Non ricordo un momento della mia vita in cui non sono stato accompagnato dai videogiochi. La mia venuta a questo mondo è stata, infatti, arricchita da un Commodore 64, che i miei genitori avevano comprato l'anno prima. Il mio destino era già segnato, per così dire. Naturalmente, i videogiochi hanno avuto meno importanza in certi periodi ma, in generale, rappresentano una presenza fissa nella mia esistenza. Lo stesso potrei dire per le reazioni medie delle persone, adulti in particolare, quando venivano a sapere della mia passione videoludica. Non si andava mai oltre un vago fastidio o diretto scherno, l'equivalente del moderno "ma perché non ti trovi un lavoro vero?".
Sicuramente, è un'esperienza condivisa con tanti altri giocatori, specie quelli che hanno iniziato qualche decennio fa. Tutto sommato, però, non biasimo troppo questi "adulti". D'altronde sono cresciuti in una società che ha trattato i videogiochi come moda passeggera prima e, poi, come male da estirpare a tutti i costi. Almeno, nella maggioranza dei casi. Se c'è una tendenza che ha unito la stampa generalista tutta è stata l'aver sempre trattato i videogiochi come materia aliena. Negli anni 90, poi, sono stati una miniera d'indignazioni varie per il pubblico, usati come contorno dell'argomento di cronaca nera del momento: le sette sataniche o i sassi dal cavalcavia. Confesso che da giovane mi illudevo che, siccome tutti i miei coetanei erano videogiocatori, la situazione sarebbe un giorno cambiata. Sarebbe arrivata - in qualche modo - la nostra rivincita come videogiocatori. Così non è stato, ma questo è un altro discorso.
Ripercorriamo quegli anni, osservando come la stampa guardava ai videogiochi con l'ausilio di articoli pubblicati tra anni novanta e duemila. Il videogioco trattato da quotidiani e testate come La Repubblica, Corriere della Sera e Panorama.
“Super Mario Uccide Anche Te”
In questo curioso articolo del 1993 a firma Bernardino Campello, l'occasione sembra essere la recensione del libro "Game Over" di David Sheiff, tuttora una buona introduzione alla presenza di Nintendo in America, pur con qualche dato ormai superato. Campello non sembra proprio averlo letto, o perlomeno, sembra aver deciso d'ignorarne completamente il testo. Il libro, invece, diventa trampolino per una curiosa invettiva contro Nintendo e Super Mario. Il NES, racconta Campello, è una "macchina che si applica al video e ipnotizza i bambini per ore (ma anche gli adulti non scherzano)". Accettiamo la descrizione della console come fosse una delle sirene dell'Odissea e proseguiamo.
Il giornalista non tarda a individuare nell'idraulico baffuto un nemico per le giovani menti: "protagonista di una serie che non finisce mai, Mario insegna ai bambini che devono uccidere per non essere uccisi". Ironicamente, tra tutte le serie dell'epoca, tra Contra (o Probotector in Europa), Castlevania e Double Dragon, andarsela a prendere con Super Mario per la violenza penso fosse già allora una scelta curiosa, oggi davvero ridicola. Campello sembra ignorare che Nintendo, ai tempi, praticava una politica draconiana contro sesso e violenza, nonché contro i simboli religiosi che - in Europa e America - venivano epurati senza pietà. Il giornalista prosegue denunciando l'egemonia culturale del Giappone sulle menti dei più piccoli. Vero che all'epoca il cartone giapponese, quello che oggi definiremmo "anime", era onnipresente, su questo il giornalista aveva visto bene. Peccato che sui videogiochi non c'avesse preso per niente, sottolineando in conclusione come Nintendo sia stata più fortunata che altro, nel guadagnarsi il posto di leader del mercato. D'altronde, sia mai riconoscere la bravura di un'azienda giapponese... Ho avuto modo di chiedere a Campello, di recente, se avesse davvero letto il libro di David Sheiff, ma tutto quel che mi ha risposto è stato che "non avrebbe scelto quel titolo perché non c'entra nulla con il contenuto dell'articolo".
“Vade Retro, Videogame”
Sempre nel 1993, Daniela Camboni sul Corriere della Sera, intervista due "esperti" dei danni determinati dall'uso eccessivo di televisione e videogiochi. L'articolo inizia in materia davvero traumatica per un videogiocatore: "se vostro figlio ha perso la testa per Bet and Up o Super Mario [...] passa tutto il pomeriggio con Spara o Fuggi o Plat-form Game (Il gioco delle piattaforme) non sgridatelo". La giornalista non solo ha sbagliato nello scrivere i termini, ma è andata a usare generi come fossero titoli di giochi. Come se per parlare di musica, dicessimo "se vostro figlio ha perso la testa per le Metal o per i Trap...". Una svista abbastanza pesante che sarebbe stato facile correggere con un minimo di ricerca.
