Internet è un posto strano in cui si commenta un po' tutto senza approfondire nulla, togliendosi spesso il gusto di capire ciò che si sta leggendo (o che non si è letto, ma si pretende lo stesso di aver capito). Soprattutto se si è accecati da qualche ideologia, fosse anche una insulsa e insignificante come la partigianeria per una piattaforma da gioco, basta un'associazione concettuale distante dal proprio sentire, o l'uso di alcune parole chiave in modo considerato inappropriato, per far partire una crociata fatta spesso di idiozia e di qualche minaccia di morte.
Rami Ismail è una delle personalità più rappresentative della scena indipendente videoludica, non fosse altro perché ogni tanto prova a comunicare con il suo pubblico con grande franchezza, dandogli un punto di vista interno sul funzionamento dell'industria. Come tutti gli esseri umani non è infallibile e ogni tanto anche lui prende qualche cantonata o, come in questo caso, esprime un dato di fatto in modo provocatorio, senza però spiegarlo (se non in una fase successiva).
Cosa è successo? Ismail ha scritto un Tweet in cui afferma che portare come esempi di giochi che non hanno bisogno di microtransazioni i vari Mario, Zelda o Uncharted è sbagliato, perché le loro microtransazioni sono le console stesse e i giochi di terze parti. Apriti cielo: c'è da specificare che gli sono piovuti addosso insulti di ogni tipo?
Chiariamo subito: Ismail ha espresso un concetto sacrosanto e ben conosciuto, in una forma purtroppo sbagliata, cercando evidentemente la provocazione spicciola. Questa è sicuramente la sua colpa. Nondimeno ha chiarito il suo pensiero in un post successivo, pubblicato sul suo blog personale, in cui ha spiegato che in realtà stava soltanto riportando quella che possiamo considerare una grossa e risaputa ovvietà: per un possessore di piattaforma (Nintendo, Sony, Microsoft, ma in parte anche per Valve, Apple e così via) produrre un gioco o un software di prestigio non ha il solo scopo di vendere copie dello stesso, ma anche di spingere la piattaforma stessa attivando un ciclo economico più ampio. Più un gioco (o un'offerta di giochi) riesce ad accresce la base utenti della piattaforma, più le terze parti saranno interessate a svilupparci o a pubblicarci sopra. Questo si traduce automaticamente in più introiti per il possessore della piattaforma, che su ogni videogioco venduto prende la sua parte (le cosiddette royalty). Quindi, e qui si chiude il cerchio, un gioco first party non ha come obiettivo solo quello di vendere se stesso, ma anche quello di promuovere la sua piattaforma, dandole un'identità appetibile per gli utenti, in modo da dare vigore all'intero ciclo sopra descritto. Così, e concludiamo, non è sbagliato dire che una fetta dei finanziamenti dei titoli first party provenga anche dalla vendita delle console e dei giochi third party.
Insomma, Ismail non ha svelato chissà quale grande segreto dell'industria dei videogiochi, ma un sistema in vigore da praticamente quando è nata la stessa.
Il problema è che molti hanno visto il suo Tweet come una specie di giustificazione delle microtransazioni e, manco a dirlo, come un attacco verso i titoli citati (e di conseguenza verso Sony e Nintendo). Divertente, paradossale e un po' triste, visto che, in tempi non sospetti, lui è stato uno dei primi a denunciare le forme di monetizzazione più predatorie dell'universo dei free-to-play e affini. Proviamo a dare la colpa di tutto a Twitter e all'impossibilità di spiegare concetti complessi nei pochi caratteri che offre... Certo, fa sorridere amaramente che le polemiche continuino anche dopo che Ismail ha dato una spiegazione più ampia della sua infelice uscita.