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A volte risorgono

Visto che è Pasqua, cerchiamo di dare un senso alla resurrezione nei videogiochi

SPECIALE di Simone Tagliaferri   —   05/04/2015
A volte risorgono

Uno dei topos più interessanti della storia della narrazione, in qualsiasi forma sia espressa, è quello della resurrezione. Nonostante nei paesi di cultura cattolica lo si colleghi automaticamente alla storia di Cristo raccontata nel Nuovo Testamento, la sua origine ha radici molto più lontane e lo si ritrova in civiltà molto differenti tra loro, come quella egiziana, al punto che sarebbe giusto considerarlo come un mito più di natura archetipica che strettamente culturale. Certo, è con il Cristianesimo che la resurrezione diventa dogma, ma l'idea della sconfitta della morte attraverso un ritorno alla vita favorito da forze divine non è esclusiva di una singola religione. Le arti narrative sono sempre state affascinate dal concetto di resurrezione. Non mancano nelle letterature antiche racconti di eroi graziati dalla morte o che sono costretti a viaggiare negli inferi per riportare in vita le persone amate (pensate al mito di Orfeo e Euridice). Con la massificazione della cultura poi, l'idea del ritornare dalla morte è stata usata e abusata sempre più spesso, per la sua natura fortemente consolatoria e per le possibilità commerciali che offre di proseguire storie che altrimenti si sarebbero concluse con la morte dell'eroe o dell'eroina di turno. Pensate a quanti film finiscono con un cadavere riportato in vita dalla forza dell'amore e siete a cavallo (avete visto Frozen? Tecnicamente, anche quella è una forma di resurrezione).

In questo speciale pasquale parliamo di resurrezione nei videogiochi e di come viene interpretata

Resurrezioni continue

Nei videogiochi il concetto di rinascita è fondamentale in innumerevoli titoli. Anzi, diciamo meglio, si tratta di una meccanica basilare, senza la quale il medium intero perderebbe un grosso pezzo della sua storia. L'eroe videoludico è il ritornante per eccellenza, colui che non muore mai veramente se non alla fine del racconto, nonostante lungo la strada sia stato ucciso innumerevoli volte.

A volte risorgono

Nella maggior parte dei casi l'idea di resurrezione videoludica si esprime semplicemente come una necessità del gameplay, ossia come una punizione per il giocatore poco abile. È traducibile in un salto all'indietro su una linea spazio/temporale da percorrere nella sua interezza. In alcuni casi la resurrezione è limitata, nel senso che si può rinascere solo un certo numero di volte prima dell'inevitabile game over. Comunque non è mai definitiva, perché basta ricominciare da capo per rivivere la stessa storia, ma con maggiori possibilità di ingannare la morte. In fondo parte del fascino dei videogiochi non risiede proprio in ciò? Un gioco come Bloodborne, per fare un esempio recente percepibile da tutti e di cui riparleremo nel corso dello speciale, non è bello anche per la soddisfazione che si prova nel suo continuo porci di fronte al rischio di morte? Insomma, videogiocando abbiamo vissuto resurrezioni continue, alcune più profonde, altre più prosaiche, ma tutte determinanti, nel bene e nel male, per la nostra visione del mondo. Dopo aver introdotto il concetto, che meriterebbe un trattamento più approfondito, ma non è questo il posto giusto per farlo, vediamo di affrontare la resurrezione per temi differenti, usando alcuni celebri videogiochi come trampolini. Ovviamente non abbiamo alcuna pretesa di esaustività. Il nostro intento è più che altro quello di darvi qualche spunto di riflessione da cui magari partire per arrivare ad approfondimenti più seri, o anche semplicemente per guardare con occhio differente una situazione che affrontate giornalmente nel vostro hobby.

