Quando una persona che impugna un gamepad incontra una cascata scrosciante in un mondo virtuale, si comporta sempre allo stesso modo: come se portasse avanti per puro istinto un antico rituale di accoppiamento, il videogiocatore si getta attraverso le acque convinto di trovare una galleria nascosta, o almeno un piccolo forziere del tesoro. E ogni volta che oltre la cascata sbatte il muso contro una parete di nuda roccia, la meraviglia cede rapidamente il passo alla delusione. I segreti, gli easter egg, i "contenuti opzionali", insomma, tutte le declinazioni possibili di ciò che si nasconde lontano dal percorso dorato che conduce alla fine del videogioco, sono diventati elementi importantissimi per milioni di appassionati. Fondamentali al punto che fra tutte le dichiarazioni emerse dalle interviste dedicate a Final Fantasy 16, la più discussa è senza dubbio quella in cui il director Hiroshi Takai ha affermato che: "Non sono state create mappe o dungeon segreti".
Gli sviluppatori di Square-Enix non volevano "creare qualcosa che molti videogiocatori non avrebbero nemmeno trovato", concentrando gli sforzi sulle fasi obbligatorie. Una filosofia, questa, che si pone in netta controtendenza rispetto alla lezione impartita da successi come Elden Ring: nell'opera di FromSoftware - come emerso dalla rubrica Parliamone pubblicata pochi giorni fa - alcune delle battaglie più elaborate e delle aree più ispirate, su tutte la città di Elphael protetta dalla terribile Malenia, sono invece riservate proprio ai giocatori che decidessero di scavare a fondo nell'Interregno, inseguendo le scie di briciole che conducono a tesori straordinari. In un certo senso l'intero Elden Ring, anzi, l'intera produzione di Hidetaka Miyazaki è ricamata attorno a un concetto di "segreto videoludico" talmente profondo da aver assorbito persino la componente narrativa, nascondendo del tutto la trama agli occhi dei giocatori meno attenti.
Qualche settimana fa, accanto all'albero di Natale, stavo giocando a Final Fantasy 12: The Zodiac Age. Nel mondo di Ivalice c'è un aeronave. In quell'aeronave c'è una stanza, il ponte, in cui c'è l'1% di probabilità che faccia la sua comparsa un forziere invisibile. Quel forziere ha il 20% di probabilità di contenere un oggetto. Se uno dei personaggi indossa il Bracciale di Diamante, quell'oggetto ha il 5% di probabilità di rivelarsi il Seitengrat, l'arma più potente del gioco, un equipaggiamento di debugging volutamente preservato dagli sviluppatori con una chance di ottenimento di uno ogni 10.000 tentativi. Quella del Seitengrat è ovviamente un'estremizzazione del concetto del segreto nel videogioco, ma le sessantacinque ore che ho gettato alle ortiche per ottenerlo - tralasciando la dose di follia natalizia che l'operazione richiede - sono un'ulteriore testimonianza del fascino che queste meccaniche esercitano sugli appassionati.
Perché i segreti, di qualsiasi forma ed entità, hanno un'attrattiva così forte per i videogiocatori? Come mai alcune delle più grandi emozioni e dei migliori ricordi che conserviamo di un'opera interattiva sono legati a contenuti nascosti nei mondi virtuali?
L'Egg
Nel febbraio del 1973 Jack Burness ultimò i lavori su Moonlander, un videogioco per i terminali della Digital Equipment Corporation che, come suggerisce il nome, era nato per mettere in scena la sequenza dell'allunaggio. All'epoca esistevano diverse produzioni nella corrente "Lunar Lander", la loro storia è molto interessante, ma il titolo di Burness aveva una particolarità che lo differenziava da tutti gli altri: conteneva il primo easter egg di tutti i tempi. Fluttuando orizzontalmente oltre il Mare della Tranquillità, sulla superficie della Luna, si incontrava un punto vendita McDonald's: a quel punto era possibile atterrarvi accanto e mandare l'astronauta Apollo a ordinare un menù, oppure schiantarsi sul ristorante e distruggere per sempre l'unico fast food nello spazio. La genesi del medium è costellata di piccoli segreti di questo genere, come le parole nascoste in Colossal Cave Adventure e Starship-1, ma se oggi parliamo esplicitamente di "easter egg" è in ragione di Adventure di Warren Robinett, pubblicato nel 1980 e tutt'ora indicato erroneamente come il primo videogioco a nascondere un segreto di questo genere.
L'easter egg di Adventure ha fatto la storia per diversi motivi: muovendo l'avatar in uno specifico pixel del mondo di gioco, il cosiddetto "Grey Dot", era possibile recuperare una serie di oggetti e fare backtracking fino a raggiungere una stanza segreta che conteneva un messaggio dell'autore, ovvero "Created by Warren Robinett". Quando la stanza fu scoperta divenne un caso, perché all'epoca Atari non prevedeva in alcuna forma la presenza di crediti nei videogiochi, con il duplice fine di nascondere alla concorrenza l'identità dei dipendenti più dotati e di impedire ai dipendenti stessi di discutere migliori condizioni contrattuali. Atari, vista la diffusione della 2600, inizialmente pensò di rimuovere la stanza nascosta dalle versioni future, ma Steve Wright - allora direttore dello sviluppo software - diede la sua benedizione, incoraggiando gli sviluppatori del futuro a includere "Easter Egg" di questo genere.
