Qualche anno fa il game designer e accademico Ian Bogost ha pubblicato un famoso articolo sul The Atlantic in cui affermava in tono provocatorio che: "I videogiochi sono meglio senza storia", dal momento che TV, cinema e letteratura riescono a 'raccontare' in maniera decisamente più efficace. Sosteneva inoltre che: "Quello di narrare un storia è un obiettivo apprezzabile per un videogioco, ma poco ambizioso", perché i videogiochi dovrebbero puntare maggiormente sulle proprie caratteristiche distintive, inseguendo prima di tutto l'innovazione della meccanica interattiva quale imitazione della realtà, senza metterla necessariamente al servizio del racconto e, anzi, accettando pacificamente il fatto che le storie riescano a esprimersi tendenzialmente meglio in altri media.
Una tesi, questa, che si è presentata in forma simile durante un panel tenuto da Steven Spielberg e George Lucas, quando i registi hanno sottolineato come l'interazione indissolubile dal videogioco renda molto complicato raccontare storie che siano veramente impattanti, spingendo Lucas ad affermare che: "Per la stessa natura dei videogiochi, è impossibile che abbiano una trama". Non bisogna pensare che si tratti di voci disinformate o fuori dal coro: anche Jonathan Blow (The Witness) è convinto che storia e gioco vivano in guerra, così come il leggendario Erik Wolpaw (Half-Life 2) assieme a tanti altri autori e ricercatori fra cui lo psicoterapeuta danese Jesper Juul, che sull'argomento ha scritto una tesi molto approfondita.
Al netto di queste dichiarazioni, i videogiochi che scelgono di scommettere sul racconto di una grande storia continuano a raccogliere risultati straordinari, avendo conquistato molti dei premi più ambiti nonché dato origine alla longeva età dell'oro dei PlayStation Studios. God of War e Uncharted sono solo due esempi di quelli che per molti appassionati sono divenuti i 'videogiochi per eccellenza', capaci di codificare lo standard aureo al quale di recente si è ancorato anche Final Fantasy 16, sacrificando alcuni degli storici sistemi sull'altare di un grande racconto orizzontale. Insomma, la presenza di una trama che possa competere a testa alta con la letteratura e con il cinema si è lentamente trasformata in un elemento quasi determinante per il successo percepito di un videogioco per il giocatore singolo.
Ma oltre alle grandi avventure narrative esiste un altro tipo di videogiochi che sta vivendo un grande rinascimento, una corrente che nel corso degli ultimi vent'anni ha continuato a sgomitare fino a raggiungere le vette delle principali classifiche, contendendosi l'ideale podio dell'industria con i maggiori romanzi virtuali. Sono mondi che raccontano storie, rifiutando di sottostare alle regole della narrazione classica per esplorare invece a fondo le caratteristiche tipiche del medium, come ad esempio l'interazione.
Tutte le strade portano a Skyrim
Nonostante non abbia codificato per primo i mondi interattivi di Bethesda Softworks, per qualche ragione - probabilmente i 60 milioni di copie vendute - The Elder Scrolls V: Skyrim è uno fra i videogiochi sui quali sono stati prodotti più documenti accademici in assoluto. In "Emergent Narrative: Stories of Play, Playing with Stories", per esempio, il ricercatore Eric Murnane ha registrato dozzine di testimonianze e studiato a fondo la struttura delle 'storie' generate dal giocatore all'interno dei sistemi nati per farle emergere. Basandosi su oltre 400 racconti degli utenti, ha concluso come in tale contesto il giocatore diventi parte di un processo collaborativo anziché uno spettatore, realizzando narrazioni originali anche in circostanze non previste dagli autori. Nel corso della ricerca, Murnane ha scritto il diario "Three Hundred Days in the North", una raccolta di storie ed emozioni vissute dal suo avatar che hanno poco o nulla a che vedere con l'intreccio intessuto dagli sviluppatori, svelando inconsapevolmente uno dei maggiori segreti dietro il successo dell'opera.
