Quando alla fine del 2022 abbiamo stilato la classifica dei migliori videogiochi open world dell'annata, ci siamo trovati di fronte a una situazione molto particolare. Se da una parte il Game of the Year - ovvero Elden Ring - si è presentato al pubblico forte di un immenso e coinvolgente mondo aperto, accanto a lui hanno faticato a emergere altre produzioni eccellenti legate a tale struttura. Anzi, è capitato che molti titoli trovassero grosse criticità proprio nell'architettura open world, e non stiamo ammiccando solamente a produzioni discusse come Gotham Knights o Saints Row. Allo stesso modo, il 2023 ha alzato il sipario su un Hogwarts Legacy che, pur consegnando nelle mani degli appassionati l'avventura tematica che avevano sempre desiderato, ha evidenziato ancora una volta i limiti delle più tradizionali mappe sconfinate, inciampando a tratti nella medesima ripetitività di fondo che ormai da anni segna tale corrente creativa.
Sembra che il destino dei videogiochi open world sia sostanzialmente ancorato a due strade: talvolta si rivelano successi straordinari, mentre con maggior frequenza incontrano evidenti punti deboli proprio nelle pieghe del tanto agognato mondo aperto. La domanda sorge spontanea: perché alcuni titoli open world dominano le classifiche dei GOTY e altri cadono rapidamente nel dimenticatoio? Come mai quando viene pubblicata la notizia che un'esperienza opterà per il mondo aperto sentiamo un brivido correre lungo la schiena? Probabilmente la risposta si annida nella standardizzazione che ha segnato questo genere di struttura, ormai estremamente inflazionata nonché legata a doppio filo con una formula troppo spesso uguale a sé stessa, arcaica, mai distante dalle fondamenta erette dai pionieri della categoria.
Capita spesso di svalutare i mondi aperti che riprendono l'ormai antico stile del capostipite Assassin's Creed, altri più vicini alla vecchia ricetta di Far Cry, altri ancora che tendono a farcire le mappe con tonnellate di punti d'interesse, nella maggior parte dei casi tutt'altro che interessanti. Le esperienze che riescono a coniugare la complessità di una componente narrativa profonda con la dispersività tipica della mappa aperta sono oasi nel deserto, mentre sono ancor più rari i casi di produzioni che riescano a regalare un senso compiuto alle traversate, trasformando un elemento fondamentale dell'amalgama in puro e semplice riempitivo. Quello di realizzare un eccellente videogioco open world è diventato un compito estremamente complicato, al punto che la deriva più amata dal pubblico di massa ha finito per trasformarsi in un rischio strutturale.
Eppure, come detto, resta sempre e comunque la deriva più amata dal pubblico, tanto che gli ultimi quindici anni sono costellati di straordinari successi che hanno imboccato decisi la direzione del mondo aperto, raggiungendo risultati ineguagliabili tanto sul piano critico quanto su quello commerciale. Ci siamo chiesti, di conseguenza, quali sono i migliori videogiochi open world da cui bisognerebbe ripartire, ma soprattutto perché siano riusciti a eccellere nella formula di riferimento, caratterizzando in modo impeccabile l'ambientazione e consentendole di accogliere efficacemente tutte le meccaniche del caso.
Outer Wilds: la guerra tra storia ed esplorazione
Mobius Digital, con il suo Outer Wilds, è riuscita a imbrigliare le meccaniche tipiche del metroidvania in un costrutto capace di sostituire i classici "power-up" con la mera conoscenza accumulata dal giocatore. Ciò ha trasformato il suo mondo aperto - ovvero un piccolo sistema solare - in uno scrigno colmo di segreti che, oltre a mettere in scena un genere d'esplorazione mai vista prima, costituisce al tempo stesso la spina dorsale del gameplay e del tessuto del racconto. Nell'opera prima di Alex Beachum la componente narrativa e l'esplorazione del mondo sono diventate tutt'uno, forze pronte a remare nella medesima direzione anziché mettersi i bastoni fra le ruote l'un l'altra.
