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Anthem e la semplificazione dei MMORPG

La nascita, la crescita, la trasformazione e la stagnazione di un genere.

SPECIALE di Francesco Serino   —   05/03/2019
Anthem
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Il nuovo gioco Bioware ed Electronic Arts sta riscuotendo un buon successo in Italia e in tutta Europa, e abbiamo motivo di credere che nemmeno gli USA si lasceranno sfuggire questa nuova avventura online. Un debutto che inevitabilmente sorprende visto che la critica, specialmente quella statunitense, ha accolto Anthem in modo tutt'altro che positivo. Anche il pubblico, stando a ciò che si sente in Rete, appare più che mai diviso sulle reali qualità del gioco in questione, eppure malgrado i dubbi, le critiche, le sue reali incertezze perché ci sono anche quelle, viene ugualmente acquistato in massa. Cosa sta succedendo e perché le opinioni sono così divergenti? Com'è possibile che un prodotto possa essere allo stesso tempo un ottimo e un pessimo videogioco, o che Anthem sia stato lasciato sullo scaffale da così tante persone ma è stato comunque capace di arrivare in testa alla classifiche? È chiaro che stiamo assistendo a un vero e proprio cortocircuito che coinvolge il rapporto che intercorre tra stampa e pubblico, evento che negli ultimi anni si sta ripetendo ciclicamente e sempre con questa tipologia di giochi molto particolare. Proprio per questo, a nostro parere, riteniamo sia giunto il momento di riavvolgere il nastro per osservare il più vicino possibile gli eventi che ci hanno portato verso questa forse insanabile frattura. In questo articolo, proveremo a spiegare il perché Anthem potrebbe trasformarsi in quello spartiacque che dividerà il prima e il dopo della critica videoludica, ma non solo.

Dal principio

Partire dal principio, in questo caso significa spiegare cos'è un MMORPG. Il termine, oltre ad essere un acronimo innegabilmente orribile (che sta per Massive Multiplayer Online Role Playing Game), descrive una tipologia di giochi di ruolo in cui un grande numero di utenti vive virtualmente e contemporaneamente nella stessa grande ambientazione. Il genere, nonostante l'approccio a prima vista estremamente moderno, nasce come MUD (Multi User Dungeon) intorno al 1980, quasi contemporaneamente alle prime reti universitarie che anticiperanno l'arrivo di Arpanet e successivamente Internet. I MUD rimangono giochi testuali fino all'arrivo, nel 1986 in versione beta, dell'avveniristica avventura cyberpunk della Lucasfilm intitolata Habitat, mai distribuita da noi. La trasformazione in MMORPG è merito, o colpa, di Richard Garrioth, che conia il termine nel 1997 in concomitanza del debutto di Ultima Online, gioco che di riflesso divenne almeno semanticamente il primo del suo genere. In questa nuova versione dei vecchi MUD, il focus è nel fornire ai giocatori una vera e propria vita parallela e virtuale. I primi MMORPG non hanno missioni vere e proprie e nemmeno una narrativa forte, inoltre l'evoluzione del mondo di gioco non è condizionata dalle road map degli sviluppatori, bensì dagli stessi utenti. Sono proprio i giocatori che con le loro peripezie non obbligatorie possono cambiare il volto di intere regioni avviando un cataclisma, o persino richiamare l'attenzione di Darth Fener in persona, che parcheggiando il suo incrociatore fuori dall'atmosfera del pianeta, scenderà a terra per congratularsi con i suoi uomini per la nuova regione annessa all'Impero. Tutti eventi che accompagnano una quotidianità fatta di tanto lavoro ed effettivamente poche avventure, più qualche cattiveria pensata per offrire agli utenti un'esistenza virtuale più unica possibile. Pensate che in Star Wars Galaxies si poteva studiare da Jedi per anni, senza mai sapere con certezza se il personaggio creato aveva effettivamente le caratteristiche richieste per utilizzare la Forza. Bellissimo per alcuni, l'approccio era effettivamente un po' troppo hardcore per molti altri, ed è da questa tesi che nacque il gioco che cambiò per sempre il genere dei MMORPG: World of Warcraft.