Non paga di questo primo errore si rincara la dose, con l'esperto che nomina alcuni dei giochi più pericolosi per i bambini: "giochi dai nomi inquietanti: Picchia Duro, Spara e Fuggi, Plat-form Game". Continuo francamente a non comprendere cosa ci sia d'inquietante nel sostantivo piattaforma. Per quanto siamo tutti d'accordo che l'uso eccessivo di TV e videogiochi sia deleterio (come l'eccesso in qualsiasi cosa, oserei dire), mi pare di notare che l'articolo glissi furbescamente sugli adolescenti e adulti con l'hobby del videogioco. Certo, all'epoca una percentuale minore, ma sicuramente ben presente, specie sul lato home computer. Cosa fare per proteggere le giovani menti? Comprare al bambino giochi dove deve usare il cervello: trovare oggetti e risolvere enigmi. Insomma, fate giocare a vostro figlio solo avventure grafiche, così invece di un "videointossicato", crescerà un frustrato che girerà con le tasche piene di oggetti che cercherà di usare con tutto quello che gli capita a tiro, continuando a blaterare di scimmie a tre teste e "molto appropriato, combatti come una mucca".
“La tranquilla Verona scopre i giochi di morte”
La giornalista Laura Laurenzi era una presenza piuttosto fissa nel periodo dei sassi dal cavalcavia. La ricordiamo per l'aver diverse volte ricollegato fatti di cronaca nera ai videogiochi, in maniera piuttosto libertina. Parlando dei ragazzi veronesi arrestati per i famigerati sassi dal cavalcavia, Laurenzi riporta l'intervista di un insegnante di arti marziali, che a quanto pare non li conosceva nemmeno: "si è perso il senso che per ottenere un risultato bisogna lavorare sodo. Loro preferiscono i videogames, dove si fa tutto senza fare niente, si pilota l'aereo, si guida la Ferrari, si fa la lotta, si fa la guerra". Insomma, l'immancabile ritornello che incolpa i giovani che con i videogiochi ottengono tutto e subito (si vede che non aveva mai giocato a Mega Man eh?), togliendo di mezzo ogni eventuale responsabilità genitoriale. Difatti nel testo i videogiochi si rintracciano almeno tre volte, i genitori nemmeno una.
"Figli della noia, i Nintendo boys, quella stessa noia da agiatezza che oggi li spinge a uccidere per gioco, dicono gli psicologi." La tendenza a unire l'azienda videoludica/nome console con boys sembra una passione che unisce tutta la stampa italica del tempo, che la riadotterà a ogni occasione possibile, anche con PlayStation. Anzi, mi sorprendo che la Repubblica oggi non denunci bande di criminali chiamati Twitch Kids o Trap Boys. Laurenzi era, inoltre, presenza obbligatoria su ogni articolo natalizio di metà anni novanta, in cui tristemente notava l'immarcescibile presenza del videogioco nei desideri dei bambini. Nel 2001 poi, la nostra disegnava fantascientifichi scarabocchi, rigurgiti tra Gibson e Ballard, descrivendo parrucchieri romani che sembrano essere esistiti solo nella fervida fantasia di qualcuno: "[...] ambientazioni New Age poltrone massaggianti, una per ogni cliente, dotate di personal computer accessoriato non soltanto di playstation ma naturalmente anche di collegamento Internet, nel caso che durante le mèches la signora avverta l'insopprimibile desiderio di entrare in rete o di spedire una email.".
Il videogioco sotto sequestro, da Carmageddon II a GTA
Alberto Gaino su La Stampa era un evidente appassionato di videogiochi sequestrati, nonché delle mirabolanti avventure del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello. Il magistrato si è reso famoso nel tempo per diverse inchieste scottanti, tra cui quella sul metodo Di Bella (archiviata), l'archivio segreto FIAT (finito in prescrizione) e sull'Aulin (archiviata). Giusto, però, anche ricordare le cause portate avanti con successo, tra le quali quella sull'Eternit. Tra dicembre '97 e il luglio dell'anno successivo, il giornalista riporta dei sequestri di Carmageddon, Grand Theft Auto (qui tradotto in maniera estremamente pedestre "l'opera inglese: il grande furto d'auto") e Carmageddon 2.
Immancabile vicino al magistrato, c'è lo psicologo Paolo Crepet che nell'articolo parte a tutta birra con "Grand Theft Auto è propedeutico alla pedagogia criminale". Decisamente una dichiarazione che andrebbe studiata in tutte le università, specie perché riferita a un titolo con visuale dall'alto e pochissimi dettagli effettivi sulle suddette attività criminose. Lo psicologo, infatti, si lancia in una curiosa recensione sul titolo della DMA Design, che definisce meno avanzato di Carmageddon e quindi "meno seduttivo". Crepet poi a quanto pare ha proposto a Guariniello uno studio in cui un gruppo di adolescenti giocherebbe a Carmageddon e l'altro a "videogiochi normali" (purtroppo non si fanno esempi). Il magistrato rifiuta, temendo che i ragazzi diventino cavie, d'altronde come mai potresti convincere degli adolescenti a giocare coi videogiochi? L'articolo si conclude augurandosi misure a tutela dei minori di fronte a questo pericoloso mezzo.