Nel mondo interattivo creato da Bethesda, i giocatori diventano protagonisti e co-autori di un racconto orizzontale non-scritto e in continuo divenire, vivendo settimane intere nei panni del Sangue di Drago e imbattendosi in nuove situazioni a ciascuna collina scavalcata. Esplorando il mondo, s'imbattono in informazioni e racconti progressivi che insegnano come codificare le successive interazioni emergenti, regalando al tempo trascorso nel mondo virtuale la valenza inedita che ha reso Skyrim, a dodici anni di distanza dal momento della pubblicazione, uno fra i videogiochi più rigiocabili e rigiocati di tutti i tempi. Si tratta di un contesto nel quale, paradossalmente, la "trama principale" dell'opera diventa l'elemento in assoluto meno importante - e probabilmente il più debole - fra le centinaia di ore che l'utente medio sceglie di dedicare all'universo di Tamriel.
Addirittura, nella presentazione "Play as narration: Composition No1' and 'Elder Scrolls V: Skyrim" di Simon Grennan e Ian Hague, si conclude che in Skyrim, come nel romanzo interattivo Composition No1, "Gli utenti arrivano a produrre talmente tante 'trame' attraverso il mondo parzialmente narrato che parlare di una trama specifica diventa impossibile". Ed è proprio questa una delle correnti creative che più sta dando filo da torcere ai grandi videogiochi cinematografici, trasformando i mondi virtuali nelle fondamenta su cui sbocciano infinite storie originali, proprio come accade ai giocatori di Dungeons & Dragons quando rispondono alle suggestioni del game master, diventando parte integrante della narrazione.
L'universo virtuale fornisce stimoli volti a spingere l'utente a esplorarlo, a scoprirne gli strati più profondi, impadronendosi solo di rado della regia e limitandosi a fissare i contorni narrativi dell'esperienza. La sensazione, dunque, è quella di vivere una seconda vita dall'altro lato dello schermo, una nella quale ciascuna serata trascorsa nel gioco segna l'incipit e la conclusione di una grande storia personale in costante divenire, che sarà inevitabilmente diversa da quella immaginata da qualunque altro giocatore. The Elder Scrolls V: Skyrim fa tuttavia grande uso di informazioni concrete, di dialoghi, di strumenti di comunicazione più o meno espliciti: la sua narrazione è sempre chiara e intenzionale, arrivando a srotolarsi in una lunga 'missione principale', per quanto quest'ultima non si collochi al cuore del progetto. Una caratteristica, questa, che è decisamente più difficile da riscontrare in altri grandi videogiochi che spesso vengono accusati di 'non possedere una narrazione'.
La narrazione secondo FromSoftware
In Elden Ring, entrando nella capitale reale Leyndell, si assiste alla maturazione di una storia senza che un singola parola venga scritta né pronunciata. La città è deserta: se dove un tempo si ergevano le altissime mura ora giace la carcassa di un drago colossale, l'edificio principale della fortezza è stato invece trafitto da una lancia fuori misura, l'ultima testimonianza di una battaglia disastrosa. Mentre gli occhi dell'utente osservano il panorama, soffermandosi sull'Albero Madre che sino a quell'istante rappresentava un obiettivo irraggiungibile, in sottofondo risona una malinconica melodia volta a sottolineare l'intensità del momento. Scendendo fra i vicoli, ogni passo, ogni schivata e ogni fendente sferrato dal protagonista assumono una forte valenza narrativa, celebrando il lungo viaggio che l'ha condotto alle porte della sua destinazione finale.
FromSoftware, una pubblicazione dopo l'altra, ha spinto il grande concetto ombrello di "narrazione ambientale" ben oltre i limiti antecedenti il suo grande rinascimento creativo; una tesi, questa, che siede al centro di studi quali "Storytelling Through Games Mechanics: A Study on Dark Souls, Gorogoa and What Remains of Edith Finch" di Qingqing Zhao, che interpretando le parole di Hidetaka Miyazaki - fra cui: "Non voglio essere io a raccontare la storia, preferisco siano i giocatori a svelarla partendo dagli indizi" - ha analizzato quelli che a suo dire costituiscono i tre pilastri della narrazione silenziosa: ambientazioni, meccaniche di gioco e comportamento del giocatore. Coinvolgendo direttamente nel processo di costruzione del mondo anche gli oggetti, l'iconografia, le architetture, persino i modelli degli avversari, la casa giapponese ha trasformato anche i più minuti elementi dell'opera nelle tessere del grande mosaico che oggi viene universalmente riconosciuto con il termine "lore". Lore che, secondo la definizione del dizionario Treccani, significa l'insieme di conoscenze di carattere enciclopedico che riguardano il mondo fittizio, solitamente pensata come il fondale pervasivo di una trama in senso tradizionale.
