Vi ricordate di Gaikai e OnLive? Anche se per motivi diversi ormai non esistono più entrambi, scommettiamo di sì. I due servizi di cloud gaming sono infatti stati al centro delle discussioni per mesi e mesi, con toni talvolta particolarmente altisonanti, frutto della convinzione diffusa che fossero destinati a rivoluzionare l'industria videoludica. Ci siamo caduti un po' tutti, lasciandoci andare a quelli che a posteriori sembrano entusiasmi troppo facili, dettati in realtà da motivi individuabili con una certa semplicità. Prima di tutto dal periodo, coincidente con le battute finali della passata generazione di console in cui per diverso tempo siamo stati alla ricerca di un qualcosa che ridefinisse il nostro modo di giocare, dopo i fallimenti in tal senso di Kinect e PlayStation Move. Arrivati a inizio 2016, possiamo dire che la rivoluzione che aspettavamo non è arrivata, anche se forse non abbiamo neanche avuto la pazienza di aspettarla. Siamo passati ad altro, travolti dall'arrivo sul mercato di PlayStation 4 e Xbox One, ma soprattutto dall'avvento della realtà virtuale, identificata dal buzz mediatico come nuovo messia del videogioco. Così come lo avevamo esaltato, ci siamo quindi dimenticati del cloud gaming, ma questo non vuol dire che esso si sia fermato: nel bene e nel male, il 2015 è stato un anno d'importanti novità. Oggi vogliamo quindi fare il punto della situazione sullo stato attuale di questa tecnologia, analizzandone anche gli eventuali sviluppi futuri.
Che fine ha fatto il cloud gaming? Dall'esaltazione di qualche anno fa, a ricordarlo ormai sono in pochi
Un bisogno inesistente?
Smaltiti ormai da tempo gli entusiasmi iniziali per il cloud gaming, è tempo di aprire gli occhi: nella sua concezione comune questa tecnologia non ha mai offerto particolari punti di rottura all'industria videoludica, costruendo il proprio successo iniziale su un hype spropositato. Certo, in teoria l'idea di sfruttare la rete per iniziare subito a giocare senza essere obbligati a effettuare download enormi è tuttora allettante, così come lo è quella di giocare a titoli dalla grafica ultra pompata su dispositivi che normalmente non sarebbero in grado di farli girare.
Ma all'atto pratico la risposta è un po' come un puzzle dove mancano i pezzi: le statistiche di mercato dimostrano che nelle nostre case non vogliamo assolutamente smettere di dotarci di PC e console sempre più potenti, per cui avere la possibilità di ricorrere al cloud gaming ci sembra piuttosto superfluo. Verrebbe quindi da pensare al campo mobile, popolato da dispositivi meno potenti, ma anche in questo caso manca qualcosa: la tecnologia LTE ci permetterebbe in realtà di godere di ottime velocità di download, ma la quantità limitata di gigabyte dei piani d'abbonamento mensili resta un limite invalicabile. Senza contare che allo stato attuale non esistono controller in grado di riprodurre su smartphone e tablet il feeling che lo stesso gioco avrebbe su console o PC. Non bisogna dimenticare, inoltre, la necessità di avere un'infrastruttura adeguata alla riproduzione dei contenuti del cloud gaming, che affida completamente alla qualità della connessione a Internet le sorti dell'esperienza di gioco. In un contesto in tempo reale come quello di un videogioco, il concetto di buffering non è applicabile per ovvie ragioni, per cui una partita rischia di essere seriamente rovinata da un degrado nella linea anche di pochissimi secondi. Se per i giocatori il cloud gaming non sembra poi così conveniente, lo stesso vale per le società, chiamate a garantire l'esistenza di server in grado di servire molteplici richieste di streaming allo stesso tempo. Questo vorrebbe dire alleviare i giocatori da un investimento in hardware tutto sommato abbordabile, costringendo invece le aziende ad accollarsi spese considerevoli per mettere a punto un'architettura del genere. Facile immaginare che questo possa comportare un incremento dei prezzi all'utente finale, per permettere alle società di recuperare la somma spesa.
La goccia di Shinra
Il 2016 si è aperto con una notizia interpretata da alcuni come la classica goccia che ha fato traboccare il vaso: Shinra Technologies, divisione di Square Enix dedicata al gioco in streaming, ha chiuso i battenti. Quella del progetto annunciato al Tokyo Game Show nel 2014 è stata una vita piuttosto breve, che comunque non ha impedito al publisher nipponico di perdere gli oltre 16 milioni di dollari investiti in poco più di un anno e mezzo. Una spesa importante, che ha dimostrato quanto la società credesse nella tecnologia, almeno nella fase di lancio delle attività di Shinra.
