Quando ci approcciamo a qualsiasi opera dell'ingegno, creata dall'uomo per intrattenere i suoi simili durante la più o meno lunga attesa di divenire polvere, lo facciamo per diversi motivi. Il più delle volte, vi incappiamo per caso (come quando, dopo aver visto un film che passava in televisione, ci accorgiamo che l'ha girato questo o quest'altro regista), ma altrettanto spesso siamo attirati per le più svariate motivazioni (apprezziamo lo stile dello scrittore, conosciamo l'intera discografia del cantante e così a seguire). Per i videogiochi, questo processo si concretizza più di rado, vuoi perché la gran parte del pubblico di riferimento non è interessata a tal punto da conoscere sempre la storia di chi gli sta proponendo l'esperienza di gioco, vuoi perché molte case di sviluppo hanno avuto storie travagliate, fatte di cambi di bandiera repentini, chiusure improvvise, voli pindarici tra generi e prodotti.
Il mondo dei videogiochi ha una caratteristica peculiare che la differenzia, in parte, da altre realtà produttive: la casa di sviluppo, spesso, è più importante dei singoli autori. A parte alcune eccezioni (che negli ultimi anni sta tornando ad assumere una sempre maggiore rilevanza nel settore e nelle immediate vicinanze), tendiamo ad associare un videogioco più alla software house che non al direttore creativo, artistico o al designer. Il videogioco subisce un po' il processo che ha sempre caratterizzato gli studi di animazione: il nome del singolo tende a sparire per lasciare spazio all'intero conglomerato produttivo. La massa diviene entità. Come di Dreamworks o Disney o chicchessia conosciamo la filmografia (almeno nei suoi assunti più generali) e facciamo associazioni con i precedenti lavori quando un loro nuovo film raggiunge il grande schermo, anche con le case di sviluppo videoludiche ritroviamo un tale comportamento (il nuovo gioco di Rockstar Games, la nuova proprietà intellettuale di Naughty Dog, il colpo di coda di Playground Games). Questo perché ritroviamo una continuità tra le diverse opere, che sia stilistica, narrativa, tecnica. L'esperienza pregressa è un elemento fondamentale per qualsiasi creatore. Fare esperienza è il carburante che permette all'intero macchinario creativo di trovare nuove vie per esprimere concetti inamovibili sin dall'alba del pensiero logico. E proprio di ciò vorremmo parlarvi in questa sede: dell'importanza dell'esperienza, non solo per chi crea, ma anche per chi recepisce il messaggio. Lo faremo mettendo sotto la lente del microscopio il campione d'incassi Hogwarts Legacy, videogioco fresco di masterizzazione sviluppato da Avalanche Software, uno studio specializzato in produzioni all'apparenza molto diverse da quest'ultima, ma nell'essenza estremamente affini.
Avalanche Software: una storia per famiglie
La storia di Avalanche Software assomiglia a quella di molte altre case di sviluppo. Fondata nel 1995 da quattro sviluppatori precedentemente impiegati presso Sculptured Software, i primi progetti a cui ha preso parte sono stati conversioni di videogiochi (anche di un certo spessore) tra cui spiccano nomi come la Mortal Kombat Trilogy. Dopo alcuni lavori agli inizi del millennio, ai quali era stato affidato loro lo sviluppo, la svolta arriva nel 2005 con l'acquisizione dello studio da parte dell'allora Buena Vista Games (in seguito Disney Interactive Studios). Da qui inizia la loro carriera con titoli su licenza Disney, da Chicken Little a Toy Story 3, fino ad arrivare al malinconico successo di Disney Infinity.
Poi, la battuta d'arresto: nel 2016 la casa di Topolino decide di chiudere il suo reparto videoludico, interrompendo il supporto per il videogioco toy-to-life e liquidando anche Avalanche. Ma non tutti i mali vengono per nuocere. Neanche un anno più tardi, infatti, Warner Bros. Interactive Entertainment acquista lo studio e lo apre nuovamente sotto la direzione di uno dei fondatori, John Blackburn, affidandogli il primo videogioco su licenza Disney non pubblicato dalla stessa, ovvero il tie-in di Cars 3. Dopodiché ci sono stati alcuni anni di silenzio radio fino al 2020, quando, durante l'evento PlayStation 5 di settembre, è stato annunciato Hogwarts Legacy.
Siamo arrivati a febbraio 2023, il gioco basato sull'universo di Harry Potter è arrivato sugli scaffali e in migliaia si stanno perdendo nell'affascinante mondo creato da Avalanche Software. Ma tra le mille scorribande per le Highlands, gli scontri mortali a colpi di Crucio e Avada Kedavra e le "braciolate" draconiche a base di carne umana, si riesce a percepire un velo di spensieratezza e leggerezza, di ritorno a un passato da molti dimenticato: un ritorno a una condizione infantile che soggiace le nostre più accorate rielaborazioni esperienziali.
