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The Last Of Us 2, quando il cinema entra in gioco

Quanto il mondo dei videogiochi deve al cinema? Possiamo definirli come due media affini? Cerchiamo di capirlo prendendo come esempio The Last Of Us 2

SPECIALE di Mattia Pescitelli   —   06/07/2020
The Last of Us Parte II
The Last of Us Parte II
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I videogiochi sono costantemente afflitti da un termine di paragone molto stringente: quello con il mondo cinematografico.
Da anni giocatori, sviluppatori, addetti ai lavori, persino teorici e critici provenienti da altre discipline si sono chiesti quanto questi due media abbiano in comune e fino a dove ci si può spingere per considerarli simili (o, addirittura, uguali). Tematica, questa, che con l'arrivo di titoli come Uncharted 4: Fine di un ladro, God Of War, Death Stranding e, fresco di rilascio, The Last Of Us 2 torna a infiammare vari campi di studio, il più delle volte portando a risultati poco soddisfacenti.
Probabilmente è una questione che impiegherà ancora diversi anni prima di portare a una visione magari sfaccettata, ma quantomeno ordinata di questa situazione (se mai ci arriverà). Lungi da noi voler trovare una soluzione a questo dilemma qui e ora: preferiamo prendere in esame, appunto, l'ultimo titolo Naughty Dog e cercare quei punti di contatto con il medium cinematografico (e, perché no, anche televisivo), spaziando tra teorie, analisi tecniche, citazioni e digressioni riguardo argomenti affini. Addentriamoci, quindi, in questa analisi cinematografica di The Last Of Us 2.

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Il seguente articolo contiene spoiler rilevanti riguardo la storia principale di The Last Of Us 2. Vi consigliamo, pertanto, di continuare la lettura solo se avete portato a termine il gioco.

Quanto la regia influisce in The Last Of Us 2?

Neil Druckmann non usa mezzi termini. Nei credits del gioco il suo nome appare subito sotto a un bel "directed by", esattamente come quello di un qualsiasi regista cinematografico. Non è il primo, ovviamente, e non sarà neanche l'ultimo.
Questa svolta autoriale sembra rappresentare una carta vincente, sia perché, come abbiamo già visto in passato, ripaga e permette a un titolo e al suo ideatore di rimanere nell'immaginario collettivo per svariato tempo, sia perché la costruzione di un nome riconosciuto spesso permette una grande libertà in termini di scelte e sviluppo, nonché di finanziamenti, portando anche a un'attesa maggiore riguardo il prossimo titolo in sviluppo e, quindi, a una maggiore copertura mediatica.
Poi non sempre è così (prendiamo come esempio cinematografico Martin Scorsese, che negli ultimi anni, prima di The Irishman, ha girato i suoi film in modo quasi esclusivamente indipendente, come ha raccontato durante un incontro alla Festa del Cinema di Roma), ma sicuramente è un traguardo che molti all'interno dell'industria videoludica vogliono raggiungere, anche perché, al momento, la competizione è veramente poca.

Questa volta senza Bruce Straley al fianco, la regia di Druckmann è in linea con quanto visto nel primo capitolo, ma si avverte sin da subito una sorta di maturità acquisita attraverso l'altro importante passaggio del creative director: Uncharted 4.
La prima grande differenza risiede nel modo in cui si apre la nuova avventura. Nel gioco del 2013, il prologo (inteso qui come il momento che va dall'inizio fino all'apparizione del titolo) era qualcosa di molto ansiogeno, creava un senso di impotenza ben definito e la tensione continuava a salire, fino a raggiungere l'apice del climax rappresentato dalla morte della figlia di Joel.
Era vorticoso nel suo incedere, lasciava poco spazio al ragionamento compiuto e spingeva a proseguire in modo scomposto verso i vari punti predisposti dagli sviluppatori, senza far venir voglia di trovare vie alternative, in quanto i giocatori venivano messi subito faccia a faccia con un pericolo sconosciuto (pur trattandosi di infetti, nemici non nuovi all'interno dell'immaginario videoludico). Solitamente non ci saremmo fatti troppi scrupoli ad affrontare a testa bassa i non morti, anche se disarmati, ma il fatto di avere una bambina in braccio cambiava totalmente la prospettiva e portava quindi a seguire per filo e per segno la via "più sicura".