Anche sul seguito di Carmageddon il nostro Gaino non si risparmia, commentando tristemente che "è trascorso il tempo in cui la pubblicità negativa di un'inchiesta giudiziaria si incassava in silenzio. Oggi si sfrutta". Non so bene a che tempi faccia riferimento il giornalista, ma da sempre le inchieste e il rumore mediatico hanno aumentato le vendite di un prodotto o un artista. Gaino continua, poi, con alcuni riferimenti oggettivamente difficili da comprendere quali "ci sono le sgommate ottenute virtualmente sul dischetto premendo leggermente la lettera zeta sulla tastiera". L'intero articolo su Carmageddon II, insomma, sembra la classica analisi fatta con pochissima cognizione di causa del mondo videogioco. Però a Gaino va riconosciuto: almeno sembra averci giocato davvero a Carmageddon.
“È ancora un gioco il computer di casa”
Articolo su Repubblica a firma Andrea Chiarini, si tratta di un reportage dal Futurshow di Bologna del 1997. Di per sé, l'argomento è innocuo e non ci sono moralismi, ma il giornalista non riesce a evitare alcuni riferimenti che destano perplessità. In apertura: "il nonno di Super Mario Bros cominciò a lavorare nell'86, in video game nascosti negli angoli dei bar: 100 lire la partita". Una frase complicata da interpretare, ipotizzo che il giornalista abbia confuso l'anno di uscita dell'originale Mario Bros in sala giochi, oltre a pensare che ci fosse un rapporto di parentela tra il Mario del 1997 e quello dell'86? Il nostro continua "si lasciano toccare docilmente e rispondono a bassa voce, mentre nel frastuono degli stand vicini, gli adolescenti di oggi strapazzano senza ritegno tastiere e joystick [...]". Anche col massimo sforzo, l'immagine di una sala giochi "docile e a bassa voce", francamente, sembra ben lontana dalla realtà.
Il racconto del Futurshow continua, con alcune interessanti testimonianze da parte del patron del distributore C.T.O. Marco Madrigali, nonché un piccolo focus su Nirvana X-Rom. Si passa al settore console, anche qui il giornalista dimostra di non avere le idee molto chiare. Vengono nominate Sony, Sega e, infine, Nintendo definita come "ultima entrata nel settore". D'altronde la console, ci dice, sembra una piattaforma adatta per chi vuole giocare spendendo poco (e anche su questo ci sarebbe da dire, specie per l'epoca). Chiarini conclude osservando come, basti sbirciare nel "suk del Futurshow" per trovare soluzioni fai da te anche per il PC, come "un volante che costa 109mila lire" e che quindi, magicamente, riuscirebbe a replicare l'esperienza console.
“Vince chi seppellisce viva la bambina”
Probabilmente uno dei più noti articoli degli ultimi anni, uscito su Panorama a novembre 2006. A firma Guido Castellano, è un'anteprima di Rule of Rose, in cui vengono denunciati contenuti scabrosi e non affatto adatti ai minori, per poi continuare attaccando Postal II e Bully (Canis Canem Edit). Il problema principale dell'articolo del buon Castellano è che, per la maggior parte, descrive fatti completamente inventati, non riscontrabili nei giochi citati. Iniziando dal titolo, "seppellire viva la bambina" in Rule of Rose non è affatto parte del gameplay, bensì è solo un incubo della protagonista nel video introduttivo, oltretutto non giocabile. Su Postal 2, Castellano dice che "i gay vanno picchiati", mentre invece non compare assolutamente negli obiettivi del gioco. Il giornalista se la prende anche con Yakuza, descrivendolo come un titolo "dove, per non essere un "ominicchio" e diventare "uomo d'onore", l'unico modo è ammazzare, picchiare e rapinare". Chiunque abbia giocato anche un paio d'ore al titolo Sega, penso sappia benissimo che il messaggio della serie non è mai stato questo, anzi. Ne parleremo in un apposito articolo, ma Panorama causò un vespaio di polemiche soprattutto a livello internazionale.
In conclusione
La tendenza facilmente analizzabile da questa carrellata di articoli è che nella stampa generalista si parlava, spesso, di videogiochi in maniera parziale. Si riportavano - nel migliore dei casi - scampoli di generici studi realizzati all'estero o contributi di sedicenti esperti della materia. Sembrava esserci una precisa volontà di evitare di coinvolgere giornalisti ed esperti del videogioco, comunque presenti. Mi piacerebbe concludere con una nota positiva, però, cioè notare come negli ultimi anni ci sia stato un miglioramento nella trattazione del videogioco, anche sulla stampa generalista. Questo grazie, principalmente, all'affacciarsi di diverse persone ben più esperte del giornalista medio. Certo, poi quando vedi video come questo di Repubblica uscito a marzo 2021, con didascalie che usano toni sbeffeggianti e descrizioni pietose ("la stanzetta", "la sedia da gaming"), ti rendi conto che di strada ancora c'è da farne.