A ulteriore testimonianza di ciò, troviamo il fatto che a capo di questa divisione ci fosse una personalità di spicco come Yoichi Wada, ex presidente di Square Enix. Per rispondere alla domanda che dà il titolo a questo articolo, risulta particolarmente significativa la motivazione fornita nella nota che ha accompagnato la fine di Shinra: chiusi i rubinetti interni, Square Enix ha infatti provato nei mesi scorsi a cercare degli investitori esterni, purtroppo fallendo. Nel paragrafo precedente, abbiamo descritto una situazione in cui manca quella spinta innovatrice che servirebbe al cloud gaming per fare il salto definitivo: se c'era qualcuno che aveva le potenzialità per essere in grado di dare questa spinta con un approccio innovativo al cloud gaming, questo era il team guidato da Wada. Shinra aveva infatti avviato una serie di collaborazioni con sviluppatori esterni, per realizzare titoli che sfruttassero col loro design l'architettura cloud. Invece di proporre il modello classico del cloud gaming, che vede i giochi normali eseguiti su di un server per essere poi riprodotti su un client collegato in streaming, l'idea era quella di realizzare titoli modellati ad hoc sul nuovo tipo di architettura, per offrire un'esperienza di gioco diversa. Purtroppo, quello che sarebbe potuto diventare un esempio positivo verrà invece ricordato come negativo: se neanche un vecchio volpone come Wada è riuscito a trovare i fondi necessari per portare avanti un progetto interessante come quello di Shinra, quanto accaduto può essere interpretato come un importante segnale di disillusione dell'industria videoludica nei confronti del cloud gaming.
PlayStation Now e GeForce Now
Il 2015 è stato l'anno di un'altra importante notizia per il cloud gaming, purtroppo non positiva: ad aprile scorso, è toccato a OnLive chiudere i battenti. Il fatto ha avuto una rilevanza soprattutto dal punto di vista simbolico, perché il servizio fondato da Steve Perlman è stato il primo in assoluto a far parlare di sé e del cloud gaming con una certa cassa di risonanza. Alla fine, di esso non è rimasto altro che una serie di brevetti, che l'ironia della sorte ha fatto passare a quella che una volta era la concorrenza.
La tecnologia di OnLive è stata infatti acquisita da Sony e inglobata nel suo servizio PlayStation Now, a sua volta nato dall'acquisizione di Gaikai da parte della società giapponese. Contemporaneamente, NVIDIA ha rivisto l'idea alla base del suo ex progetto Grid, andando oltre la modifica del nome in GeForce Now per limitarlo al suo solo ecosistema Shield: una scelta a doppio taglio, che ne ha ridotto fortemente l'uso pratico. Allo stesso modo, il lancio ufficiale di PlayStation Now a fine 2015 ci ha dimostrato che questo tipo di servizi restano interessanti solo sulla carta, mentre all'atto pratico mancano di quelle caratteristiche che possano farne un fiore all'occhiello dell'esperienza del giocatore, su PlayStation 4 come sulle altre piattaforme. Chi sperava di vedere un Netflix per videogiochi si è ritrovato davanti a cataloghi composti da un numero di titoli variabile, nel caso di PlayStation Now legato più al passato che al presente: tanto per fare un esempio, i capitoli della serie Assassin's Creed disponibili sul servizio targato Sony arrivano fino al numero III uscito nel 2012, anno dal quale nel frattempo ne sono arrivati sul mercato altri quattro. Il tutto offerto a modelli di prezzo poco allettanti e ben poco integrati alla libreria già posseduta, continuando quindi a spingere l'acquirente verso il modello distribuito classico dell'industria videoludica. Parlare del lavoro svolto dalle varie società nell'ambito del cloud gaming ci offre però l'opportunità di andare a vedere quello che il cloud in generale può rappresentare per l'intrattenimento elettronico.
Più che il cloud gaming per come lo intendiamo, sono infatti le tecnologie che ne facevano parte ad avere assunto una nuova forma, diventando in alcuni casi davvero rivoluzionarie come immaginavamo. Piuttosto che per scopi di rendering remoto, l'uso di server online per immagazzinare dati e processarli è sempre più diffuso, mentre le architetture di streaming sono ormai fondamentali per la vita di tutti i giorni del videogiocatore che vive con una finestra su Internet. Pensiamo per esempio allo streaming domestico, grazie al quale contenuti elaborati su un dispositivo vengono riprodotti sullo schermo di un altro collocato nella stessa casa. Passando a una visione di più alto livello, è impossibile non pensare allo streaming videoludico sotto forma di piattaforme come Twitch, che hanno davvero rivoluzionato il concetto d'intrattenimento legato ai videogiochi. Probabilmente, se in passato non ci fosse stato il lavoro di ricerca e sviluppo effettuato per il cloud gaming, adesso assistere live a una sessione di gioco non ci sembrerebbe una cosa così normale. Quanto detto finora ci dimostra che non tutto ciò che si trovava alle spalle del cloud gaming era sbagliato, ma lo era l'idea che ce ne eravamo fatti. Una risposta in cerca di domande che non c'erano, ma che sono poi arrivate per modificare il pensiero alla base nei modi che abbiamo visto di recente. Insieme agli usi che nel futuro continueremo a fare di queste tecnologie.