Nel caso di The Last Of Us 2, invece, è la tranquillità che invade la scena, inframezzata da flash disturbanti. La storia di Joel (utile sia per informare un personaggio cruciale per la narrazione come Tommy che, allo stesso tempo, per rinfrescare la memoria del giocatore) è rappresentata come un momento di "calma apparente", una tranquilla conversazione tra due fratelli che comincia con un carrello all'indietro da un dettaglio, ovvero la falena incisa sulla chitarra che Joel sta sistemando per Ellie (il gioco, non a caso, si chiude nel modo inverso, con un carrello in avanti verso il manico della chitarra, come a chiudere un cerchio aperto all'inizio dell'avventura).
Tuttavia, il racconto dell'ex protagonista è estremamente inquietante, cosa sottolineata sia dalla colonna sonora che da alcuni primi piani sul volto di Joel, solcato da un'espressione seria quanto spaventosa nella freddezza con la quale racconta la sua decisione di salvare una sola persona a scapito dell'intera umanità. Già da quel momento possiamo capire che ci saranno delle conseguenze per le sue azioni.
L'esitazione legata a quello sguardo lapidario prima di dire "l'ho salvata" è estremamente eloquente in tal caso. Ma non solo. Anche il flashback sul quale Druckmann taglia subito dopo, contraddistinto da cadaveri ricoperti di sangue e dal suono sordo di un rilevatore di battiti cardiaci che lacera l'ammutolito paesaggio sonoro, può far attivare un campanello d'allarme per quello che poi ci troveremo ad affrontare.

Quel corridoio con alla fine la porta rossa della sala operatoria e il simbolo delle Luci sulla parete, l'indugio sul sangue che sgorga lentamente dal corpo esanime del dottore che stava per operare Ellie (indugio che troviamo anche qualche inquadratura prima, quando il medico cerca di convincere Joel), sono tutti segnali indiretti di quello che sarà il fulcro dell'avventura, ovvero la costante ricerca della vendetta, prima da parte di Abby per l'assassinio di suo padre, poi da parte di Ellie per quella di Joel.
Già solo quest'introduzione mostra un cambio di rotta abbastanza importante rispetto al primo capitolo. Mentre il gioco del 2013 sembrava accostarsi molto più al tipo di narrazione e tematiche che potrebbe trattare una serie tv (con tanto di sigla iniziale, che spesso è presente anche nei film, ma in minor parte rispetto al cinema che si è affermato negli ultimi anni), l'ultima fatica di Naughty Dog sembra tendere più verso una ricercatezza autoriale inedita rispetto al passato del team. Con Uncharted 4 si potevano già vedere i semi di questa tendenza, ma l'uscita di scena di Straley ha forse permesso a Druckmann di incanalare una visione più unitaria e intima all'interno di un'opera comunque molto importante come poteva essere il seguito di The Last Of Us.

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Alla base della teoria: il concetto di ibridazione

Prima di proseguire, cerchiamo di vedere un po' più da vicino quali sono le motivazioni per cui si sono iniziati ad associare i videogiochi al cinema (ma non solo). Ciò che spinge maggiormente a considerare il mezzo videoludico un diretto discendente, se non addirittura un fratello minore della cinematografia è il concetto di ibridazione proposto da Marshall McLuhan.
Per il sociologo canadese, i media si ibridano costantemente tra loro, riescono a trovare una linea di dialogo diretta che permette a tutte le parti in causa di acquisire "conoscenze" prima precluse o, magari, poco sviluppate. In questo senso, i videogiochi avrebbero preso dal cinema nella stessa misura in cui il cinema ha preso da essi.
Facciamo degli esempi. Tralasciando i collegamenti diretti scaturiti dai vari tie-in cinematografici di videogiochi più o meno affermati (questione il più delle volte commerciale, che di rado può essere utile alla concezione di ibridazione tra media), film come Lola corre di Tom Tykwer o Source Code di Duncan Jones o, ancora, Edge Of Tomorrow di Doug Liman (ma, in definitiva, tutti i film in stile "giorno della marmotta") presentano una diretta relazione con le regole base del mondo videoludico (almeno di una certa tipologia): il protagonista ha un tempo limite in cui deve svolgere un'azione che permetta la riuscita di qualche tipo di obiettivo; se muore ha la possibilità di ripetere la stessa situazione fino a che non avrà trovato un modo per raggiungere il suo traguardo; ogni fallimento gli permette di comprendere meglio l'ambiente circostante e di utilizzarlo a suo vantaggio. Quindi abbiamo il respawn, la ciclicità di una partita (spesso a tempo) e l'acquisizione di esperienza man mano che si "gioca" (nel caso di Source Code, anche la presenza di un avatar "di gioco"). Difficile non riconoscere una certa somiglianza con il mondo videoludico.
A sostenere questa tesi, inoltre, troviamo il fatto che queste produzioni sono arrivate con quello che i più definiscono il postmodernismo cinematografico, quindi tra gli anni '80 e '90, periodo che vede comunque un'affermazione sempre più rilevante dei videogiochi all'interno dell'immaginario sociale.

