Il legame tra cinema e videogiochi è antico e inoppugnabile. Sin dai suoi albori, infatti, il medium videoludico ha attinto dall'esperienza ottenuta negli anni da altri mezzi d'intrattenimento, dai libri ai film. Di conseguenza, è inevitabile che molto di quei modi di catalogare, classificare e concepire sia passato, per via di un processo osmotico, anche all'industria dei videogiochi. Non solo generi e opere dalle quali trarre insegnamenti per realizzare qualcosa di nuovo, ma anche forme della messa in scena. Tuttavia, dopo quasi mezzo secolo di gavetta e insegnamenti, il linguaggio videoludico ha veramente bisogno di andare a guardare al linguaggio cinematografico per portare sullo schermo le proprie avventure?
Cerchiamo di analizzare la situazione assieme, mettendo sotto i riflettori il legame che unisce regia e videogiochi.
Come raccontare una storia visivamente?
Da quando si è passati da ambienti in due dimensioni a quelli a tre dimensioni, gli autori di videogiochi hanno iniziato a ragionare lo svolgimento delle loro narrazioni in termini di inquadrature. La differenza che, però, intercorreva (e permane tutt'ora) tra il linguaggio cinematografico e quello videoludico è la necessità, in quest'ultimo, di concedere all'utente momenti di interazione con il mondo di gioco. Le sequenze di gameplay effettivo presentano una regia "contenuta", in quanto è il giocatore a gestire la camera virtuale, pur venendo indirizzato sul "giusto percorso", più o meno in maniera subliminale, da chi il prodotto lo ha creato.
Questa è una delle principali differenze tra medium videoludico e quello cinematografico: chi si trova davanti allo schermo non è più solo spettatore passivo, ma diventa giocatore attivo. E qui si apre la prima questione: se la peculiarità del videogioco è quella di concedere al pubblico di prendere parte all'azione, è davvero necessario proporgli scene d'intermezzo dal taglio cinematografico? Crediamo sia una questione estremamente soggettiva, ma proviamo comunque ad analizzarne gli aspetti, senza dare giudizi radicali.
Il caso Assassin's Creed
Prendiamo come esempio una saga che tutti i videogiocatori conoscono e che, bene o male, hanno incontrato durante la loro esperienza: Assassin's Creed. Questa serie di videogiochi è stata per più di un decennio un punto di riferimento per molti appassionati, grazie a un impianto narrativo capace di affascinare, distinguendosi negli anni per la sua spiccata ricerca stilistica in termini di sequenze filmate e inquadrature.
È ancora nel cuore di molti la scena d'apertura di Assassin's Creed II, in cui i fratelli Auditore scalano una torretta fiorentina per poi ammirare il paesaggio cittadino coronato dall'immensa Cattedrale di Santa Maria del Fiore, mentre il titolo del gioco appare sullo schermo, accompagnato dall'iconica colonna sonora. Ecco, da quei primi istanti la serie ha continuato a spingere sulla sua componente "cinematografica", proponendo sequenze d'intermezzo sempre più complesse e stratificate, anche a livello emotivo.
Poi, è avvenuto un cambio di rotta. Dopo Assassin's Creed Origins, la serie ha abbracciato totalmente la natura del gioco di ruolo e si è, in qualche modo, trasformata, pur non abbandonando completamente quell'attaccamento quasi morboso al mezzo cinematografico. Assassin's Creed Odyssey e Assassin's Creed Valhalla hanno duplicato la durata complessiva delle avventure degli Assassini, aumentando così la mole di contenuti da proporre. Questo incremento ha portato con sé un'inevitabile riduzione delle sequenze di intermezzo, sostituite da campi e controcampi o totali con camera orbitante, funzionali all'implementazione delle scelte multiple.
Per gran parte di queste storie, la regia classica scompare o, meglio, si affievolisce in favore di una costruzione ruolistica marcata. Con Assassin's Creed Mirage abbiamo assistito a un ritorno di quel gusto cinematografico che aveva contraddistinto la serie, pur non eliminando l'esperienza acquisita con la deriva simil-GDR.