Se nei classici titoli open world capita di viaggiare costantemente dal punto A al punto B, qui tale viaggio è sempre il frutto di una scoperta, e le informazioni si annidano in ogni metro quadrato di ciascuno dei pianeti che punteggiano l'opera. Nei confini dei tradizionali mondi aperti capita molto raramente di avere un lampo d'illuminazione, di abbandonare in fretta e furia il luogo in cui ci si trova per puntare una direzione ben precisa, consapevoli di aver appena svelato un mistero apparentemente irrisolvibile. Capita ancor più di rado di raggiungere una nuova sezione della mappa non perché si è ottenuto un particolare strumento o un potenziamento delle abilità, ma perché si è letteralmente compreso un concetto astratto. Insomma, tutti i videogiochi che puntano alla messa in scena di una narrativa coinvolgente in una mappa estesa dovrebbero prendere esempio da Outer Wilds.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild: sei sempre nel posto giusto
I meriti di The Legend of Zelda: Breath of the Wild sono sotto gli occhi di tutti: la perfetta sintesi tra l'anima sandbox e il motore chimico ha prodotto un'esplosione di gameplay emergente capace di premiare la creatività e aprire a un immenso ventaglio di soluzioni non convenzionali. L'ultima incarnazione del Regno di Hyrule è sì un immenso parco giochi votato alla trasformazione della fantasia in realtà, ma brilla soprattutto perché sorretto da un'interpretazione molto particolare del mondo aperto.
Nei panni di Link ci si trova infatti sempre nel posto giusto al momento giusto: regalando nuova linfa vitale alla celebre frase "se puoi vederlo, puoi raggiungerlo", gli artisti di Nintendo hanno assemblato una mappa scevra di zone morte, costellata di piccole e grandi interazioni che fanno sentire il giocatore sempre nel cuore dell'azione, a prescindere dalla direzione che decida di imboccare. La produzione del colosso giapponese è sempre stata legata a doppio filo con il più puro e semplice concetto di gioco, e nel mondo di The Legend of Zelda: Breath of the Wild non si smette di giocare nemmeno per un istante. Anziché ancorarsi ai più classici punti di interesse segnalati che hanno imperversato fin dagli esordi di Assassin's Creed, è ciascuna piccola interazione a dover risultare interessante e stimolante nella sua essenzialità.
Red Dead Redemption 2: il mondo è vivo
Sono tantissimi i motivi per cui Red Dead Redempion 2 si è ritagliato uno spazio nell'Olimpo del medium: può vantare personaggi scritti in modo impeccabile, una narrativa con pochi eguali, una lunga serie di valori produttivi che molto semplicemente sono fuori dalla portata delle tasche di altri attori del mercato. I Rockstar Studios, dal canto loro, non hanno mai avuto l'intenzione di realizzare una mappa aperta che fosse orientata a premiare il gameplay nudo e crudo, bensì una scenografia animata che ponesse l'immersione dinanzi a qualsiasi altro elemento, tratteggiando i confini di un mondo sul confine della realtà. I personaggi che vagano per cittadine come Valentine hanno delle case, delle famiglie, delle inesauribili routine che li portano a muoversi autonomamente e consapevolmente lungo i fondali della frontiera.
Ogni filo d'erba è realizzato con un livello di cura artigianale alieno agli standard del settore, ed è evidente che l'obiettivo della casa sia stato proprio quello di erigere la scenografia più imponente mai vista a corredo di una fra le storie più intriganti mai raccontate. In tale contesto intervengono i dettagli: capita di soccorrere uno straniero morso da un serpente e di incontrarlo nuovamente nel centro di un paesello, e sono dozzine di minuscole tessere di questo genere a infiocchettare i mosaico dell'avventura di Arthur Morgan. Prima della pubblicazione di Red Dead Redemption 2 si era riso e scherzato a lungo dei testicoli dei cavalli, che a detta degli sviluppatori sarebbero mutati per forma e dimensioni a seconda delle condizioni meteo. La verità è che, a posteriori, sono state proprio le dozzine di piccolezze di questo genere a trasformarla in un'opera monumentale.
Shadow of the Colossus: poesia in movimento
C'è dell'ironia nel fatto che, al giorno d'oggi, tendiamo ad attribuire una connotazione negativa ad aggettivi come "vuoto" nel contesto dei videogiochi open world. C'è dell'ironia perchéShadow of the Colossus, capolavoro di Fumito Ueda ancorato all'idea di un mondo semi-aperto, ha messo in scena tutta la poetica dell'autore in un contesto che si nutre della sua vacuità per restituire sensazioni uniche, mai più riprodotte nel confine del medium. L'avventura del giovane Wander spinge addirittura il giocatore a rimuovere dal mondo le poche creature che ancora lo animano, i Colossi, trasformandolo nello scheletro di un'ambientazione convenzionale.
Non ci sono nemici minori da sconfiggere, non ci sono missioni secondarie da intraprendere, non c'è quasi nulla che si muova oltre le saltuarie lucertole che incrociano il cammino del cavallo Agro. Le Terre Proibite se ne stanno lì, esistono, hanno ben poco da offrire oltre il proprio decadente splendore, eppure questo non è mai stato individuato come un punto debole della produzione, anzi. Shadow of the Colossus fa riflettere: ci sono mondi virtuali pieni zeppi di contenuti che soffrono terribilmente a causa di tale densità, ce ne sono altri totalmente spogli che riescono ad incantare grazie al peso della propria nuda atmosfera.