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Passiamo ora alla controparte videoludica. Abbiamo visto nel corso degli anni svariati titoli narrativocentrici con una marcata indole autoriale e registica. Dai vari God Of War (culminati nel 2018 con un remake che volendo porta la questione cinema-videogioco a tutt'altro livello di analisi), ai titoli di Hideo Kojima, fino ad arrivare alle narrazioni (almeno le ultime) di Naughty Dog, di cui la più recente istanza è quella presa attualmente in analisi.
L'idea di ibridazione scaturisce, innanzitutto, come già accennato, dal directed by che molte volte compare nei titoli di testa o di coda, ma soprattutto dalla grammatica cinematografica, che gli autori fanno propria per dare più spessore alle loro storie e recare un certo senso di "familiarità" all'opera videoludica. Attraverso questi codici, infatti, i giocatori riescono a comprenderne ciò che viene mostrato in quanto ne identificano le caratteristiche. Non serve che conoscano per forza le regole di queste tipologie di narrazioni: il messaggio generale tenderà comunque ad arrivare al destinatario grazie al fatto che quest'ultimo esperisce questa "grammatica" praticamente da tutta la vita (è un po' il concetto dei film blockbuster, creati per le masse che magari non conoscono il nome di ogni movimento di macchina, ma che riescono comunque a discernere una sequenza ben riuscita da una realizzata male).
Quindi troviamo piani sequenza, campi e controcampi (questi presenti anche nei GDR con una presenza registica praticamente assente), carrelli, zoom. Insomma, tutto quello che ci aspetteremmo di trovare al cinema torna in maniera spesso preponderante anche all'interno del mondo videoludico. Poi, ovviamente, la totale libertà di movimento all'interno di un mondo creato al computer, che non necessita di impalcature o particolari difficoltà logistiche e tecniche per posizionare una macchina da presa, rendono le possibilità di scelta sostanzialmente infinite.
Tuttavia, gli ultimi anni ci hanno dimostrato come sia presente, comunque, una certa voglia di rimanere "ancorati al suolo", di non avventurarsi in virtuosismi troppo elaborati e di restare fedeli a una sorta di riproduzione del mezzo filmico, senza andare a intaccare più del dovuto il suo statuto.

Questo è quanto si trova alla base dell'idea di ibridazione, teoria portata avanti poi da altri teorici, che hanno ampliato gli studi di McLuhan, in primis il duo Bolter e Grusin, con la loro teorizzazione della rimediazione, ovvero della sopravvivenza di ogni medium all'interno di quello che lo segue. Se ci si fa caso, tutti i media contengono parte di ciò che c'è stato prima di loro, dalla fotografia, al cinema, alla televisione, fino ai social media.
Nessun medium muore, ma casomai si insinua nel suo successore e rimane in vita, anche se non più al centro dell'attenzione, ma solo come parte marginale di esso.