Tuttavia, è bene notare come la saga sia partita, a livello registico, da un'impostazione che ricorda più le lunghe conversazioni di Odyssey e Valhalla che non le sequenze dinamiche di uno Unity o un Syndicate (qualcuno ha memoria dei monologhi con inquadratura multipla di Al Mualim mentre assegna le missioni ad Altair?).
Una regia cinematografica è necessaria?
Quindi, abbiamo un videogioco che è nato come una sorta di sandbox con mappe liberamente esplorabili, per poi evolversi sul piano della messa in scena e, infine, tornare a un'impostazione più "videoludica". Tre facce della stessa serie. Quale funziona di più? Impossibile dirlo con certezza. Come accennavamo, è una questione estremamente soggettiva. Possiamo però dire che è fondamentale riconoscere quando un taglio più cinematografico può aiutare o meno la veicolazione di una narrazione.
Nel caso di Odyssey e Valhalla, forse, il problema maggiore lo si trova nel modo in cui impostavano la narrazione come un "vecchio" Assassin's Creed per poi farla esplodere in mappe immense e decine di ore di gioco. In casi come questi, si viene a creare una specie di cortocircuito, in quanto viene data una certa impronta alla narrazione che poi viene abbandonata per essere ripresa repentinamente solo in una manciata di altre situazioni cardine. Questo andirivieni tra diversi modi del comunicare può risultare straniante, specialmente se la mole narrativa è così vasta da richiedere un quantitativo di ore non indifferente per essere portata alla sua naturale conclusione.
L'aspetto emotivo
Un altro aspetto da comprendere è quanto si vuole coinvolgere emotivamente il giocatore nella propria storia. Se l'obiettivo è far empatizzare chi gioca con i personaggi creati, è necessario trovare dei momenti che permettano loro di conquistare la scena. Questo lo si può fare, banalmente, anche solo attraverso parole scritte (non a caso la letteratura è ancora uno dei mezzi più gettonati per raccontare una storia), ma il linguaggio per immagini ha modo di sprigionare una forza espressiva non indifferente.
Ciò è possibile se si dispone di una spinta registica capace di bilanciare la scena in modo tale da guidare lo spettatore verso una determinata direzione, grazie anche all'accompagnamento sonoro. Di conseguenza, è complesso riuscire a empatizzare con un determinato personaggio se lo si tratta allo stesso modo di una miriade di altri personaggi già incontrati in circostanze differenti.
In Assassin's Creed Odyssey, uno dei momenti più forti del gioco in termini di carica emotiva proviene da un urlo straziante in una delle ultime sequenze d'intermezzo del gioco. Per far arrivare con potenza quel singolo sentimento represso di dolore e perdita entrano in gioco molti aspetti: una regia che si differenzia rispetto alle solite interazioni tra personaggi, un brano dedicato, una performance capture. Tutto questo contribuisce a dare una spinta in più a quel momento: è evidente che gli autori attribuiscano una certa rilevanza a quella situazione. Ma questo significa che il resto sia di meno conto? No, ma è una cosa che inevitabilmente accade quando si ha a che fare con una mole narrativa di tale portata. Vanno fatte delle scelte.
La questione diventa "è più importante l'esperienza o ciò che voglio veicolare attraverso tale esperienza?". Però anche questo ragionamento ha delle debolezze, perché non è tanto quale di queste due "fazioni" si sceglie di seguire, quanto il modo in cui le si riesce a far dialogare.
Il videogioco è un dialogo: tra sviluppatore e giocatore, tra medium differenti, tra modi del raccontare e dell'esperire. Poi, tutto può nascere da tutto. Non è detto che l'ibridazione sia la via da seguire per ogni produzione. E questo ce lo dimostrano ogni giorno titoli fortemente legati ad un genere specifico, capaci di parlarci in altro modo oltre la mera narrazione classica. Ma per tutta quella sequela di videogiochi che condividono così tanto con un passato fatto di immagini fulminanti e parole laceranti, questo dialogo ci sembra fondamentale.
Un videogioco con una forte impronta narrativa, a nostro avviso, non può essere solo un film (per ovvi motivi), ma non può essere neanche un imparziale e asettico susseguirsi di momenti d'interazione. In questo contesto, l'industria ha iniziato a dimostrare che una via ibrida, vicina e lontana dal cinema al contempo, è possibile e decisamente allettante.