La resurrezione classica

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Per resurrezione classica facciamo riferimento a quella meccanica di gioco già descritta nei paragrafi introduttivi per cui dato un certo numero di vite a disposizione, l'eroe deve riuscire a concludere la sua avventura senza consumarle tutte. Pensate a un qualsiasi coin-op degli anni '80-'90 e avrete ben chiaro a cosa ci stiamo riferendo. In questi casi la resurrezione può avvenire immediatamente, ossia si ritorna in vita esattamente dove si è stati uccisi (ad esempio in Ikaruga) o può avvenire in un punto antecedente del livello, scenario tipico dei videogiochi con checkpoint (pensate a Ghosts'n Goblins). Non si tratta di un sistema monolitico, visto che offre diverse varianti. Ad esempio il sistema a checkpoint può prevedere un solo punto di rinascita per un intero livello, costringendo ogni volta a ricominciarlo dall'inizio, mentre nei giochi moderni spesso si dispone di vite infinite, che non obbligano a ricominciare da capo perché le scorte di resurrezioni sono inesauribili (pensate a Tomb Raider). Alcuni dei paragrafi seguenti conterranno a loro volta delle varianti di questo sistema che, come vedremo, può essere usato come parte attiva del gameplay in più di un modo.

La resurrezione seriale: Super Meat Boy

A volte risorgono

Quando Super Meat Boy uscì sul mercato i giocatori riscoprirono la bellezza della difficoltà, ossia il fascino del morire a ripetizione conquistandosi il successo un po' alla volta. Dopo alcuni livelli introduttivi, il gioco di Team Meat diventa un massacro continuo del protagonista, con il giocatore inevitabilmente costretto a morire per cercare di superare i vari ostacoli. Il decesso è veloce e decorativo, visto che il Meat Boy schizza sangue ovunque quando viene ucciso. Le sue morti e resurrezioni, effimere nel loro ripetersi a raffica, finiscono per dettare il ritmo dell'intero gioco. In titoli simili il ritornare alla vita è parte di una catena di montaggio della morte estetizzata all'eccesso, mai definitiva ma fortemente irrisoria degli sforzi fatti per andare avanti. È un ribadire continuo l'incapacità del giocatore, che può solo scegliere se tentare ancora una volta o se abbandonare completamente e non tornare più. Nessuno ti toglie la vita giocando, ma nemmeno può garantirti la vittoria.

Risorto per vendicarsi: L’Ombra di Mordor

Talion, il protagonista de La Terra di Mezzo: L'Ombra di Mordor, rappresenta il classico caso di "narrativizzazione" della resurrezione, legata a un tema dall'impatto emotivo assicurato: la vendetta. Il ramingo è il comandante delle guardie del Cancello Nero, dove vive insieme alla sua famiglia. Durante un assalto delle forze di Mordor, viene catturato e ucciso dalla Mano Nera, il luogotenente di Sauron, ma non prima di aver visto assassinare sua moglie e suo figlio. Il suo spirito viene però rifiutato dal mondo dei morti a causa di una maledizione che lo ha indissolubilmente legato allo spirito di un elfo (la storia non è proprio così, ma evitiamo anticipazioni inopportune a chi non lo ha giocato). Talion non è vivo, ma non può nemmeno morire. Tutto ciò che può fare è vendicarsi. La contestualizzazione della morte operata da Monolith, lungi dall'essere originale, oltre a essere un'ottima scusa per non far morire il protagonista durante il gameplay, viene sfruttata lungo tutta l'avventura per rendere credibili nella storia meccaniche di gioco che altrimenti farebbero perdere immedesimazione al giocatore. Si tratta di una scelta auspicabile in casi simili, ma spesso molto difficile da attuare.