Un nucleo di corda di cuore infantile
Hogwarts Legacy è (e lo diciamo con il più alto rispetto possibile) un gioco per bambini e ragazzi. Come il lupo travestito da agnello, il nuovo titolo di Avalanche Software richiama persone adulte a immergersi completamente in un'avventura che ha la struttura di molti di quei tie-in di tradizione disneyana sui quali i più sorvolerebbero senza neanche posarci sopra lo sguardo per un secondo. Ma, con un po' d'attenzione, è inevitabile ritrovare alcuni di quei dettami cari ai videogiochi per famiglie (per carità, anch'essi fedeli a caratteristiche provenienti da tutt'altre produzioni videoludiche, il più delle volte ruolistiche o d'azione/avventura).
Hogwarts Legacy è un videogioco "attento", nel senso che ha scrutato per bene il clima interno all'industria e si è adattato di conseguenza, proponendo un'esperienza che presenta tutto ciò che contraddistingue oggigiorno un'avventura a mondo aperto, con un'unica, macroscopica eccezione: il poter contare su un nome altisonante, che farebbe rabbrividire qualsiasi avversario commerciale. Tuttavia, non si è limitato unicamente a questo. Avalanche ha scavato nel suo passato e ha implementato elementi provenienti dalla sua storia. Per quanto si possa uccidere senza remore e in maniera esplicita i propri nemici, torturandoli perfino, è indubbio che l'atmosfera generale sia per lo più gioviale.
Completare gli incarichi per ottenere qualcosa in cambio (che sia un artefatto digitale, il raggiungimento di un obiettivo immateriale o l'ottenimento di una ricompensa emotivo-sensoriale) è alla base di qualsiasi videogioco, ma è il modo in cui si propone tale attività a fare la differenza. L'intervento registico sullo scambio di battute, la lista di cose da fare, la ricompensa finale sono tutti elementi che concorrono a creare associazioni con altre esperienze simili. Un professore di Hogwarts che ci chiede di completare gli incarichi a noi assegnatici prima di poter imparare un nuovo incantesimo non fa venire tanto in mente una qualsiasi missione di un The Elder Scrolls o di un World of Warcraft, quanto quei momenti un po' ingessati e apparentemente ingiustificati di molti videogiochi pensati (principalmente) per i più piccoli, da Cars alle Bratz.
Il modo in cui vengono poste queste missioni, la loro collocazione nello spazio (personaggi immobili che attendono vita natural durante il nostro arrivo e ritorno), la loro inflessione, le motivazioni, il carattere della ricerca basato su abilità acquisite all'interno e all'esterno del gioco: non siamo di fronte al classico gioco di ruolo, ma all'evoluzione che ha subito negli anni per adattarsi non solo a un pubblico più vasto e variegato, ma anche a una clientela di giovani menti che non cercano tanto la complessità concettuale del compito, quanto il mezzo per portarlo a termine.
Così, quando passiamo per la centomillesima volta nella zona dove è nascosta una delle Gobbiglie di Zenobia (cosa che il nostro personaggio sottolinea con le stesse identiche parole ogni volta) la nostra mente vola indietro nel tempo e ci riporta alle missioni proprio del Toy Story 3 di Avalanche Software, ridondanti, roboanti, assillanti nella loro costante reiterazione dell'impegno che abbiamo, nostro malgrado, preso premendo un pulsante al momento sbagliato. Ma la questione che ci preme sottolineare non si ferma solo qui: è molto più stratificata e si nasconde nelle pieghe più particolari e iconiche di Hogwarts Legacy.
Il ritorno della Scatola dei Giochi
Non molti avranno familiarità con la Scatola dei Giochi. Non stiamo parlando unicamente del concetto di sandbox (inflazionato al giorno d'oggi), quanto di una delle modalità di gioco di Toy Story 3. Oltre all'avventura principale, infatti, il tie-in dedicato al terzo capitolo della celeberrima proprietà intellettuale Pixar proponeva una sorta di sezione a mondo aperto dove si poteva creare sostanzialmente la propria cittadina da Vecchio West, andando a modificare edifici, colori, abitanti ed evocando un gran numero di attrezzi, veicoli e armi con i quali seviziare i piccoli cittadini senza rimorsi o completare brevi missioni, sfide e quant'altro. Inutile dire che questa modalità è quella che ha riscosso più successo, mettendo la storia in secondo piano e dando una bella smossa alla casa di sviluppo che, infatti, poi si è impelagata nell'ambizioso progetto Disney Infinity, una sorta di evoluzione di questa piccola sezione accessoria creata solo per far durare un po' più a lungo l'interesse da parte dei piccoli fruitori.