The Witcher 3: Wild Hunt: storie di umani in un mondo di mostri
Il medioevo oscuro che dipinge i fondali di The Witcher 3: Wild Hunt non mirava a incarnare un mondo aperto che fosse totalmente privo di elementi trascurabili, tanto che le sue regioni sono pregne di tane di mostri e insignificanti punti d'interesse. Tuttavia, dalle paludi di Velen fino alle vette delle isole Skellige, il centro del palcoscenico è sempre occupato dalle vicende dei personaggi. Quando si pensa a Nido del Corvo salta subito alla mente il Barone Sanguinario, osservando Novigrad non si può far altro che pensare a Triss Merigold e Sigismund Dijkstra, ciascun villaggio che sorge in mezzo ai campi di battaglia custodisce racconti unici e personali, capaci di caratterizzare profondamente ciascuna architettura che svetta nel mondo aperto.
The Witcher 3: Wild Hunt è l'esempio perfetto di un gioco di ruolo che è riuscito a mettere il mondo aperto al servizio della narrativa, anziché intenderlo come un'appendice di mero gameplay che si limitasse ad accogliere attività riempitive. Un grande esempio di questa filosofia si può ravvisare nella missione del Barone Sanguinario, che tutto a un tratto priva il giocatore di un obiettivo principale e gli suggerisce di "cercare informazioni nel Velen", spingendolo a inseguire le attività secondarie per poter proseguire nella trama. Forse è in iniziative di questo genere che si nasconde il segreto per coniugare anche i più estesi mondi aperti al racconto di una storia impattante; allargando l'obiettivo, il lavoro di CD Projekt RED ha scelto di mettere in scena poche missioni secondarie profonde invece di inseguire la quantità a ogni costo.
Elden Ring: ritorno al passato
Elden Ring è stato traghettato fino alla statuetta del Game of the Year da una lunghissima serie di elementi distintivi. Certo, il fatto di essere l'ultima produzione di uno studio venerato come FromSoftware, per di più sorretta dalla pesante eredità dei "soulsborne", ha giocato un ruolo determinante. Ma la scelta di tradurre le meccaniche oscure, l'interfaccia asciutta e la criptica costruzione del level design nei confini di un'enorme mappa aperta, ha riportato l'avventura del Senzaluce in una dimensione che appartiene al passato del medium. Una dimensione fatta di esplorazione tutt'altro che guidata, di piccole scoperte capaci di meravigliare, di ardue sfide volenterose di mettere alla prova il giocatore per poi premiarlo con un impagabile senso di soddisfazione.
Elden Ring ha recuperato le antichissime architetture spoglie di segnalini da visitare e navigatori da inseguire, sostituendoli con un ammaliante paesaggio capace di catturare costantemente l'attenzione del giocatore attraverso la sola potenza delle immagini. I segreti potrebbero nascondersi ovunque, il sentiero della trama si sviluppa lungo un percorso radiale che consente quasi sempre di imboccare una direzione diversa, e non esiste contenuto celato nell'Interregno che non premi il giocatore con una ricompensa degna di questo nome. Gli autori hanno preso i giocatori, li hanno piazzati ai confini di un mondo immenso e li hanno invitati ad andare ovunque volessero, a giocare nel modo che preferissero, senza mai comunicargli più di quanto fosse necessario, investendoli della fiducia che la maggior parte degli altri sviluppatori, da ormai troppi anni, hanno scelto di non riservargli più.
Death Stranding: dal punto A al punto B
Death Stranding è stato un videogioco capace di spaccare esattamente a metà la comunità degli appassionati: da una parte c'è stato chi lo ha amato alla follia, mentre dall'altra c'è chi è tutt'ora convinto che se in calce all'opera non figurasse il nome di Hideo Kojima il suo gameplay sarebbe stato stroncato senza esitazione. Quello di "Traversal Gameplay" è un concetto che assume diverse connotazioni nell'ambito del design dei videogiochi, ma nel contesto delle architetture open world indica sostanzialmente tutto ciò che accade, e il modo in cui ciò accade, mentre ci si muove dal punto A fino al punto B. La grande particolarità di Death Stranding è che ha ricamato il nucleo stesso del gameplay attorno alle traversate, trasformando l'atto di muoversi dal punto A al punto B nel pilastro portante della produzione.
