisiti di Sistema PC

Configurazione di Prova

  • Processore Intel Core i7-4770
  • 16 GB di RAM
  • Scheda video NVIDIA GeForce GTX 960
  • Sistema operativo Windows 10

Requisiti minimi

  • Sistema operativo Windows 7/8/10
  • Processore Intel Core 2 Quad Q6600 @ 2.4 GHz, AMD FX 8120 @ 3.1 GHz
  • 4 GB di RAM
  • Scheda video NVIDIA GT 730, AMD Radeon HD 7500
  • 4 GB di spazio su Hard Disk
  • DirectX 9.0c

Requisiti consigliati

  • Processore Intel i7 920 @ 2.7 GHz, AMD Phenom II 945 @ 3.0 GHz
  • 8 GB di RAM
  • Scheda video NVIDIA GTX 680, AMD Radeon R9-280X

Conclusioni

Versione testata PC Windows, PlayStation 4
Digital Delivery Steam, PlayStation Store
Prezzo 14,99 €
Multiplayer.it
8.0
Lettori (13)
7.8
Il tuo voto

Tre ore d'avventura. Black the Fall è in linea con il genere anche da questo punto di vista. Complessivamente è un buon titolo che, come sottolineato nell'articolo, manca un po' di autonomia. È comunque un'ottima opera prima capace di raccontare con efficacia un regime oppressivo e spersonalizzante, oltre che la disperazione di chi è costretto a conviverci. Se siete fan del genere ve lo consigliamo senza grosse riserve, a parte quella di non attendervi niente di troppo originale.

PRO

  • Puzzle semplici ma diversificati
  • Stilisticamente derivativo ma con delle scelte interessanti
  • Ambienti azzeccati

CONTRO

  • Manca un po' di personalità
  • Concettualmente meno profondo delle sue fonti d'ispirazione