Con World of Warcraft, Blizzard declina l'MMORPG per renderlo più inquadrato ed amichevole di quanto lo sia mai stato in passato, e ci riesce talmente bene da uccidere l'intero genere. World of Warcraft ci ha contemporaneamente dato e tolto tantissimo: le nuove missioni, questa volta vere e proprie missioni con una narrativa, rendono naturalmente il viaggio più epico, ma al tempo stesso abbattono l'unicità dei nostri personaggi, che si riscoprono così non più semplici cittadini di un universo parallelo, ma tutti eroi per obbligo di script. Proporre agli utenti una storia prestabilita coma fatto da Blizzard ha portato alla nascita anche di quella piaga chiamata end game. Con un mondo in costante mutamento in cui sono gli stessi giocatori a scriverne e a narrarne la storia, non può esserci una fine vera e propria, cosa che invece è inevitabile quando costruisci il tuo gioco come fatto da Blizzard nel 2004, e poi dai tanti che dopo ci hanno provato replicandone più o meno da vicino la formula. Con endgame si indicano tutte quelle attività che rimangono completabili quando il gioco termina, e che il più delle volte non sono altro che le stesse già fatte in precedenza, solo leggermente diverse o affrontabili a difficoltà più alte. La motivazione per andare avanti, nonostante trama e nuove avventure siano finite, si trovano in un equipaggiamento che continua a migliorare ancora per un po' ma che da solo non è mai sufficiente a tenere alto l'interesse della maggioranza degli utenti. Non ci sarebbe niente di scandaloso se l'endgame fosse un traguardo lontano, da raggiungere dopo un lungo mese di dedizione per esempio, ma da Destiny in poi il gran finale si è avvicinato sempre di più, rendendo questi giochi ancora più dipendenti dalle successive, e non ancora annunciate, espansioni. Il problema più grande, già visto in World of Warcraft e in tutti i giochi online con una narrazione molto forte, è che non esiste team di sviluppo in grado di creare contenuti alla stessa velocità con cui questi vengono poi consumati dal pubblico. Lo sbaglio quindi è all'origine, e sembra impossibile che nessuna software house non se ne sia accorta visto che di fallimenti che potessero fornire un esempio concreto ne abbiamo tanti, anzi tantissimi. C'è un motivo per cui World of Warcraft non ha mai avuto un seguito (una costola di Project Titan si è trasformata in... Overwatch!), se insomma la stessa Blizzard non è riuscita a creare qualcosa all'altezza del suo gioco più remunerativo, ed è lo stesso che ha impedito a Bioware e al suo Knights of the Old Republic in versione MMORPG di continuare a crescere con il vecchio modello di business incentrato sul pagamento di abbonamento mensile: l'incapacità di questa struttura di gioco di mantenere alto il numero di utenti attivi tra la fine dell'ultima avventura e l'inizio della nuova. È del tutto normale che questo accada, e avveniva anche prima che simili impostazioni prendessero piede, eppure si continua a ragionare e a sviluppare videogames senza prendere in considerazione queste normali contrazioni.

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Non solo poi si continua perseverando nello stesso errore, ma diminuendo sempre di più la quantità di contenuti offerti al lancio non si è fatto altro che esacerbare quel malcontento strisciante che coinvolge tutti, compresi i fan. Anche chi ha giocato centinaia di ore a Destiny ne critica lo sviluppo lento e altalenante, ma è un saliscendi emotivo che coinvolge gli utenti di qualsiasi MMORPG in miniatura, per una generazione di appassionati che sa trarre felicità da uno stato di perenne insoddisfazione. Per questo riteniamo che l'unico end game di qualità, è quello che di fatto non esiste. Per Anthem, utilizzare il medesimo approccio è ancor più grave, sia perché Bioware ha già sbagliato una volta con l'ultimo KOTOR, e poi perché nel corso del suo sviluppo è impossibile che nessuno, là in Canada, abbia preso nota dell'accoglienza riservata dal pubblico a giochi simili, e con gli stessi identici problemi della sua ultima fatica. Tutto questo è reso ancor più insopportabile dal fatto che Anthem non deve venderti nessun DLC, nessuna espansione, visto che saranno tutte gratuite come già da mesi annunciato da sviluppatore e publisher. Nessuno più di Anthem avrebbe potuto e dovuto puntare a una struttura più aperta, perpetua, facendo tesoro dei dolorosi fallimenti passati. Sia chiaro, nessuno vuole tornare al 2003, (anche se oggi, a nostro parere, un altro Star Wars Galaxies farebbe faville), ma da quei pionieri che hanno anticipato World of Warcraft c'è ancora molto da imparare e vorremmo finalmente vedere qualcuno tanto coraggioso da provarci (in realtà quel qualcuno c'è ed è Rare, ma Sea of Thieves si lega anche al Gamepass di Microsoft e di conseguenza risponde a tutt'altre esigenze). Che poi questa non è una critica da appassionati, fino ad ora non abbiamo ancora parlato del videogioco Anthem, concentrandoci sul business Anthem e dei suoi chiari limiti. Al videogioco, e al cortocircuito anticipato in apertura, ci arriviamo ora.