FromSoftware ha invertito questi ruoli storici, trasformando la lore nella protagonista della narrazione e la trama in una semplice suggestione, di fatto spaccando a metà l'utenza fra sostenitori e detrattori della sua filosofia. Rendendo il procedimento di ricostruzione della lore una ricompensa a tutti gli effetti del gameplay, Hidetaka Miyazaki non ha solamente potenziato la classica struttura legata alla narrazione ambientale, ma è arrivato a incidere direttamente sul modo in cui i giocatori interagiscono consapevolmente con i suoi mondi: gli appassionati esplorano i livelli con cura maniacale in cerca di segreti, ascoltano con estrema attenzione ogni parola pronunciata dai rari interlocutori, analizzano dozzine di descrizioni di oggetti che in un videogioco "normale" sarebbero spazzatura di cui liberarsi, ma che nel contesto dei SoulsBorne assumono tratti simili a quelle delle reliquie. Nel fare ciò prendono grande dimestichezza con le complesse meccaniche di gioco, arrivando a dominare l'elevato grado di sfida che a sua volta fa parte di una narrazione mediata dall'esperienza: i protagonisti delle opere di FromSoftware, dal Cacciatore di Yharnam al Senzaluce di Elden Ring, sono reietti che si trasformano in sterminatori di dei, esattamente come ogni nuovo giocatore spaesato cresce lentamente fino a diventare inarrestabile.
Il libro Dark Souls: Design Works contiene lunghissime interviste a Miyazaki e ai membri del team, nelle quali vengono svelati retroscena del procedimento di design che lasciano pochi dubbi riguardo la filosofia creativa della casa. Alcune critici, di contro, sostengono ancora oggi che FromSoftware sfrutti questo espediente per evitare di impegnarsi a raccontare una 'vera storia', mentre altre voci dissonanti sono convinte che i contorni della lore servano unicamente ad alimentare le discussioni che prendono vita sui social network, spingendo i creatori di contenuti a realizzare centinaia di analisi dedicate. Ciò detto, un approccio al racconto ambientale e una crescita esperienziale come quelle messa in piedi da FromSoftware non sarebbero replicabili in nessun altro medium, e questa è una lezione che sta impattando con frequenza sempre maggiore anche il lavoro dei piccoli sviluppatori.
Il sistema stellare di Outer Wilds
Nel 2012, lo studente dell'Università della California del Sud Alex Beachum presentò come progetto per la sua tesi di master il prototipo di quello che sarebbe divenuto Outer Wilds: l'idea alla base del progetto era quella di creare un videogioco open-world nel quale il solo elemento dell'esplorazione riuscisse in sé e per sé a rispondere a qualsiasi domanda sorta in capo al giocatore. "Abbiamo ricreato l'intero gioco come un'avventura testuale in 2D utilizzando una libreria Java chiamata Processing, in modo da testare la funzionalità della narrativa", ha dichiarato in un intervista rilasciata a Phill Cameron, sottolineando che: "L'obiettivo principale era evitare di fornire qualunque genere di obiettivo al giocatore riuscendo al tempo stesso a non far sembrare l'esperienza priva di uno scopo concreto".
Alla fine, per stessa ammissione dell'autore, l'ispirazione vincente fu pescata da The Legend of Zelda: The Wind Waker, un'opera nella quale personaggi bizzarri raccontavano storie di isole lontane spingendo l'utente a viaggiare nel tentativo di raggiungerle. Fu proprio questa meccanica a dar vita al sistema solare di Outer Wilds: un mondo aperto che fa costantemente riferimento a luoghi e segreti che i giocatori possono effettivamente raggiungere, studiare e svelare.
