Trascorsi i primi cinque minuti dall'inizio di Like a Dragon: Yakuza, la nuova produzione di Amazon ispirata alla serie di videogiochi giapponesi Yakuza (o Like a Dragon, che dir si voglia), bisogna prendere una decisione. Questa scelta condiziona pesantemente il modo in cui si giudicano i successivi quaranta minuti del primo episodio, e poi le altre due puntate per ora disponibili sulla piattaforma. È una scelta molto semplice: cercare in questo serial una certa fedeltà alla saga videoludica oppure no.
Nel primo caso, Like a Dragon: Yakuza è una delusione cocente sotto ogni punto di vista. A mancare il bersaglio sono trama, personaggi, vicende, ritmo e soprattutto lo spirito con cui le situazioni vengono messe in scena. Se invece si sceglie di assistere a una storia di yakuza che scimmiotta la cinematografia di Takeshi Kitano, allora le cose cambiano...anche se di poco. Potremmo a questo punto chiederci quanto abbia senso approcciare la serie con questo intento, dal momento che chi la guarda, con tutte le probabilità del caso, è fan della saga, o magari vuole scoprirla perché ne ha sempre sentito parlare bene. Ma l'idea che ci siamo fatti, dopo aver visto metà delle puntate previste, è che questo sia l'unico approccio possibile per mandare giù l'operazione di Like a Dragon: Yakuza.
Una nuova Kamurocho
Nel 1995, Kazuma Kiryu, Nishikiyama Akira, sua sorella Miho e Sawamura Yumi, sono quattro orfani, un po' scapestrati, che organizzano una rapina in una sala giochi gestita dalla mafia giapponese. Poco più che ragazzini alla loro prima esperienza criminale, combinano un casino e vengono acciuffati piuttosto in fretta, prima che riescano a scappare dal Sunshine, l'orfanotrofio dove vivono, gestito dal padre adottivo Kazama Shintaro.
Quando la yakuza li preleva e li porta a cospetto del boss Dojima, i quattro pensano ormai di essere spacciati. A niente serve la supplica di Kazama, anche lui ex yakuza, costretto perfino a tagliarsi il mignolo per l'onta. Il boss intende far fuori i due ragazzini. È a questo punto che Kiryu gli propone invece uno scambio: servirà la famiglia Dojima e diventerà il guerriero più forte di Kabukicho, il quartiere a luci rosse di Tokyo, palcoscenico dello scontro tra le diverse famiglie di yakuza. Il boss, incuriosito, decide di tenerli in vita, assegna le due ragazze a un club, il Serena, dove faranno da accompagnatrici ai clienti, e asseconda le aspirazioni di Kiryu.
Dieci anni dopo, nel 2005, la situazione è precipitata: Kiryu è in carcere, gli altri galeotti lo chiamano oyagoroshi, "l'ammazza boss". Nishikiyama è arrivato al vertice della piramide yakuza. Le due ragazze sono invece coinvolte in un affare che mette a repentaglio le loro vite. Quando Kiryu esce di prigione, si trova nel bel mezzo di una guerra tra famiglie criminali che rischia di diventare un bagno di sangue.
Like a Dragon: Yakuza si pone un obiettivo non solo poco plausibile, ma persino troppo audace, ovvero prendere elementi dal primo gioco della serie e dall'amatissimo Yakuza 0 e integrarli a una storia quasi del tutto inedita. Ma laddove i videogiochi hanno dalla loro decine di ore per approfondire personaggi, situazioni e contesto storico, la serie cerca di farlo - senza molto successo - in pochissimo tempo. Anche la scelta di spostare tutto in avanti nel tempo di una decina di anni non ci è parsa funzionale: gli anni '80 di Yakuza 0 raccontavano l'emergere della baboru keiki, la bolla speculativa che fece sprofondare il Giappone nel lungo decennio di recessione economica. Ci raccontavano, in buona sostanza, una parte fondamentale della storia moderna giapponese, che qui è stata totalmente eliminata in favore di un contesto più vicino a un classico film di gangster.
Un adattamento lontano dalla fonte d’ispirazione
Avevamo apprezzato Masaharu Take, regista della serie, nel suo lavoro prodotto da Netflix, Il regista nudo, che raccontava l'ascesa di Toru Muranishi, leggendaria figura dell'hardcore giapponese. In effetti molti tagli di questo Like a Dragon: Yakuza ce lo hanno ricordato: il montaggio ben ritmato, le sequenze musicali con brani occidentali molto famosi, che vogliono essere un omaggio ai gangster movie di Martin Scorsese.
Ma Take non è Scorsese, perché pecca proprio dove sia il regista italo americano sia anche la saga videoludica di Yakuza eccellono: l'afflato drammatico. Nei primi tre episodi tutto ci è sembrato piuttosto leggero, scevro di quella verve melodrammatica che caratterizza le avventure virtuali di Kiryu. E, ancora più lampante, è la mancanza della vena umoristica e grottesca che da sempre abita la saga.
È una delusione cocente, perché siamo lontani dagli anni in cui gli adattamenti dei videogiochi erano progetti svogliati, poco riusciti, messi su alla bene e meglio per cercare di battere cassa su una nicchia di appassionati. Anzi. Oggi alcuni dei prodotti di maggior successo della serialità televisiva provengono proprio da videogiochi che hanno sceneggiature eccezionali, come The Last of Us, o che rappresentano una feroce critica alla società in cui viviamo, con un perfetto equilibrio tra satira e parodia, come Fallout, tra l'altro sempre prodotta da Amazon. Like a Dragon: Yakuza, invece, non riesce a cogliere né la sfumatura sopra le righe del videogioco, vero e proprio marchio di fabbrica della produzione di Ryu Ga Gotoku Studio, né a presentare un'alternativa che setti uno standard convincente e diverso da quello videoludico.
In questo senso, il personaggio di Majima Goro è emblematico: completamente spogliato dal suo spirito stravagante, per ora resta un killer senza arte né parte. L'adattamento cinematografico tanto vituperato diretto da Takashi Miike nel 2007, Like a Dragon, riusciva meglio a dipingere la bizzarria dei personaggi e di un luogo come Kamurocho. E dell'idea creativa di Toshihiro Nagoshi, l'allora director della saga, che tra l'altro interpretava anche un ruolo nel film.
A metà dell’opera
Tre puntate e duecento minuti scarsi, significano che siamo a metà della serie. E nonostante questo, tanto per dirne un'altra, Like a Dragon: Yakuza non ci ha ancora proposto una scazzottata come si deve. Le scaramucce affrontate da Kiryu sono sempre state brevi, non particolarmente movimentate, lontane dall'epica del videogioco, ma anche dalla cruda violenza dei film di arti marziali a cui era lecito aspirare.
È l'ennesima nota stonata in una produzione tenue, inoffensiva, che ha il sapore dell'occasione mancata, anche se presa a sé stessa. E che lascia un retrogusto estremamente amaro se invece si cerca qualcosa che riesca a cogliere lo spirito kitsch del videogioco. Che possa recuperare terreno con gli ultimi tre episodi non è da escludere. Saremmo contenti se prendesse una direzione precisa, anche se scegliesse di discostarsi del tutto dai videogiochi. In questo caso ci aspetteremmo però un'alternativa altrettanto valida, capace di affiancare, senza sostituirla, l'assurda visione virtuale di una Kabukicho che negli anni abbiamo imparato a conoscere centimetro per centimetro.