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Analisi logica

Anthem non è male, ve ne starete accorgendo da voi, ma larga parte della stampa specializzata sembra averlo designato martire, quindi sia vittima che eroe, dell'anno. Perché addossare proprio all'ultimo arrivato tutte le colpe che un intero genere si porta dietro da oramai un decennio? Beh, ma proprio perché è l'ultimo arrivato, e per questo avrebbe avuto tutto il tempo per rimediare agli sbagli passati. Il problema però è di coerenza: non importa se al gioco Bioware dai un 8, un 6 o addirittura un 5, quel che importa è essere in linea con i propri giudizi e pensieri passati, cosa che non sembra essere accaduta nei tanti esempi legati ad Anthem che siamo andati a scartabellare su Internet. Diciamoci la verità, i primi ad essere stati tratti in inganno dai tanti MMORPG Light come Destiny o il disastroso Fallout 76 sono gli stessi sedicenti critici che non sanno più capire quando un prodotto ha le forze per crescere, come Anthem, e quando semplicemente è nato morto, come nel caso dell'ultimo titolo Bethesda. Critiche insensate, o scarsamente motivate, hanno trascinato in quel calderone di "rant" anche chi invece, senza strapparsi i capelli, ha cercato di approcciarsi ad Anthem e agli altri in modo più analitico e distaccato. Analizzando il gioco Bioware secondo canoni semplificati o classici, potremmo tranquillamente dire che l'avventura è solida, che si spara bene, che con gli amici è impossibile non divertirsi, che i personaggi secondari raccontano belle storie e ti fanno immergere nella "lore" come nessun altro titolo simile è riuscito a fare, senza dimenticare quanto ti fanno sentire forte i javelin/strali e che poi... volano, e non si è mai volato meglio prima d'ora. Voto 7 o 7,5 a questo punto che differenza fa?

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Nessuna, rispondiamo noi, specialmente se poi la votazione muore affogata in un mare di insufficienze nella media redatta da Metacritic; specialmente se poi ci si rivolge a un pubblico che ha già deciso, a prescindere da tutto e tutti, che Anthem sarebbe stato il loro prossimo acquisto, se poi di acquisto possiamo parlare. Eccolo il cambio di paradigma che da oggi in poi, chi scrive di videogiochi (oltre a chi li sviluppa e li produce, naturalmente) dovrà obbligatoriamente tenere a mente: l'accessibilità si è praticamente azzerata. Giocare ad Anthem (insieme ad altri 177 giochi) su PC costa per esempio soltanto 3,99 euro, che è quanto chiesto da Electronic Arts per accedere al servizio EA Access per un mese, almeno due settimane in più di quelle necessarie per vedere il gran finale. E lo stesso accade con Sea of Thieves, Warframe, Apex e tutti i free-to-play. Quanto può rivelarsi un disastro un gioco da sconsigliarne il download gratis? Persino una debacle come quella di Crackdown 3 ha trovato un senso arricchendo il catalogo del GamePass, che poi è lo stesso identico ruolo che svolgono certi Netflix Original chiaramente di qualità inferiore alla media. A questo punto della storia, diventa molto più interessante approcciarsi a un prodotto scrivendone una sorta di analisi logica, anche se questo esercizio non è molto favorevole ad Anthem.