Il lavoro finito, sviluppato da Mobius Digital e pubblicato sette anni più tardi da Annapurna Interactive, è stato il primo videogioco open-world nel quale esplorazione e racconto non si trovano a collidere nella lotta per il centro del palcoscenico, divenendo invece parte di un unico meccanismo nel quale l'una non può esistere senza l'altro. Tutto quello che serve sapere sulla filosofia di design alla base dell'opera si può trovare in "Outer Wilds A Game of Curiosity-Driven Space Exploration", nient'altro che la tesi di master presentata proprio da Alex Beachum, che spiega nel dettaglio come: "L'esplorazione guidata dalla curiosità è qualsiasi situazione in cui qualcuno sceglie di esplorare un ambiente (reale o virtuale) con l'unico obiettivo di espandere la propria conoscenza o comprensione di esso". Ciò ha dato vita all'architettura dell'opera, praticamente quella di un vasto metroidvania tridimensionale nel quale il giocatore non acquista nuove capacità attraverso potenziamenti meccanici, ma solamente grazie all'incrementare della propria conoscenza, approcciando la narrazione di una grande storia da un'angolazione raramente esplorata.
Outer Wilds è probabilmente il videogioco che più d'ogni altro risponde ai dubbi sollevati da autori del calibro di Jonathan Blow, nonché alle critiche provocatorie mosse da Ian Bogost, riguardo l'inconciliabilità fra una storia finita e un mondo interattivo, risolvendo al tempo stesso il grande dilemma dei videogiochi open-world, storicamente spaccati fra la necessità di raccontare una storia e quella di ampliare l'offerta del gameplay. La narrazione, infatti, è al tempo stesso motore e ricompensa dell'esplorazione, l'unico meccanismo di power-up nonché l'elemento che chiude definitivamente il cerchio dell'esperienza, ovvero un videogioco che è letteralmente impossibile vivere nuovamente una volta raggiunti i titoli di coda.
Hyrule e The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom
Se Outer Wilds ha potuto pescare la principale ispirazione da un'iterazione di The Legend of Zelda, è proprio perché l'opera magna di Shigeru Miyamoto è nata con il preciso scopo di tradurre i reali concetti di esplorazione e avventura secondo il linguaggio del videogioco. Inizialmente la presenza di una trama non era neppure contemplata dalla produzione, tanto che il background dell'originale The Legend of Zelda del 1986 fu conservato esclusivamente al di fuori dello schermo, nel libretto di istruzioni, fra le pagine confezionate da Keiji Terui secondo l'immaginario stilizzato da Takashi Tezuka.
Ciò detto, la struttura della saga di Zelda ha sempre adottato una strategia particolare per mescolare interazione, esplorazione e narrazione lungo i fondali delle diverse iterazioni di Hyrule, dando origine - con l'avvento delle tre dimensioni - all'abusata massima: "Se puoi vederlo puoi raggiungerlo". Una frase, questa, spesso erroneamente attribuita a Shigeru Miyamoto e in seguito recuperata pubblicamente da creativi quali Todd Howard e Brian Fleming, che fecero riferimento a tale concetto di The Legend of Zelda: Ocarina of Time per spiegare l'architettura dei loro Skyrim e Ghost of Tsushima. Pilastro portante della trentennale odissea dei Link è sempre stato la curiosità, concetto che molto raramente riesce a fare rima con storia, piegandosi molto più facilmente alla narrazione in senso lato. Narrazione che, in The Legend of Zelda: Breath of the Wild, è divenuta anche il semplice racconto del protagonista che riesce a scalare una parete scivolosa, di fatto sconfiggendo la natura in nome della forma più pura di curiosità, ovvero quella che secondo Alex Beachum spinge l'essere umano a raggiungere la vetta di una montagna anche solo per godere del panorama.
