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È giusto candidare i remake dei videogiochi al Game of the Year?

Per la seconda volta ai The Game Awards abbiamo un remake candidato al titolo di gioco dell'anno: è giusto portare queste operazioni in vetta al concorso?

SPECIALE di Lorenzo Mancosu   —   23/11/2023
È giusto candidare i remake dei videogiochi al Game of the Year?

Mentre nelle ultime settimane si discuteva della legittimità dell'operazione The Last of Us Parte 2 Remastered, nuova pubblicazione del colossal di Naughty Dog che a tre anni di distanza dal lancio originale vuole riproporne una versione potenziata, la questione delle riedizioni si è fatta strada fino a raggiungere il palco dei The Game Awards di Geoff Keighley. Molti appassionati hanno infatti storto il naso scoprendo che tra i candidati al premio per il Game of the Year avrebbe figurato anche il remake di Resident Evil 4 firmato Capcom, straniati dall'idea che la riedizione di un videogioco del passato dal comprovato successo possa "rubare" la nomination e l'onore a un'opera completamente originale.

Il caso è in realtà estremamente complicato, esattamente come complessa è l'interpretazione della moderna dicitura "remake". Il rifacimento della storica avventura di Leon Kennedy non è, infatti, una mera rielaborazione tecnica e grafica del codice originale volta a potenziare prevalentemente l'elemento visivo - come i lavori di Bluepoint Games che hanno recentemente ridato spolvero a Shadow of the Colossus e Demon's Souls - bensì un difficilissimo lavoro di ricostruzione che parte dalle fondamenta stesse del progetto, cambiando il design del gioco e incidendo direttamente sulle meccaniche. Ma se, in un certo senso, si tratta di una produzione completamente nuova, una che scientificamente non è poi così diversa da una fatica originale, c'è un'importante caratteristica che rende l'opera di Capcom una creatura atipica.

I remake di Capcom sono come videogiochi nuovi, dato che stravolgono l'architettura originale
I remake di Capcom sono come videogiochi nuovi, dato che stravolgono l'architettura originale

Il remake di Resident Evil 4 resta, infatti, pur sempre ancorato ai pilastri di design, al lavoro di concetto, all'immaginario e alla scrittura che nei primi mesi del 2005 permisero all'antico Resident Evil 4 di raggiungere uno straordinario successo di critica e di pubblico, prima di intascare addirittura diversi premi per il gioco dell'anno di riferimento. La situazione è esattamente identica a quella che si è verificata durante l'edizione 2020 dei The Game Awards, quando il Final Fantasy VII Remake di Square Enix fu trainato al centro della vetrina del medium in quanto riedizione di uno dei videogiochi più redditizi dell'era PlayStation, nonché il capitolo più amato di una saga che conta decine di milioni di adepti.

Sarebbe giusto, nel cinema, assegnare un Academy Award al remake di un film, magari di uno che ha già intascato quel premio e che è prodotto dalla medesima casa? La verità è che qualcosa di simile è già capitato durante la Notte degli Oscar: il The Departed di Martin Scorsese, rifacimento del film di Hong Kong Infernal Affairs, ha intascato la statuetta per il miglior film nel 2006, e non si è trattato assolutamente della prima reinterpretazione ad arrivare fino al grande palco di Los Angeles. La discussione, tuttavia, è tutt'altro che esaurita: è giusto candidare al premio per il gioco dell'anno i remake dei grandi videogiochi del passato?

Remake integrali e remake trasformativi

Ci sono remake come quello di Shadow of the Colossus che incidono esclusivamente sulla forma, lasciando invariata la sostanza
Ci sono remake come quello di Shadow of the Colossus che incidono esclusivamente sulla forma, lasciando invariata la sostanza

Al giorno d'oggi, l'operazione "remake" costituisce un ingranaggio fondamentale nel grande marchingegno dei videogiochi: nel cuore di un'epoca di profonda crisi creativa, laddove anche le più grandi software house faticano a realizzare successi, l'industria si è resa conto che il recupero delle pietre miliari del passato rappresenta un biglietto dorato per agguantare risultati garantiti. Ciò ha portato all'emersione di diverse operazioni di restauro che si possono sostanzialmente dividere in due macrocategorie: i rifacimenti più conservativi e quelli di natura profondamente trasformativa. La grande premessa che è obbligatorio fare concerne l'invecchiamento precoce dei videogiochi, specialmente di quelli pubblicati nella fase embrionale dello sviluppo in tre dimensioni: a differenza degli altri media - come i libri, i film, i fumetti e, perché no, anche gli album musicali - il videogioco è una forma espressiva che invecchia con una velocità spaventosa, portando persino opere universalmente acclamate a risultare impossibili da fruire per una ricca fetta del pubblico più giovane.