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Una questione di carattere

Tornando all'oggetto in esame di questo articolo, ci piacerebbe discostarci momentaneamente dall'ambito meramente tecnico per approfondire un po' più i personaggi, dato che sono una componente essenziale praticamente di ogni tipo di narrazione, non solo cinematografica o videoludica.
Come abbiamo visto, le due protagoniste sono entrambe spinte tra le braccia della vendetta dalla perdita di una figura paterna (da un lato biologica, dall'altro acquisita). In definitiva, Abby e Ellie sono due personaggi speculari. Giovani ragazze che hanno perso un importante punto di riferimento; rivali, ma affini (è interessante notare come a entrambe piaccia lo stesso genere letterario, al quale fanno riferimento in momenti differenti della storia).
Questa assenza improvvisa di una "figura protettrice" ha un effetto molto interessante sul personaggio di Abby. A prima vista vediamo una donna estremamente muscolosa, che (se prendiamo in considerazione il puro aspetto iconografico) fa subito balzare alla mente l'idea di un personaggio con una certa forza di carattere. Tuttavia, man mano che scopriamo la sua storia, individuiamo una personalità molto più complessa. Il fatto che pianga durante l'assassinio/tortura di Joel ne è una caratteristica fondamentale, che porta a notare una certa profondità psicologica. Non solo. Più esploriamo il suo personaggio, più vediamo una certa volontà di risparmiare il maggior numero di persone possibili. Abby deve essere veramente in pericolo di vita o accecata totalmente dalla rabbia per far sì che sprigioni tutta la sua furia.
Quindi l'aspetto esteriore sembra essere solo una corazza, una fortezza costruita per proteggere un sé ferito dalla perdita dell'unica figura di cui si fidava ciecamente e sulla quale poteva sempre contare. L'aspetto esteriore è utilizzato come repellente contro i pericoli del mondo. Non è altro che una maschera, e questo è molto probabilmente il motivo che rende il personaggio di Abby tanto interessante.

Recuperando le similitudini tra le due protagoniste, anche il fatto di trovare ambo i lati una donna incinta porta a un importante capovolgimento sia per il personaggio di Ellie che per quello di Abby. Quando la prima scopre di aver ucciso Mel, sembra associare immediatamente quest'ultima a Dina, la sua ragazza, innescando un processo di identificazione che la porta ad avere un forte senso di colpa per l'azione compiuta.
Stessa cosa succede ad Abby, ma con conseguenza opposta. Quando viene a conoscenza della condizione di Dina, infatti, è pronta a ucciderla, ma viene fermata da Lev, che la fa desistere, probabilmente portandola allo stesso processo identificativo sperimentato da Ellie, ma, in questo caso, spingendola a risparmiare la ragazza.

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La spinta identificativa

Ciò che proviamo quando giochiamo a The Last Of Us 2 è praticamente impossibile da replicare a livello puramente cinematografico. La narrazione, semplicemente, non avrebbe avuto lo stesso effetto se fosse stata utilizzata, così com'è, per la creazione di un film.
Infatti, la possibilità di slegarsi dall'orario ristretto di una produzione cinematografica permette di esplorare in modo molto più approfondito le vicende parallele che si vengono a creare. Una questione, questa, che ricorda molto più la struttura delle serie tv (come già accennato per il primo capitolo), ma che vede una differenza fondamentale anche in questo caso: siamo proprio noi a svolgere quelle azioni, a premere compulsivamente il tasto quadrato per affondare lentamente una lama o per abbattere un tubo di piombo contro quello che a prima vista ci appare come un nemico.

Il cambio di prospettiva, in tal senso, è distruttivo per il giocatore. Personaggi che consideravamo cattivi, che in qualunque altro gioco avremmo eliminato senza problemi, diventano improvvisamente nostri alleati.
Tutti quei nemici che abbiamo ucciso a sangue freddo, accecati dalla voglia di vendetta per un personaggio con il quale avevamo condiviso un'avventura intera, "tornano in vita" e si mostrano per quello che sono veramente: persone normali che cercano solo di sopravvivere. Perché alla fine questo è ciò che si trova alla base del gioco: la sopravvivenza e la salvaguardia del proprio gruppo familiare, legami di sangue o meno. Non ci sono cattivi. Anzi, molto probabilmente anche l'ultimo gruppo che viene introdotto, con la base in California, ha comunque le sue motivazioni per comportarsi in quel modo, ma non ci fermiamo a chiedere perché siamo troppo indaffarati a farci strada tra i loro cadaveri per trovare Abby e chiudere i conti. Tuttavia, il fatto di aver provato sulla nostra pelle quel cambio di prospettiva ci porta a domandarci se stiamo facendo la cosa giusta oppure se non stiamo semplicemente iniziando nuovamente quel ciclo di morte e violenza irrazionale scaturito dalla sete di vendetta.

