"Dividiamoci! Chi c'è? Sei tu? Vado a controllare." Questi sono soltanto alcuni dei numerosi esempi che, in un horror, precedono la più o meno violenta dipartita di almeno uno dei personaggi, davanti al nostro sguardo oltraggiato e accompagnato da una serie di insulti misti a considerazioni sopra le quali ne spicca una in particolare: io non l'avrei fatto. Quante volte guardando un film horror abbiamo inveito contro i protagonisti e la loro stupidità nell'andare incontro al pericolo, a dispetto dei tantissimi segnali che gridano di non farlo? Quante volte, peraltro, in suddette situazioni ci si sono cacciati di loro spontanea volontà dimostrando un discutibilissimo attaccamento alla vita? Ci sono occasioni in cui il pericolo è imprevedibile e la narrazione lo impone come inevitabile, impossibile da anticipare, mentre in altri casi è la premessa affinché la storia possa esistere: se i personaggi non avessero compiuto quell'azione ad alto tasso di stupidità, saremmo già ai titoli di coda festeggiando l'happy ending. Nel frattempo dal lato opposto ci siamo noi, comodamente seduti sul divano, che pontifichiamo su queste decisioni spesso domandandoci come diamine facciano a ignorare l'ovvio e mettendoci esasperati le mani nei capelli quando, puntualmente, muoiono.
Cosa succede però quando veniamo coinvolti in prima persona? Quando il destino di un personaggio è nelle nostre mani e quella razionalità che tanto adoriamo applicare da spettatori si scopre fallace? Supermassive Games è qui per metterci di fronte proprio a questo: gli autori di Until Dawn, The Dark Pictures: Man of Medan e The Dark Pictures: Little Hope (in uscita il prossimo 30 ottobre) hanno davvero molto in comune con la narrazione cinematografica ma offrono l'unica cosa che a quest'ultima manca, ovvero la possibilità di scegliere. E ci fa rendere conto di come quel "io non l'avrei fatto" perde valore in un horror, dove le logiche più ferree vengono piegate dall'imprevedibilità, da incognite che per quanto improbabili sì, esistono.
Io non l'avrei fatto ma poi...
Già in Until Dawn, nonostante la natura più materiale dell'horror per la presenza del Wendigo e dunque con scelte a tratti meno sfumate, ci siamo resi conto che assistere è una cosa ma trovarsi nel mezzo è totalmente differente. Se da un lato alcuni pericoli mortali erano del tutto evitabili - insomma, chi all'interno di una miniera abbandonata sbloccherebbe una botola da cui ha sentito dei rumori credendo si tratti dell'amica? Eppure... - dall'altro c'erano scelte le cui conseguenze si sarebbero manifestate più in là nel tempo, rapporti interpersonali da gestire pena un'intelligenza artificiale che si sarebbe rivoltata contro di noi lasciandoci morire senza poter fare nulla. O decisioni all'apparenza migliori rispetto all'alternativa e che invece ci hanno condotto verso una morte inevitabile e imprevedibile.
Per certi versi, Man of Medan è stato inferiore dal punto di vista dell'intreccio e delle relazioni tra i personaggi ma ha contribuito a sfumare un po' di più alcuni frangenti già in precedenza difficili da interpretare con quella razionalità che ci piace applicare nella sicurezza di essere spettatori, spesso a causa di un tempo di reazione molto limitato (come del resto sarebbe se quel contesto fosse reale) ma non sempre: ci sono state, e sembrano esserci ancora di più in Little Hope, casi in cui è stata la nostra stessa razionalità a rivoltarcisi contro perché in un contesto pensato per andar male nella maggior parte dei casi tendiamo ancora e comunque a fidarci della nostra ragione; di un raziocinio che copre uno spettro di possibilità piuttosto ampio, dal "questo è frutto della mia immaginazione, non può davvero ferirmi (e invece...)" fino al considerare un'opzione con il minor fattore di rischio quella applicabile, salvo poi morire comunque.
Ragione e sentimento
La vera forza di un horror, quando scritto bene, è trasformare le nostre migliori difese nelle peggiori debolezze, far sì che la nostra razionalità diventi un'arma attraverso la quale mettere in dubbio le fino ad allora incrollabili certezze, la percezione, fino a portarci a dubitare non più di noi stessi ma della visione che abbiamo sempre avuto del mondo quando ormai è tardi o c'è ben poco da salvare. Giocare con il nostro rifiuto verso ciò che non comprendiamo, o non razionalizziamo, è essenziale per questo genere di esperienze e funge da collante affinché la trama resti unita ma non sarebbe abbastanza se non sfruttasse proprio questa messa in discussione di noi stessi e della nostra percezione per creare la sensazione di orrore: in questo Man of Medan era ottimo, o meglio lo sarebbe stato se non avesse ripercorso così fedelmente una leggenda che, per chiunque la conoscesse (o si fosse fatto un rapido giro su Wikipedia prima di giocare), annullava senza rimedio quella costruzione fondamentale per renderci quei personaggi che tanto amiamo criticare quando li osserviamo dall'esterno.
Il concetto di fondo però rimane quello, che speriamo venga sfruttato meglio in Little Hope, di giocare sulle nostre percezioni fino al punto in cui persino la decisione più ovvia non può essere presa tanto alla leggera; qualcosa che spesso esula dall'orrore in sé per sé, ad esempio affrontare un Wendigo faccia a faccia, per espandersi anche alla narrazione ambientale e tradire qualunque nostra aspettativa mettendo in gioco incognite che, per definizione, non potremo mai conoscere finché non ci troviamo inguaiati fino al collo. Posto che quel collo sapremo salvarlo. Perché noi spettatori, al sicuro sul nostro divano e spesso onniscienti rispetto ai singoli protagonisti, possiamo permetterci l'arroganza di dire "io non l'avrei fatto". Nell'attimo in cui però diventiamo quei personaggi scopriamo quanto quella razionalità sia più pericolosa degli orrori che stiamo vivendo o finiremo presto a vivere.