È dunque dall'alba dei tempi che i videogiochi vengono riproposti in versioni rinnovate una generazione dopo l'altra, con il fine di capitalizzare sugli enormi balzi tecnologici che per lungo tempo hanno caratterizzato l'industria, alzando il sipario su edizioni remake e minute riletture rimasterizzate. Negli ultimi anni si è tuttavia venuta a creare una frattura fra le produzioni che si limitano all'ammodernamento del comparto tecnico originale e quelle che invece mirano alla traduzione in chiave moderna della grammatica di gioco, arrivando a intervenire direttamente sulle meccaniche e talvolta anche sul tessuto della narrazione. Se, da un lato, alcuni sostengono che i remake integrali - come quelli di Bluepoint Games o di Vicarious Visions - siano quelli che maggiormente rendono onore all'opera originale rispettandone la struttura portante e compiendo un lavoro preservazione, dall'altro ci sono schiere di appassionati convinti che i remake trasformativi - come quelli di Capcom e di Square Enix - possano vantare la medesima dignità di un nuovo videogioco, e che pertanto siano da premiare come le migliori interpretazioni possibili di un rifacimento in chiave moderna.

Con il remake di Resident Evil 2 Capcom ha fissato un nuovo standard aureo di queste operazioni
Con il remake di Resident Evil 2 Capcom ha fissato un nuovo standard aureo di queste operazioni

Ovviamente, nulla è solo bianco o nero: ci sono casi come quello dello Shadow of the Colossus del Team Ico in cui è sufficiente passare una mano di vernice sui modelli e sulle texture, aggiornare il sistema di illuminazione e svecchiare i controlli, prima di trovarsi per le mani un'opera perfettamente fruibile dal pubblico contemporaneo, a ulteriore testimonianza della modernità intrinseca nella pubblicazione originale. Ce ne sono altri, come quello della serie di Resident Evil, in cui le possibilità offerte dalla messa in scena e dalla resa meccanica dell'azione contemporanea chiamano invece a gran voce un pesante intervento trasformativo. In altre occasioni ancora, come quella di Final Fantasy VII Remake, il cambiamento è il frutto di una scelta convinta e ponderata: visto e considerato il recente successo di Baldur's Gate III, probabilmente Square Enix avrebbe potuto optare per un adattamento in alta definizione della sua vecchia ricetta isometrica tra super deformed e pixel art, conservando anche il tanto discusso combattimento tattico, ma ha invece optato per un'inedita formula a base d'azione cinematografica che sceglie anche di revisionare la trama originale.

Esistono davvero dei remake che hanno maggiore dignità artistica rispetto ad altri, e se esistono quali sono? Quelli che mirano alla preservazione dell'opera originale, oppure quelli che mettono in piedi il più incisivo lavoro di trasformazione? Al momento sembra che la comunità dei videogiocatori e degli addetti ai lavori abbia scelto tacitamente di garantire l'onore di puntare al titolo di Game of the Year solamente ai rifacimenti più incisivi, quelli che traducono secondo il linguaggio moderno i grandi capolavori del passato, di fatto rendendoli delle esperienze in equilibrio sul confine della novità assoluta. Ma se, da una parte, in quanto "nuovi" videogiochi è più facile che facciano breccia nelle file del pubblico, dall'altra rischiano di avallare un fenomeno che potrebbe rivelarsi controproducente per la maturazione dell'industria.

Il problema sistemico dei remake dei videogiochi

Il remake di Final Fantasy VII è uno dei titoli di maggiore successo nella storia recente di Square Enix
Il remake di Final Fantasy VII è uno dei titoli di maggiore successo nella storia recente di Square Enix

A preoccupare è la frequenza sempre maggiore con cui le edizioni remake si stanno facendo strada fino ai piani alti del mercato, siano essi il palco dei The Game Awards o le vette delle classifiche di vendita dei software. Ultimamente capita sempre più spesso di analizzare rifacimenti di pietre miliari che macinano risultati alieni rispetto alle nuove IP del medesimo publisher, come accaduto nel corso della storia recente di Square Enix: il remake di Final Fantasy VII ha infatti venduto - per il momento - più del doppio delle copie sommate del recente Final Fantasy XVI e del tanto criticato Forspoken. È facile cadere nella trappola e ritenere questo trend una benedizione, l'unico deux ex machina capace di far tornare le software house più blasonate "sulla retta via", senza tuttavia tenere in considerazione i pesanti effetti collaterali di tali risultati: il messaggio che rischia di passare è che il grande successo risiede unicamente nel passato, avviando anelli di produzione ciclica che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero optare per la costante riproposizione di prodotti dal comprovato successo.

Oggi il remake di Resident Evil 4 siede (forse) meritatamente fra i candidati al titolo di gioco dell'anno. E se invece, nel 2026, ci trovassimo di fronte a una situazione in cui tra le sei nomination dei The Game Awards figureranno un rifacimento di The Legend of Zelda: Ocarina of Time, uno di The Elder Scrolls III: Morrowind e uno di Final Fantasy IX? Si tratta ovviamente di un'estremizzazione, ma di fronte a una casistica simile sarebbe molto difficile scegliere consapevolmente di non premiare il ritorno trasformativo di una straordinaria pietra miliare, specialmente in un contesto storico in cui - tanto sul piano creativo quanto su quello finanziario - è estremamente rischioso presentarsi sul mercato con grosse IP AAA del tutto originali che siano in grado di competere con i giganti.

