MORTAL KOMBAT (Arcade) - IL VOTO DI RETROLUDICA
Il mix di grafica fotorealistica, atmosfera horror e violenza vicina allo splatter hanno reso Mortal Kombat una tappa storica nel processo di estremizzazione del gioco elettronico. Il tasso di fanatismo generato dal titolo, e la recrudescenza delle polemiche che sono seguite alla sua stigmatizzazione da parte dei benpensanti, lo hanno trasformato in un titolo cult, capostipite di una delle serie di maggiore successo della storia. Le sue numerose conversioni, e il fallimento storico di quella edulcorata da Nintendo per il suo SuperNES, hanno anche dimostrato quanto l'influenza dei contenuti gore e l'estremismo estetico facessero la differenza per conquistare i giocatori. Sono passati più di dieci anni, e come gioco Mortal Kombat ne sente decisamente il peso. Ma è anche vero che una bella Fatality retrò è quello che ci vuole, ogni tanto, per ricordarci come siamo arrivati al giorno d'oggi.
Intorno al 1993 è difficile che il ragazzino medio, che si trovasse in una sala giochi o in un negozio di videogiochi, o a discutere di questi con gli amici davanti a una console o a una rivista specializzata, non pensasse a Mortal Kombat. Il picchiaduro della Midway non era soltanto una copia di Street Fighter 2 con la grafica più simile a un film che a un fumetto. Era diventato un fenomeno popolare. Una sorta di tempio sacro rituale eretto nelle sala giochi, intorno al quale celebrare la solenne cerimonia dell’ultraviolenza videoludica; e, come per tutti i migliori picchiaduro, osannare i più valorosi giocatori, distintisi per l’abilità nel controllo o per il possesso di tecniche che consentivano l’annichilimento dell’avversario. Mortal Kombat, però, aveva qualcosa in più. Quello che lo rendeva un'esperienza completamente diversa dagli altri picchiaduro a incontri, che dall’uscita del ciclone-Street Fighter 2 avevano prosperato sotto forma di rivisitazioni, cloni e imitazioni varie, era un concetto nuovo di sopraffazione violenta dell’avversario. La sensazione di violenza realistica che Mortal Kombat era capace di trasmettere nel videogiocatore esteticamente più condizionabile era priva di precedenti, in parte per un felice comparto audio, in parte per l’aspetto visivo quasi fotografico, che conferiva all’estetica un tratto quasi fotorealistico. Ma non era certo il solo aspetto grafico ad avere conquistato i ragazzini, chè questi sarebbero subito tornati a riempire di gettoni i cabinati del più complesso e profondo Street Fighter 2. Inoltre, Pit Fighter aveva preceduto Mortal Kombat come primo picchiaduro dalla grafica fotorealistica, ma il gioco si era rivelato ben poco interessante. La rivoluzione copernicana del picchiaduro e della violenza videoludica da sala giochi era un’altra, ed era stata introdotta da Mortal Kombat: era l’ormai storica Fatality.
L’iniziazione tipica alla mania di Mortal Kombat avveniva quando il ragazzino arrivava alla sua sala giochi preferita, e notava un’inaspettata fila davanti a un nuovo gioco. Dopo qualche occhiata interessata al nuovo picchiaduro avrebbe notato il personaggio sconfitto tornare momentaneamente in piedi. Il giocatore avversario, davanti al nemico intontino, avrebbe iniziato a pigiare una strana combinazione di tasti, mentre una voce cavernosa aveva appena recitato la frase “Finish him!”. A quel punto SubZero avrebbe staccato la testa all'altro personaggio, tirandola via con tutta la spina dorsale. Scorpion avrebbe lanciato via la maschera, rivelando al di sotto un volto dal solo teschio e sputando fuoco sull’avversario, che sarebbe finito arso vivo. O ancora, Kano avrebbe piantato una mano nel petto del perdente, tirandone fuori il cuore e mordendolo. Da quel momento, la vita videoludica e sociale di quel ragazzino avrebbero avuto solo uno scopo: giocare a Mortal Kombat. L'introduzione della Fatality non era cosa da poco. La possibilità di macellare l’avversario con un colpo finale mortale e truculento a vittoria avvenuta era l’ultimo grido videoludico, qualcosa che centrava in pieno la sete di horror, splatter e violenza figurata del ragazzino e del teenager medio non ancora - o non del tutto - ottenebrato dall’inoffensività politicamente corretta dell’intrattenimento sano e educativo. Decapitazioni, carbonizzamenti e mutilazioni varie entravano a far parte del bagaglio del videogioco di massa, trasformando Mortal Kombat in un caso mediatico e persino parlamentare. Scandalo che avrebbe portato, tra le altre conseguenze, a uno dei periodi di maggiore virulenza della lunga e variegata storia di caccia alle streghe subita dal mezzo videoludico, culminato poco dopo nell’approvazione del sistema di rating ancora oggi vigente. Lo stesso sistema di controllo dei contenuti che avrebbe trovato il primo gioco da bollinare come “per adulti” in Doom.