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Questa tematica non è nuova al mondo dell'intrattenimento. Per rimanere in tema "infetti", anche una serie come The Walking Dead, pur in modo molto meno concentrato e marcato, porta sullo schermo questa destrutturazione della dicotomia bene/male.
Nella serie AMC (senza fare spoiler), torna in diverse occasioni questa "zona grigia", a volte incarnata da Rick e il suo gruppo, altre volte dalle comunità rivali. "Niente di nuovo sotto il sole, quindi", potremmo dire. Non proprio, perché a mancare alla serie tv tratta dai fumetti di Kirkman è l'interattività.
Il fatto di compiere noi stessi quelle azioni così efferate porta veramente a domandarsi se ciò che si sta facendo sia giusto o sbagliato, spingendo perfino il giocatore a non voler compiere determinate azioni. Ne è una prova il combattimento finale.

Arrivati ai "pali" ci viene fatto credere che non succederà niente, che Ellie abbia visto Abby e Lev in quelle condizioni e che abbia cambiato idea. Tutto muta nuovamente, però, quando uno stacco ben piazzato fa soffermare il nostro sguardo molto più che in passato sul mezzobusto massacrato di Joel, steso a terra, senza vita. Come a voler rispolverare l'effetto Kulešov, il volto di Ellie sembra assumere tutta un'altra espressione dopo che Druckmann ci ha mostrato quel "quadro" così violento, quasi sempre nascosto alla vista dello spettatore per l'intera storia.
In quel momento, cambia nuovamente la nostra percezione degli eventi, ma risulta comunque difficile giustificare il fatto di dover uccidere a tutti i costi Abby. Ovviamente, poi, il tutto dipende da quanto ci siamo identificati con l'uno o l'altro personaggio, quanto siamo riusciti ad apprezzarli a un livello strettamente personale. Se (come chi scrive) avete vissuto un cambio totale di prospettiva, premere ripetutamente quel quadrato e ferire Abby diventa una questione non da poco, che trova tutta la sua catalizzazione quando si è in procinto di affogarla. Diventa un processo meccanico, automatico, che non riuscite e non potete fermare perché sapete che sareste destinati a ripetere ancora e ancora quel momento, fino a che non sarete andati fino in fondo.
Fortunatamente (o sfortunatamente, a seconda di come avete vissuto i diversi eventi), Joel torna a riempire la scena, questa volta seduto sul portico a suonare la sua chitarra, per poi rivolgere lo sguardo verso di noi. Diventa il freno che conclude quel ciclo di vendetta apparentemente senza fine. La causa scatenante è anche la cura.

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Forse non è un caso che, come buona parte del cinema d'autore italiano, la conclusione di questi dilemmi si svolga sulla riva del mare. Come il Marcello de La dolce vita o l'Antonio de La voglia matta e gran parte degli altri protagonisti afflitti da una crisi identitaria e sociale, persi sulla spiaggia, luogo di abbandono e "svestizione" (cosa che possiamo riscontrare principalmente in Abby attraverso la perdita della sua corazza di muscoli) da tutte le convenzioni sociali, dove chiunque può essere chi vuole, ultimo baluardo tra la civiltà e un mondo selvaggio avverso alla colonizzazione dell'uomo, Ellie è incapace di capire fino a che punto si sia spinta pur di vendicare un uomo a lei caro, non sa più chi sia e cosa questa società (o, meglio, questo mondo) l'abbia fatta diventare.
A differenza del personaggio felliniano e dei suoi coetanei, condannati alla loro condizione, per comprenderlo dovrà ripercorrere i suoi passi e tornare a riappropriarsi di ciò che aveva, ma che ha deciso di perdere in favore di una vendetta che non ha mai giovato a nessuno.

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Il cinema nel mondo di The Last Of Us 2

Il cinema è presente all'interno del mondo di The Last Of Us 2 in due modi: attraverso citazioni (dirette o indirette) e come parte integrante di un determinato immaginario ereditato dal mondo del passato e tenuto in vita da chi ricorda com'era "prima".
A livello di citazioni, il gioco esalta in modo più che esplicito l'omaggio a Jurassic Park attraverso il livello del compleanno di Ellie ambientato in un museo di storia naturale. Diverse linee di dialogo, pur non nominando mai direttamente il film, ne citano le caratteristiche, l'importanza mediatica e la scarsa riuscita dei sequel, scherzando anche riguardo l'inaccuratezza di alcuni particolari. Inoltre, nello stesso livello è presente un cappello da paleontologo che non può non ricordare quello di Indiana Jones ("figlio" anche questo di Spielberg), che possiamo posizionare su uno dei fossili, come a instaurare una connessione e una sorta di dialettica tra le varie opere del regista, che sono state fondamentali per la rinascita di un certo cinema mainstream, introducendo una serialità cinematografica senza precedenti e una concezione del cinema come momento d'incontro e "gioco" tra pubblico e regista.