Quando l'allievo supera il maestro
Solo negli ultimi anni abbiamo assistito a un'imposizione del mezzo videoludico su quello cinematografico. Il mondo dei videogiochi ha dimostrato di saper eguagliare, se non addirittura superare, il suo "antenato". Facciamo una manciata di esempi: i God of War norreni, le grandi produzioni di Kojima, le avventure Naughty Dog sotto la direzione di Neil Druckmann, gli ultimi "palazzi mentali" di Remedy.
Proprio le più recenti avventure di Kratos ci possono aiutare a fare luce su una costante che ha sempre afflitto il mondo dei videogiochi: il fatto che questi ultimi venissero sempre considerati come un'appendice del cinema, qualcosa su cui investire solo per fare pubblicità al "vero" cavallo di battaglia, il film. Il mondo cinematografico si è atteggiato a realtà elitaria per diversi anni, mentre ai videogiochi è sempre stato attribuito (dai non frequentatori del mezzo) un carattere triviale. Ecco, il tempo, come accade con qualsiasi nuovo mezzo di comunicazione, ha provato che un videogioco può essere molto di più che un semplice passatempo.
Cory Barlog e il suo team hanno preso le loro conoscenze di entrambe le istanze mediali e le hanno unite in un unico sforzo produttivo, portando qualcosa che al cinema è, di fatto, praticamente impossibile. Solo pochi, come Aleksandr Sokurov con il suo "Arca Russa", sono riusciti a portare sullo schermo un vero e proprio film realizzato in un unico piano sequenza. Ma, anche in questi casi, i limiti sono molti: la camera può muoversi solo con parziale libertà e il minutaggio è destinato a rimanere intorno all'ora e mezza. Cosa hanno portato sul banco di prova tecnico, quindi, videogiochi come God of War o Half-Life prima di lui?
La possibilità di realizzare un piano sequenza effettivamente senza tagli e con una più relativa libertà di approccio (girare nuovamente una scena è decisamente più dispendioso, non solo a livello economico, rispetto a modificare delle variabili su un computer) ha mostrato che il medium videoludico non solo è in grado di emulare il linguaggio cinematografico, ma anche di farlo proprio e rendere possibile qualcosa che oggi, per portarlo a compimento, ha bisogno di tutta una serie di espedienti che ne rendano possibile la realizzazione.
Ovviamente, non è che Barlog e il team di Santa Monica abbiano imbracciato una macchina da presa e si siano messi a girare. Girare un film e realizzare un videogioco prevedono processi estremamente differenti, sembra superfluo sottolinearlo. Anche il piano sequenza di God of War è un piano sequenza simulato, perché messo in piedi con anni e anni di sviluppo. È un prodotto sintetico, saldato come il mostro di Frankenstein. Ma il modo in cui ci appare sullo schermo ce lo fa percepire come un qualcosa di infinito (se si riesce a non farsi sconfiggere dai nemici). Non ci sono tagli fantasma, non ci sono suture visibili. È un qualcosa che il cinema non potrà mai restituire senza diventare esso stesso un videogioco. L'interazione si fonde alla regia come effetto psichedelico.
Quale delle due ha la meglio? Nessuna. Che sia proprio questa la strada da seguire per tutti quei videogiochi che vogliono veicolare una narrazione avvincente, epica, intima, polarizzante? Il successo ottenuto ci fa pensare di sì, anche se le strade da poter seguire sono così tante da far sembrare limitante spingere in un'unica direzione. Basta guardare la deriva presa da Kojima, un ponte tra Hollywood e il mondo videoludico come non si era mai visto prima. La cosa che auguriamo all'industria è di non perdere mai quella carica eclettica, così cara a chi ancora sta cercando il suo posto nel mondo e ha tanto da dimostrare. E raccontare.
Voi cosa ne pensate del legame tra regia e videogiochi? È un qualcosa che cercate o preferite quando le due cose rimangono ben separate? La sezione dei commenti è pronta ad accogliere tutti i vostri pensieri.