Se la sua ambientazione è spoglia e aliena è proprio per acclimatare il giocatore a un racconto che non potrebbe ancorarsi a strutture differenti - dal momento che mira a puntare i riflettori sulla solitudine, sulle distanze e sulla difficoltà nel colmarle - il tessuto del giocato si muove a suo modo verso il medesimo risultato. Insomma, che piaccia o meno, è un titolo che è riuscito a raggiungere tutti gli obiettivi che l'autore si era prefigurato, adottando soluzioni così distanti dagli standard da risultare inevitabilmente divisive. Certo è che Death Stranding rappresenta uno dei rarissimi casi in cui l'apparato della scrittura e l'enorme ambientazione vanno a braccetto, spalancando i cancelli su una formula di gameplay mai incontrata prima, con tutti i pregi e i difetti del caso.
Fallout 3 e Skyrim: l'epitome del gioco di ruolo
Tra il 2008 e il 2011 Bethesda Softworks ha scolpito nella pietra tutta l'esperienza che aveva maturato per anni lungo i fondali di Tamriel, prima presentando al mondo la sua nuova visione dell'universo di Fallout, poi infrangendo qualsiasi record con The Elder Scrolls V: Skyrim, opera che tutt'ora è sovente considerata l'apice dell'architettura open world. Le produzioni originali dello studio - alle quali presto si aggiungerà anche Starfield - mirano a trasferire la tradizionale ambizione dei più classici giochi di ruolo in vasti universi digitali, riservando allo stesso mondo aperto il difficile ruolo del master.
Un compito che negli anni hanno svolto alla perfezione: l'architettura open world è stata sfruttata per colorare le regioni di dungeon, di storie, di personaggi e persino di fazioni che alimentano il rispettivo universo narrativo, trasformandolo in un amalgama che vale la pena d'esser vissuto a trecentosessanta gradi a prescindere dall'impatto della trama orizzontale. Lo scopo della produzione è quello di sguinzagliare eroi ed eroine in confini geografici convincenti, offrendo loro una vera e propria esistenza alternativa in un mondo coerente ma soprattutto soggetto alle azioni del protagonista, che può incidere in prima persona sullo svolgersi degli eventi, che sia attraverso una guerra di successione o con la sorda esplosione di una testata nucleare.
Grand Theft Auto: un giorno di ordinaria follia
Oltre ad aver assunto un ruolo pionieristico all'alba dei videogiochi open world tridimensionali, la saga di Grand Theft Auto si è dimostrata una creatura pressoché irriproducibile, tanto che nessuno è mai riuscito a catturarne l'essenza al fine di emularla con successo. La dissacrante messa in scena della realtà secondo Rockstar Games ha fatto del mondo aperto cittadino il suo marchio di fabbrica prima ancora di presentare al mondo la contea di San Andreas, probabilmente il punto zero della rivoluzione che sarebbe giunta negli anni a venire. All'epoca sarebbe stato impossibile anche solo concepire una regione tanto vasta e tanto permissiva nei confronti degli appassionati, volenterosa di concedergli ben più di un giorno di ordinaria follia.
Nel corso degli anni Grand Theft Auto non ha mai cessato di evolversi, esplorando ambientazioni sempre più complesse e accogliendo meccaniche ogni volta pionieristiche, potenziando il comportamento del suo mondo e spingendo l'immersione sempre più vicina al limite consentito dalla generazione di riferimento. Oggi Grand Theft Auto V, un titolo con dieci anni sul groppone, continua ad ospitare la migliore città virtuale mai realizzata, tanto che nel contesto dei server "role-play" esistono decine di migliaia di appassionati che trascorrono il tempo libero nella costruzione di una vita dall'altro lato dello schermo.
Minecraft: il mondo è tuo
Con oltre 238 milioni di copie vendute, il successo commerciale di Minecraft sembra ormai irraggiungibile per qualsiasi altro attore del mercato. Al di là delle nude cifre, l'opera di Mojang ha da tempo trasceso il confine del semplice videogioco trasformandosi in una creatura multiforme, capace di dar sfogo a ogni genere di fantasia. Nei mondi di mattoncini sono stati assemblati PC funzionanti, sono stati programmati videogiochi, sono state erette biblioteche al fine di proteggere la libertà di stampa e di espressione. Ma, nel punto più vicino al cuore, Minecraft è sempre rimasto un videogioco open world caratterizzato da un'anima squisitamente sandbox.
Certo, nei suoi fondali è nato il genere del battle royale per mezzo della celebre modalità "Hunger Games", sono state create città più vaste di Los Angeles come la metropoli protagonista del progetto "Greenfield". Eppure il suo originario incantesimo sopravvive ancora fra i biomi di un mondo ostile nel quale si è prima di tutto chiamati a sopravvivere, poi invitati a svelare lentamente gli strati di segreti che conducono fino all'inaspettato scorrere dei titoli di coda. Minecraft è qui per restare, la velocità con cui sta alzando l'asticella non accenna a diminuire, ed è oltremodo difficile anche solo immaginare cosa possa diventare nel corso dei prossimi anni.