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Relegato al solo ambito visivo è l'effetto delle vertigini di Abby, che (anche se può non essere per forza una citazione voluta) deriva da La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock, che da quel punto di vista ha settato uno standard ben preciso, utilizzando in modo rivoluzionario i nuovi obiettivi zoom che iniziavano a diffondersi in quegli anni.
Una sensazione di "familiarità" c'è l'ha data anche l'hotel che Joel e Ellie si ritrovano a esplorare durante un ricordo. Quel salone principale dove veniamo assaltati dagli infetti, con quelle vetrate così ampie, ci ha ricordato l'Overlook Hotel di Shining.

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Ma non è l'unica "sensazione cinematografica" che abbiamo provato. Infatti, la sequenza della fuga all'interno del villaggio dei Serafiti in fiamme ci ha ricordato l'atmosfera di Apocalypse Now, con questo cielo solcato dalle fiamme e dal fumo, le capanne in cenere. Sembrava un vero assalto americano. Mancava la Cavalcata delle Valchirie di sottofondo e sarebbe stata una scena degna di Coppola. Come già accennato, però, questa è stata solo una sensazione. Non è detto che abbiano voluto richiamare a quell'immaginario specifico.
Tuttavia, ci è balzato alla mente questo film anche perché ha fatto capolino spesso all'interno del mondo dei videogiochi, specie negli ultimi anni. Facciamo riferimento alla scena dell'emersione dall'acqua di Martin Sheen, ripresa sia da Kojima in Death Stranding che dal team di Crystal Dynamics in Shadow Of The Tomb Raider.

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Il cinema, invece, trova spazio come una sorta di personaggio all'interno del gioco nel momento in cui viene rappresentato come un punto focale delle vicende narrate.
Infatti, il teatro nel quale si rifugiano Ellie e Dina e che fungerà da quartier generale per i membri della "spedizione punitiva" provenienti da Jackson, non è altro che uno di quei vecchi edifici teatrali riconvertiti a sala cinematografica, molto diffusi negli Stati Uniti.
Anche se dietro le quinte si possono trovare tantissimi oggetti di scena, possiamo notare come gran parte di essi sembra ricordare quel tipico stile espressionista e art déco in voga tra gli anni '20 e '30. Nulla toglie che potrebbe ovviamente rappresentare la scenografia di un'opera teatrale andata in scena poco prima del contagio, ma potrebbe anche voler sottolineare, data la presenza nella sala regia di un proiettore, la conversione del teatro in cinematografo, oppure, l'utilizzo ambivalente dello stabile.

Nel gioco, inoltre, abbiamo incontrato altre due sale cinematografiche: una a Jackson e un'altra a Seattle. La presenza di questi luoghi ormai abbandonati evidenzia una reminiscenza di ciò che è stato quel medium, evocata anche dalle "serate cinema" sia tra Ellie e Joel, che tra Ellie e i suoi amici. Una tradizione che fa fatica a morire, anche quando la vita sulla Terra sembra essere agli sgoccioli.

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Un piano sequenza per domarli tutti

La tecnica cinematografica del piano sequenza non è nuova al mondo videoludico. Basta guardare l'apice di tale procedimento, ovvero il remake di God Of War, costruito come un'unica sequenza continuata di gioco, esente da caricamenti visibili e tagli di alcun tipo (eccezione fatta per i game over).
Sicuramente, la possibilità di poter controllare ogni singolo aspetto del mondo che si va a rappresentare permette una più facile gestione di questa tecnica, che nel cinema ha visto una grande rinascita negli ultimi anni, ma una difficoltà nel processo di realizzazione non indifferente. Non a caso Arca Russa di Alexandr Sokurov rimane uno dei pochissimi esempi di film realizzati completamente in un unico piano sequenza continuo (pellicole come Birdman o 1917, pur dando l'illusione di essere composti da un'unica ripresa continuata, utilizzano svariate tecniche per fondere insieme più sequenze girate in momenti differenti).
Questo ci dice molto riguardo quella teoria dell'ibridazione di cui parlavamo prima. In questo caso, il videogioco prende dal cinema e, in un certo modo, dà una maggiore concretezza e attuabilità a una tecnica acquisita dall'incontro tra due media.