Facciamo un salto temporale di dieci anni ed eccoci a Hogwarts, davanti alla porta della Stanza delle Necessità che si è appena rivelata a noi. Un pensiero ci riporta inizialmente ai lidi (più vicini al nostro tempo) dell'ultima iterazione di Animal Crossing, ma poi la mente inizia a scavare più a fondo nelle percezioni senso-motorie che ci derivano dal modificare e arredare quella ristretta area dove tutto ciò che si trova all'esterno scompare (un vero e proprio gioco nel gioco). Quelle imposte in legno che cambiano colore, quelle sedie e quei banchi da lavoro. Abbiamo già visto tutto ciò. E "tutto ciò" si rivela essere quella Scatola dei Giochi che si trovava in un gioco "per bambini".
Il cervello fa inizialmente cortocircuito mentre cerca di associare queste informazioni a un videogioco dove si può lanciare un incantesimo che uccide all'istante i propri nemici (non li fa scomparire in mille coriandoli o li fa volare via con un verso simpatico, li fa crollare a terra morti). Eppure, dopo lo shock iniziale, ci accorgiamo che Avalanche è riuscita a creare un "terzo spazio", una terra di confine, un luogo "altro", dicotomico con le atmosfere del titolo, ma allo stesso tempo stranamente assonante. La cura del proprio spazio diventa, poi, cura dei propri animali, "salvati" dalle grinfie dei bracconieri che infestano le terre scozzesi. Facciamo apparire spazzole volanti e lanciamo in aria mangime magico, giochiamo a palla con strani esseri tondi o dai grandi occhi, il tutto con un commento musicale che dire associabile alle esperienze disneyane sarebbe un eufemismo. Dov'è, in questo caso, il target, il pubblico di riferimento?
Sia la saga letteraria che cinematografica di Harry Potter hanno compiuto più di vent'anni. Entrambe sono cresciute con i propri lettori, diventando più cupe e adulte con il passare degli anni. Abbiamo la spensieratezza un po' inquietante del primo e secondo anno unito alle turbe adolescenziali dei restanti, fino alla consapevolezza della perdita insita nella vita dei giovani adulti. La stratificazione comunicativa del mondo creato da Rowling supera qualsiasi barriera e parla tanto all'infante quanto all'anziano. Quindi come approcciare la creazione di un videogioco basato su questo mondo? Quanto in là posso spingermi per attirare tutti quei giocatori che sono abituati a sangue e viscere digitali? È sicuramente una domanda che si sono posti negli studi di Avalanche Software e che ha portato al raggiungimento di un comune accordo, a metà strada tra generazioni così discordanti che spesso non sono neanche in grado di decifrare i messaggi che cercano quotidianamente di scambiarsi tra loro (non a caso, il gioco ha ottenuto una classificazione PEGI 12).
Il pregio di Hogwarts Legacy è la sua potenziale capacità di attrarre chiunque, di spingere a esplorare un mondo "adulto" con gli occhi di un bambino. Così, trovi trentenni, con impassibile fare superiore dinanzi ai "giochi per bambini" di cugini e nipoti, passare ore ad accudire animali fantastici nella Stanza delle Necessità, come se quell'esperienza fosse più legittima di quella che fanno quotidianamente i più piccoli con la valanga di giochi su licenza che invadono l'universo "parallelo" degli store digitali.
Tornare bambini, ancora e ancora
Hogwarts Legacy è una produzione mastodontica, gargantuesca in confronto a un qualsiasi altro tie-in citato durante questo articolo, ma, nel profondo, oltre gli strati di Maledizioni Senza Perdono, di bestie fameliche, di ragni ripugnanti, troviamo la sua vera essenza, fatta di un'esperienza pregressa che scalcia e scalpita, desiderosa di liberarsi dall'incanto che la vuole tenere velata. Troviamo Toy Story 3, Disney Infinity, Bolt. Troviamo la storia di una casa di sviluppo e di come grandi imprese possano arrivare anche dai luoghi più inaspettati. E ritroviamo anche una parte di noi stessi, magari senza neanche accorgercene. Ritroviamo il piacere di lasciarci stupire, di fermarci a osservare piccolezze, di giocare di ruolo andando a costruire quell'identità proiettiva di cui parla James Paul Gee in un suo puntuale saggio, di gestire buffe creature che sembrano uscite da un libro di Roald Dahl, di riconoscere scenari fantasticati a partire dalle parole o veicolati dalle immagini in movimento di uno dei fenomeni socio-culturali più pervasivi della storia recente.
E che importa se ci troviamo a compiere incarichi per pali della luce antropomorfi che chiedono il nostro aiuto tra i corridoi della scuola di magia e stregoneria più famosa al mondo. Che importa se passiamo ore in una frazione di un mondo parallelo ad arredare uno spazio dissonante rispetto a tutto ciò che abbiamo appena compiuto. Quando si è in grado di ritrovare una piccola parte di noi stessi, quel bambino che scalcia e scalpita anche nelle nostre di viscere, tutto il resto è poca cosa in confronto al più potente degli incantesimi: la meraviglia.