La resurrezione egotica: From Software

From Software applica nei suoi titoli una forma estrema di "meta-narrativizzazione" della morte. In Demon's Souls, nei Dark Souls e più recentemente in Bloodborne, la morte non segna soltanto il fallimento del giocatore, ma apre l'intera esperienza di gioco a un livello di interazione diverso e più ampio, in cui si comincia a sentire la necessità di comunicare i propri decessi agli altri che stanno sperimentando i nostri stessi problemi. Verrebbe quasi da affermare che From Software crei videogiochi che aprono al confronto continuo con gli altri esseri umani che li stanno vivendo, richiedendo quasi programmaticamente lo scambio d'informazioni e la condivisione dei successi. Morire e ritentare diventa un affare sociale. Farcela fa sentire come degli iniziati che hanno compiuto un'impresa superiore; un'esperienza divina di vittoria sulla morte. Non è esagerato dire che la visione alla base della recente produzione di From Software sia la messa in contatto del giocatore con il suo ego, frustrato in continuazione, quindi fatto esplodere con il successo. Ego che si esprime al massimo proprio quando può ribadire agli altri quanto la sfida appena superata sia stata difficile.

Ironia della morte: Monkey Island 2: LeChuck's Revenge

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Nella saga Monkey Island il concetto di resurrezione è presente in diverse forme. Non stiamo facendo riferimento soltanto alla resurrezione del pirata LeChuck, ma anche a come Guybrush possa morire senza però morire mai. Si tratta di una forma paradossale di "narrativizzazione" della morte, che in Monkey Island 2: LeChuck's Revenge viene usata addirittura come gag. Durante il gioco capita infatti che Guybrush possa morire. Il problema è che quasi l'intera avventura, a parte il frammento finale, viene raccontata da Guybrush stesso a Elaine Marley, la donna amata. Tecnicamente il fruitore gioca con il racconto di un Guybrush vivo, che, di conseguenza, non dovrebbe poter narrare della sua morte. Quando ciò avviene è Elaine a fargli notare l'assurdità delle sue parole, costringendolo a fargli ripetere la storia. Volendo il giocatore può fallire ancora e farlo morire di nuovo, ripetendo la stessa forma di resurrezione metanarrativa in cui viene ribadito che a fallire è chi gioca, ma che la morte non può avvenire effettivamente perché creerebbe un paradosso narrativo insanabile. Comunque consolatevi, perché nell'ultimo capitolo della saga, Tales of Monkey Island di Telltale Games, Guybrush muore e resuscita veramente.

La resurrezione mancata: Aeris di Final Fantasy VII

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L'ultimo caso di resurrezione di cui parleremo è un caso di non-resurrezione. La narrativa popolare ha alcune regole non scritte che di solito gli autori sono tenuti implicitamente a rispettare. Una di queste dice che non è il caso di uccidere personaggi con cui il fruitore ha stabilito un forte legame affettivo. Aeris, una delle protagoniste di Final Fantasy VII, è il prototipo dell'eroina da amare: innocente, delicata e dolcissima; è dotata di una bellezza candida che le permette di instaurare immediatamente una profonda empatia con il giocatore. In fondo ama i fiori, ha delle buone maniere, si comporta sempre seguendo principi etici profondi e non negoziabili, ed è altruista al punto di... sacrificarsi per salvare il mondo. In molti sono rimasti letteralmente scioccati dalla sua morte per mano di Sephiroth. Se ci avete giocato confessatelo: siete anche voi tra quelli che hanno nutrito in cuor loro la speranza di vederla tornare? Anche voi dopo ogni boss vi chiedevate: "quando resuscita Aeris?" Infine, anche voi dopo aver finito il gioco eravate increduli della sua morte definitiva e avete pensato di aver dimenticato di fare qualcosa? Pensate che ancora oggi c'è chi cerca nei meandri più reconditi del gioco il sistema per ridarle la vita. Paradossalmente è proprio la morte di Aeris uno dei punti forti di Final Fantasy VII per la sua potenza emotiva che è stata capace di imprimere il gioco nella memoria individuale e collettiva. Se fosse risorta come sperato da molti, la storia avrebbe preso un'altra piega, perdendo tutta la carica che la costruzione narrativa di quel momento aveva determinato. È come se il team di sviluppo avesse messo il giocatore in contatto con i sentimenti che si provano perdendo una persona cara, strappandogli di dosso l'effimero senso di immortalità che i videogiochi solitamente trasmettono.