Oggi, in The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, il grande racconto delle gesta di Link ha mantenuto un'importanza solamente relativa, mentre il focus si è spostato su un design della narrativa pensato per essere pervasivo dell'intera esperienza di gioco. Visitando per esempio gli stallaggi o le città, si possono cogliere voci di corridoio e indizi che fanno riferimento a qualcosa di realmente esistente in altri luoghi del regno, ma che di fatto può essere avvicinato da migliaia di fronti differenti, anche senza ricevere alcun input dal videogioco. Le 'attività' non sono quindi compiti statici assegnati da personaggi preposti, ma un naturale e dinamico ingranaggio nella grande avventura che intreccia narrazione, esplorazione e meccaniche di gameplay. Anche l'interazione più sciocca, ad esempio quella con un mercante, custodisce in poche linee di testo diverse suggestioni sul mondo di gioco, spiegando al giocatore qualche dettaglio sulla geografia, sull'economia e sul funzionamento della chimica di Hyrule, spingendolo ogni volta in una nuova direzione inesplorata. Si tratta del culmine dell'approccio esperienziale all'ambientazione introdotto nel capitolo precedente, che centra l'obiettivo su ogni singolo giocatore dando vita a milioni di esperienze irripetibili, dal momento che basta la presenza di un banale temporale in un dato luogo per stravolgere l'intero proseguo dell'avventura, spingendo un Link in una direzione e un secondo ipotetico Link in un'altra diametralmente opposta.
Dell'argomento ha già scritto ampiamente Alessandro Bacchetta in un episodio dedicato della Bustina di Lakitù, sviscerando il complesso rapporto che sussiste fra la casa di Kyoto e il concetto stesso di narrazione, riflettendo sul fatto che la 'storia' probabilmente non costituirà mai l'elemento preponderante delle produzioni Nintendo. Dal canto suo Josh Scherr, scrittore e narrative designer di The Last of Us Parte 2 e della serie Uncharted, si è detto stregato da tale architettura e dalla naturalezza con cui si può rompere, rivolgendo direttamente a Nintendo l'inevitabile domanda che tutti si sono posti nel corso degli ultimi mesi, scoprendo la Hyrule di Tears of the Kingdom: "Come diavolo è possibile che abbiate creato qualcosa del genere?".
Il futuro della narrazione nei videogiochi
In un mercato dei videogiochi AAA per il giocatore singolo spaccato a metà fra grandi avventure cinematografiche e mondi che raccontano storie interattive, le seconde stanno iniziando a macinare risultati con cui è diventato quasi impossibile tenere il passo. The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom ha venduto 10 milioni di copie in tre giorni - che fra l'altro oltrepassano le vendite complessive del libro più acquistato dell'intero 2022 - mentre Elden Ring ha scavalcato nel giro di un anno il muro dei 20 milioni, avvicinando sempre più i risultati di un colosso decennale come il succitato The Elder Scrolls V: Skyrim. Dunque, al netto dell'autorevolezza che ancora oggi accompagna le opere figlie dell'ispirazione cinematografica e letteraria, è evidente che il pubblico stia iniziando a prediligere un diverso genere di esperienze, quelle che scommettono sulla libertà e su un rapporto particolare fra narrazione e interazione.
Al contempo, capita che saghe ultratrentennali, come nel caso recente di Final Fantasy 16, scelgano di sacrificare la profondità del rapporto con l'ambientazione virtuale per investire tutti gli sforzi sul fronte della trama e della caratterizzazione, seguendo il percorso dorato che nell'ultima decade ha portato molti progetti sui palchi dei The Game Awards.
Le critiche alla qualità della narrativa dei videogiochi - come quelle mosse da Ian Bogost, Steven Spielberg e George Lucas - probabilmente non sono da leggere come attacchi alle storie in quanto tali, ma all'abuso che si è fatto di uno stile del racconto che arriva a brillare in altri media, senza puntare sulle caratteristiche uniche e irripetibili del videogioco. Sono trascorsi ormai diversi anni dal momento in cui il vento ha iniziato a cambiare: Fumito Ueda, probabilmente il più grande maestro nell'ambito della narrazione mediata esclusivamente dalle interazioni, ha prodotto capolavori come ICO e Shadow of the Colossus, portando una sferzante spinta innovativa che ha trovato una forte eco nel sottobosco indipendente prima di tornare a esplodere nel mercato di prima fascia.
Oggi il design della narrativa dei videogiochi sta attraversando l'ennesimo processo di metamorfosi: il biennio che volge al termine sarà ricordato con tutta probabilità come il momento apicale nella battaglia fra la grande sceneggiatura hollywoodiana in movimento e il mondo che racconta storie attraverso l'interazione. È evidente che l'una non escluda l'altra, ma quale delle due fa meglio ai videogiochi?