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Effettivamente, sotto una solidità apparente, sono enormi i passi falsi fatti in fase di progettazione e di design da Bioware, a cominciare dalla narrativa adottata che appare subito chiaro mal si sposa con la natura cooperativa del gioco. Non è possibile scaricare la colpa della difficoltà che lamentano molti nel seguire la trama di Anthem sugli amici che non stanno zitti, o che non vogliono prendersi un attimo di pausa dall'azione vera e propria, come abbiamo sentito da più parti. In realtà, l'errore è tutto di Bioware che ha concepito un gioco cooperativo che rende meglio se giocato con persone a caso, piuttosto che con gli amici. Certo, si può proseguire in parallelo, ma questo significa girovagare per il Tarsis da soli, ascoltando dialoghi per conto proprio, e per un bel po' di tempo. Quello che fa impazzire, è che Anthem è della stessa Bioware che con il suo Knights of the Old Republic in versione MMORPG ha di fatto creato i primi dialoghi multiplayer della storia, con risposte multiple di volta in volta affidate a un elemento diverso del party in base a punteggi e classe del personaggio. Nell'ultimo KOTOR si discute e si avanza nella trama tutti insieme, in modo sorprendentemente organico, mentre in Anthem si viene obbligatoriamente separati, per un errore macroscopico reso ben più grave dalle diverse soluzioni, qui totalmente snobbate, adottate in passato anche dalla stessa Bioware. Persino la mancanza di focus è un grande problema per Anthem che, pur cercando a tutti i costi di ripercorrere la strada tracciata da Bungie con Destiny, non s'accorge che il suo gioco votato al PVE ha ben altre necessità che ricordano spesso più Diablo. Ritrovarsi davanti alle classifiche sfide giornaliere, settimanali e mensile, trasmette poi un senso di dejavu insopportabile, reso ancora più pesante da una totale mancanza di fantasia nel design delle stesse: ma come si può, durante il primo mese di vita, proporre come sfida più importante il completare dieci volte quella meno importante? Lo stesso si può dire delle missioni proposte che, a differenza di quelle di Destiny per esempio, sono del tutte prive di una playlist emozionale in grado di trasmettere un reale senso di progressione, tanto che a volte si arriva alla fine senza nemmeno accorgersene. Il tutto si traduce quasi sempre nell'abbattere ondate di nemici che oltre ad essere alquanto anonimi nel design, presentano un'intelligenza artificiale che li rende nella maggior parte dei casi insopportabilmente statici e passivi. Questo però non significa che blastare settanta tonnellate di xenoschifi al fianco dei propri amici, ognuno nel suo javelin customizzato a dovere, non sia divertente o addirittura sconsigliato; solo che con un minimo di sforzo in più, le cose sarebbero potute essere molto ma molto più interessanti, oltre a indirizzare il gioco Bioware verso una traiettoria ascendente che lo avrebbe reso chiaramente migliore della concorrenza che si alternata sulle scene fino ad oggi, e che con attesi ed eventuali seguiti si prepara a rubargli il pubblico domani.

Anthem e la semplificazione dei MMORPG

L'amarezza di questi nuovi MMORPG in pillole sta nel fatto che in fondo si tratta sempre di grandi giochi incapaci, in un modo o nell'altro, di esprimersi a dovere. Le prime ore di gioco del primo The Division sono di una potenza unica, tanto che in testa non puoi che promettere a te stesso di giocarlo all'infinito; lo stesso avviene con il perfetto shooting dei due Destiny, in grado insieme a quell'art design di prima categoria di conquistare istantaneamente. Poi però si arriva alla fine, e l'insoddisfazione è garantita perché come sempre chi doveva impegnarsi a dare il meglio, in realtà si è limitato a fornire il minimo. Un esempio positivo però ce lo abbiamo, ed è quel Monster Hunter World con il quale è possibile giocare per 300 ore senza bisogno di un solo contenuto aggiuntivo. Ma anche al capolavoro Capcom manca qualcosa, ed è quell'approccio più dinamico che rende su carta così interessanti gli altri giochi, spesso catalogati come Games as a service per un motivo preciso.

Tirando le somme

Ci troviamo insomma davanti a un genere dalle potenzialità devastanti, ma che continua indefesso a sguazzare in una profonda mediocrità che sta trasformando l'amarezza di un'utenza che rimane comunque fiduciosa, in una rabbia che potrebbe portare a un'apatia cronica. Il tutto verso un'idea di gioco che chiaramente merita di più, come del resto lo meritiamo noi appassionati. È giusto guardare avanti, snellire i mille rivoli di gameplay di una volta per inseguire i gusti della massa attuale, al tempo stesso continua a confermarsi un errore a volte addirittura fatale l'esserci dimenticati quanto di buono è stato fatto in passato. Riscoprire un gameplay a moto perpetuo è solo il primo dei passi che questi mini MMORPG, se così vogliamo classificarli, devono fare per continuare a fare sfaceli in classifica sul lungo periodo; in caso contrario continueranno ad essere soltanto progetti in divenire per minoranze perseveranti, che forse è abbastanza per te che stai leggendo, ma non per un colosso dell'intrattenimento quotato in borsa.