Sappiamo bene quanta strada abbia fatto questa vicenda: nel Player One di Ernest Cline è stato il concetto stesso di easter egg a prendersi il centro del palcoscenico, presentando poi al mondo intero il "falso mito" di Adventure attraverso la pellicola firmata Steven Spielberg. Ma ciò che più conta è che, dal 1980 in avanti, questi piccoli segreti hanno iniziato a diffondersi a macchia d'olio, regalando un tocco unico a centinaia di produzioni: dai più semplici, spesso delle firme stilizzate inserite dai programmatori, fino ai più complessi, come ad esempio l'intero Maniac Mansion ricreato da LucasArts nei confini di Day of the Tentacle.
È invece molto più difficile tracciare la linea esatta oltre cui le avventure virtuali hanno iniziato a tradurre il fascino del segreto in una componente vera e propria del videogioco, destinata a fare capolino fra stanze nascoste, livelli bonus e contenuti opzionali sempre più distanti dal classico "golden path", il sentiero che conduceva alla fine dell'avventura. Tra le "Warp Zones" celate in fondo ai livelli di Super Mario Bros, i remoti dungeon emersi nel The Legend of Zelda del 1986 e le dozzine di mura interattive sbucate in Wolfenstein 3D nel 1992, il medium ha accolto una pioggia di interpretazioni del "segreto", fino a trasformarlo in determinati casi in un'unità di misura del successo dell'opera. È il caso della seconda corrente di giochi di ruolo, titoli che - come accade ancora oggi - vennero premiati dal pubblico sulla base della mole di contenuti opzionali che mettevano a disposizione del giocatore, tra missioni secondarie e ricompense posizionate ai quattro angoli del mondo virtuale.
Segreti, segreti dappertutto!
Nell'interezza degli anni '90 i segreti nascosti nei videogiochi divennero talmente diffusi da trascendere il confine dello schermo, infiammando le discussioni fra appassionati e spingendoli a cercarne persino dove non ne esistevano. È emblematico il caso di Super Mario 64, nel quale per anni si sono inseguite le tracce di Luigi come personaggio giocabile, portando anche il sottoscritto a sprecare dozzine di inutili ore vagando nel cortile interno del castello di Peach; ancor più celebre è quello di Pokémon Rosso e Blu e del misterioso camioncino posto accanto alla Motonave Anna, un elemento della scenografia che secondo i più custodiva nientemeno che il ricercatissimo Mew. Nei confini di Diablo, alcuni file sonori spinsero gli utenti a teorizzare che da qualche parte si nascondesse l'accesso a un mondo segreto popolato di mucche guerriere, e tale voce si fece talmente insistente da convincere gli sviluppatori di Blizzard a includere veramente tale livello sulle sponde di Diablo II. In Street Fighter 2, invece, un errore di traduzione relativo a una frase di Ryu convinse la comunità dei picchiaduro dell'esistenza del misterioso personaggio Sheng Long, un affascinante - e inesistente - combattente opzionale che si fece strada dal libretto di istruzioni americano fino alle pagine delle riviste di settore.
Ma se tali leggende metropolitane presero piede fu proprio perché praticamente ogni videogioco tentava di includere nell'offerta una corposa mole di contenuti nascosti. Già Super Mario World, ad esempio, aveva costruito la sua intera mappa attorno alle uscite segrete dei livelli, al punto che le prime apparizioni fotografiche delle varianti colorate di Yoshi lasciarono di stucco l'intera community. Non si può non citare Castlevania e l'apice toccato con Symphony of the Night, nel quale per raggiungere il miglior finale bisognava esplorare il 196% della mappa: praticamente metà del gioco era nascosta da sguardi indiscreti. La presenza di finali multipli serpeggiava già da decadi nella produzione del medium, ma con Chrono Trigger di Square e le sue 15 varianti differenti avvicinò nuove vette, spingendo il pubblico a battere in lungo e in largo il mondo di gioco. Allora furono gettate le radici che, nell'era PlayStation, portarono la saga di Final Fantasy ad essere la più discussa in assoluto sul web: orde di giocatori si radunavano nei forum per sviscerarne ogni piccolo segreto, dalle evocazioni nascoste fino ai boss opzionali, dalle armi finali fino alle interazioni celate ai confini del mondo. È proprio per questo motivo che, nell'orbita di Final Fantasy 16, la presa di coscienza dell'assenza di dungeon segreti ha fatto tanto male ai veterani.