La violenza nei videogiochi sembra oggi una componente scontata. Pensare a un panorama videoludico privo di violenza potrebbe restituire un quadro nel quale verrebbe a mancare una parte enorme dell’intera offerta contemporanea. I videogiocatori sono abituati a concepire videogiochi nei quali la sopraffazione, la lotta e il sangue, sempre più spesso molto realistici, non si limitano a colorare di rosso i videogiochi ma rappresentano spesso la loro ragione d’essere. Tuttavia, la sua affermazione passa attraverso dei casi particolari, che hanno costituito tappe dell’affermazione di soglie di rappresentazione sempre più "spinte". Mortal Kombat è una delle tappe decisive di questo percorso. Era il frutto proibito dell’albero videoludico. La reazione di condanna e censura subita dal gioco non fece altro che aumentarne la fama, rendendolo un fenomeno commerciale e di costume. La conversione per SuperNES, che venne privata del sangue e delle fatalities, venne praticamente ignorata dai giocatori, che preferirono quella, tecnicamente più limitata ma con contenuti integrali rispetto a quelli delle arcade, per Megadrive. All’epoca Nintendo era arroccata su posizioni politicamente corrette volte a sfavorire i contenuti ritenuti adatti a un sistema da gioco acquistato da famiglie per i propri bambini, e per la propria conversione fece sostituire il sangue con del grigiastro “sudore”, eliminando del tutto i colpi mortali. L’errore di immagine inferto al gioco fu tale che, coincidendo con una fase di ascesa di Sega, con il Genesis trainato da Sonic e da una campagna d’immagine azzeccata, l'affossamento del gioco da parte dei consumatori aprì un vero buco nella base installata delle console Nintendo. Nel frattempo, Mortal Kombat continuava a incassare tonnellate di monete nelle sale giochi. La violenza era diventata commerciabile.
Real Horrorshow
Violenza ed estetica a parte, c’è qualcosa che non andrebbe sottovalutato in Mortal Kombat, e che spesso viene tralasciato: il fatto che fosse un anche un gioco più che buono. Certo, la complessità dei colpi non era paragonabile a un capolavoro come Street Fighter 2, dal quale Mortal Kombat ricavava parecchio. C'erano anche delle differenze nella qualità del gioco. La parata effettuabile con un tasto a parte disorientava i più. Il set di colpi base uguale per tutti i personaggi li rendeva molto meno caratteristici, e distinguibili per il solo aspetto e le poche mosse speciali. Nel gioco Capcom, invece, ogni personaggio non si distingueva solo per i colpi speciali, ma per l’intero approccio al combattimento. Infine, Mortal Kombat appariva relativamente lento e “legnoso” nei movimenti, con collisioni molto più grossolane dei più sofisticati picchiaduro nipponici.
Nonostante tutto ciò, Mortal Kombat si faceva giocare abbastanza bene e, ciò che più conta, lo faceva con uno stile molto personale. Paragonarlo a Street Fighter 2 non è del tutto giusto, perché il titolo Midway cercava di costruire un proprio approccio al combattimento, fatto di spazzate, serie di colpi ripetuti e calci rotanti, insieme agli ormai storici uppercut iperviolenti poi trademark della serie e rimasti nella storia. A rendere unico il gioco c'era poi, ovviamnete, una caratterizzazione estetica decisamente più dark, cinematograficamente citazionista e orrorifica della dominante estetica da manga nipponico. Colpi come il congelamento dell’avversario da parte di Sub-zero, l’arpione di Scorpion o il colpo all’inguine di Johnny Cage rimangono nella memoria di un paio di generazioni videoludiche, cresciute a foglietti con i codici delle fatality nelle tasche piene di monetine all’uscita di scuola. Mortal Kombat II, il seguito, avrebbe rifinito la struttura di gioco rendendola più coesa, tecnica e frenetica, e avrebbe decisamente rincarato la dose di ultraviolenza horror, con Fatality ancora più spinte e massicce iniezioni di humour grottesco. Ma è in fondo al primo, ormai commovente Mortal Kombat che bisogna tornare per trovare una delle più salde radici dell’attuale, amatissimo ramo violento del gioco elettronico.
RetroLudica è la rubrica di vintage e classic gaming che vi porta alla scoperta dei classici del passato. Retroludica supera il paradigma del "nuovo a tutti i costi". E soprattutto punta il dita sul paradosso per cui, nella folle corsa verso il next gen di turno, il valore di un gioco viene a indentificarsi col suo livello di avanzamento tecnologico, per cui quello che viene atteso e amato viene poi abbandonato. Retroludica guarda al gioco del passato valutando il suo valore intrinseco, senza rinunciare al suo posto nella storia.
In questo numero: MORTAL KOMBAT (Arcade). Alle origini dell'attuale sdoganamento della violenza giocabile c'è una serie di giochi che hanno, di volta in volta, sfidato i limiti di ciò che poteva essere rappresentato. Mortal Kombat ha segnato una tappa di questa storia con un gore violento, orrorifico, verosimile. Un vero cult della storia videoludica.