Nel futuro ci sono tantissimi remake in arrivo, come per esempio quello di Metal Gear Solid 3: Snake Eater
Nel futuro ci sono tantissimi remake in arrivo, come per esempio quello di Metal Gear Solid 3: Snake Eater

Dal 2020 a oggi sono state pubblicate 125 edizioni remastered e remake di videogiochi tripla A, di cui 45 solamente nel 2020, l'annata che più d'ogni altra ha cementato l'impatto commerciale di questo genere di operazioni. Tra queste, la formula del remake profondamente trasformativo - in passato una rarità assoluta - si sta facendo sempre più comune, basti pensare alle sole pubblicazioni del 2023, mentre osservando l'orizzonte sembra evidente che tale fenomeno stia per conoscere una nuova impennata. Konami sta per riproporre classici del calibro di Silent Hill 2 e Metal Gear Solid 3, Square Enix pubblicherà presto Final Fantasy VII Rebirth e ha già iniziato a parlare di eventuali riedizioni del sesto, dell'ottavo e del nono capitolo della saga, il leggendario Gothic si appresta a fare il suo ritorno, così come il desaparecido Prince of Persia: The Sands of Time di Ubisoft - che in cantiere ha anche un rifacimento di Tom Clancy's Splinter Cell - mentre CD Projekt RED ha già confermato i lavori sul grande restauro del primo capitolo nella serie di The Witcher.

A fronte di operazioni virtuose come quelle realizzate da Capcom - che non ha mai cessato d'inseguire il futuro con le sue IP in costante crescita - diventa sempre più difficile trovarsi di fronte a rifacimenti che siano realmente necessari, ovvero utili per adeguare alle esigenze del pubblico moderno i grandi capolavori che sono invecchiati al punto tale da risultare inservibili. Il remake, esattamente come la riedizione, è oggi spesso letto come uno strumento per capitalizzare sulla nostalgia, o magari per tappare i "buchi" di pubblicazione che si stanno facendo di anno in anno più estesi, in un'epoca in cui occorre almeno un lustro prima di immettere sul mercato il nuovo episodio di una serie affermata. Il rischio più grande, nell'arco di qualche anno, è quello di assistere alla virata di tutti i grossi publisher in difficoltà - quelli che stanno faticando a replicare il grande successo del passato per mezzo delle nuove IP - verso un modello a maggioranza di riedizioni, tentando di ricostruire artificialmente l'età dell'oro che li ha resi ciò che sono oggi.

Remake e il gioco dell'anno

Baldur's Gate III pesca a piene mani dal passato, ma lo utilizza per plasmare un futuro diverso
Baldur's Gate III pesca a piene mani dal passato, ma lo utilizza per plasmare un futuro diverso

L'atto di candidare un remake - per quanto trasformativo - al titolo di gioco dell'anno costituisce di riflesso un difficile dilemma morale, perché se da una parte si sceglie di premiare un lavoro non dissimile da quello che caratterizza l'emersione di qualsiasi IP originale, dall'altra si finisce per avallare una corrente che spesso rema in senso contrario rispetto all'evoluzione del medium. Senza contare che queste produzioni stanno già ricevendo un grande riconoscimento attraverso l'accettazione incondizionata del mercato, che risponde positivamente alle operazioni nostalgia generando flussi di cassa consistenti a fronte di investimenti decisamente contenuti. In parole povere, i remake sono creature utili e affascinanti, riescono a catturare l'attenzione degli appassionati e meritano un plauso quando riescono a comunicare i capolavori del passato alle nuove frange del pubblico, ma il conferimento della massima onorificenza di stampo critico sembra un passo eccessivo, forse anche controproducente.

Tra i candidati al titolo Game of the Year, quest'anno, figura anche Baldur's Gate III: Larian Studios, forte della sua storia quasi trentennale, avrebbe potuto facilmente confrontarsi con un remake dei capitoli passati, così come avrebbe potuto schivare la difficile rivoluzione di Divinity Original Sin, invece ha deciso di recuperare delle formule antiche, di sezionarle secondo la propria visione creativa e di ricomporle per proiettarle nel futuro dell'industria. La stessa cosa che ha fatto il vincitore dello scorso anno, Elden Ring di FromSoftware, maturato da una costola di quella saga dei Souls che, a suo tempo, ha sfruttato un vecchissimo modo di concepire i videogiochi - risalente al dimenticato King's Field - per dare i natali a un intero genere inedito. Forse, come accade in tutti i media, le grandi rivoluzioni si nascondono nelle pieghe della storia e la storia è inevitabilmente ciclica, ma c'è una grossa differenza tra una riproposizione in chiave contemporanea e lo sfruttamento del passato come strumento per plasmare un futuro diverso.