Cosa succede raccogliendo tutte le gemme disseminate nei livelli di Crash Bandicoot? Quale ricompensa si cela dietro le 120 Stelle di Super Mario 64? Esiste veramente il Big Foot che si aggira nelle campagne di Grand Theft Auto: San Andreas? L'assenza di risposte pronte, di video su internet pronti a chiarire in un attimo la veridicità di una tesi, accresceva enormemente il fascino del mistero, la voglia di perdersi nelle pieghe del mondo virtuale, il senso di soddisfazione scaturito da una scoperta che - allora - era nostra e nostra soltanto, non il frutto di un indizio o una rivelazione.
Una filosofia, questa, che è stata perfettamente condensata da Jonathan Nolan e Lisa Joy nella sceneggiatura della prima stagione della serie Westworld, che affianca alla trattazione di tematiche ben più elevate una perfetta rappresentazione del videogiocatore nei confini del mondo virtuale. Attraverso il personaggio dell'Uomo in Nero interpretato dal sempreverde Ed Harris, la serie compie un inaspettato balzo in un sotto testo videoludico, rappresentando in maniera sorprendente l'emozione provata dal giocatore quando scopre un segreto nel mondo virtuale che ama in modo ossessivo, stringendo un rapporto di natura quasi personale con il game designer, trovandosi al cospetto di elementi che sembra siano stati creati apposta per lui, perché fossero individuati con fatica e determinazione.
La lezione di FromSoftware
L'esplosione del medium e la sua diffusione su larghissima scala hanno spinto gli sviluppatori ad abbracciare un nuovo concetto di accessibilità del videogioco: non quello radicato nell'idea di accomodare l'esperienza di qualsiasi genere di appassionato, bensì uno volto a mettere su un luminoso piatto d'argento tutti i contenuti dell'opera. Tra segnalatori, GPS e diari di missione, la filosofia è divenuta proprio quella che ha apparentemente guidato anche la mano di Square Enix con Final Fantasy 16: i videogiochi giungono nelle mani di milioni di persone, costano una mole immensa di tempo e fatica, la maggior parte dei destinatari non arriva neppure ai titoli di coda, quindi è bene non sprecare energie per contenuti che saranno esperiti da una minima frazione dell'utenza.
Contenuti che, nella produzione di FromSoftware, sono invece diventati l'elemento centrale del videogioco: la trama viene svelata nella sua interezza solamente a chi mette sottosopra i livelli, mura invisibili mascherano l'accesso ad ampie aree opzionali, scontri con boss curati oltre misura restano in attesa dei giocatori più curiosi. Oltre ad accrescere il fascino del mondo virtuale, questa interpretazione del segreto spinge gli appassionati a radunarsi e discutere, a condividere informazioni e a portare avanti una grande ricerca collettiva, proprio come accadeva negli anni '90, quando la biblioteca senza fondo di internet non aveva ancora dischiuso i suoi battenti. In Elden Ring la lunghissima missione opzionale che coinvolge Ranni la Strega alza il sipario su cinque corpose aree nascoste e un discreto numero di scontri unici, senza il benché minimo timore che i giocatori potessero ignorarli. "Bisogna fidarsi dei videogiocatori", ha recentemente dichiarato Hidetaka Miyazaki a degli esponenti di Naughty Dog, che si sono detti ben volenterosi di accogliere tale consiglio.
Qual è il segreto dietro i segreti?
Probabilmente siamo tanto affascinati dai segreti dei videogiochi in ragione della natura interattiva del medium, del dialogo costante tra sviluppatore e fruitore: quello di imbattersi in un elemento del gioco che sia distante dal percorso predeterminato, posizionato appositamente dallo sviluppatore affinché alcuni appassionati lo trovino, è lo scambio più intimo che si possa avere tra l'artefice e l'utente. Certo, bisogna stare attenti a non esagerare: proprio nell'orbita della saga di Final Fantasy è capitato che una missione del nono capitolo fosse scoperta a tredici anni di distanza dal momento della pubblicazione, una cosa impensabile nell'era dei social network.
Se in Doom 2 era possibile raggiungere il primo livello di Wolfenstein e in Star Wars: Rogue Leader i giocatori più preparati potevano pilotare i caccia imperiali, l'evoluzione dei videogiochi ha portato a formule sempre più elaborate, come ad esempio le quest non segnalate presenti nelle produzioni a mondo aperto di Bethesda Softworks: accanto alle dozzine di missioni che punteggiano la mappa di Skyrim, ad esempio, non si può non ricordare la raccolta delle maschere dei Sacerdoti del Drago, che devono essere depositate su un misterioso altare nel cuore delle rovine di Labirynthian. I videogiochi di FromSoftware, dal canto loro, hanno insegnato che lo stupore e la meraviglia derivanti dalla scoperta sono armi potentissime, e fa male al cuore scoprire che molti sviluppatori non vogliano rischiare per paura che gli appassionati manchino di curiosità. In fin dei conti, un elemento semplice come una piccola ricompensa posta ai margini di una mappa riesce sempre a scatenare una grande emozione, quanto meno a strappare un sorriso, ammantando i mondi virtuali del fascino misterioso che un tempo rappresentava lo standard.