Facciamo un altro esempio, questa volta prendendo a piene mani da The Last Of Us 2, dato che nel gioco è presente un piano sequenza (tra l'altro utilizzato come trailer dal team di sviluppo in occasione del Paris Games Week 2017). Ci riferiamo al momento in cui Abby viene catturata dai Serafiti e sta per essere impiccata. In questo caso, balza subito alla mente un'altra caratteristica fondamentale: la gestione della violenza.
Pur essendo il piano sequenza utilizzato la maggior parte delle volte all'interno del medium cinematografico per rappresentare le scene d'azione, viene da sé che serve comunque una certa dose di simulazione per permettere agli stunt di non uccidersi tra loro. Questo porta solitamente a una scelta coreografica più incentrata sullo spettacolare e sullo scenografico, rendendo le scene senz'altro gradevoli all'occhio, ma meno alla mente.
Nel caso di The Last Of Us 2, invece, assistiamo a una rappresentazione cruda della violenza, molto più disturbante. Dal momento in cui "spezzano le ali" a Yara siamo testimoni di una spirale vorticosa di situazioni impossibili da ricostruire su un vero set se non attraverso un fortissimo utilizzo della computer grafica. Ciò è chiaro dal momento in cui le frecce di Lev si conficcano in modo disarmonico nella testa del fanatico che sta per rompere l'altro braccio alla sorella, fino ad arrivare al martello scaraventato con tutta la forza da Yara sul cranio della donna serafita, con il sangue che scorga sul volto di quest'ultima, i cui occhi lentamente perdono il bagliore della vita e i cui muscoli facciali si rilassano fino a perdere ogni goccia di vigore. Il tutto mentre Abby ha una corda stretta intorno al collo. Ricreare una scena del genere con attori dal vero non solo sarebbe un dispendio non indifferente di denaro (non che i videogiochi siano esenti da costi produttivi ingenti), ma anche un'impresa titanica per un gran numero di registi. Questo non significa che non può essere fatto in alcun modo al di fuori del mondo videoludico, anzi. Vogliamo solo sottolineare che avere a disposizione un ambiente completamente controllabile, dove ci si può soffermare più di un secondo su di un dettaglio senza rischiare di mostrare artefatti tecnici, è sicuramente un incentivo che permette agli autori di avere molto più spazio di manovra.

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A rischio di divagare, vorremmo spendere due parole riguardo l'introduzione di Lev. Al giocatore viene presentato come un ragazzino che sta scappando insieme alla sorella dalla sua gente, i Serafiti, perché vogliono ucciderli per motivi a noi ignoti (almeno inizialmente). Non ci sono indizi che facciano pensare all'inserimento di una dinamica transgender. Il suo aspetto androgino (rilevante, in questo senso, anche la scelta del nome della setta, che richiama al romanzo Séraphîta di Honoré de Balzac, dove il protagonista è proprio un individuo androgino), presentano il personaggio già nel modo in cui si identifica. Di conseguenza, anche lo spettatore/giocatore lo identifica in quanto tale e, anche quando viene a conoscenza della sua storia, lo riconosce per ciò in cui egli stesso si riconosce. Può sembrare un cosa da poco, ma all'interno di un medium estremamente sessualizzato e stereotipato come quello videoludico (e non solo) è sicuramente un grande passo in avanti. Assistiamo a una normativizzazione di dinamiche molto importanti all'interno della società contemporanea, che fin troppo spesso vengono sfruttate in modo superficiale da produttori in cerca di un consenso facile da parte del pubblico più giovane e socialmente attivo.

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Cinema o videogioco?

Dopo questo lunghissimo articolo, sembra evidente che non è il videogioco a essere diventato cinema, né tanto meno il cinema a essere diventato videogioco. Entrambi i media hanno dimostrato di saper riadattare alcune caratteristiche della controparte, di ibridare degli elementi e farne, molto spesso, un utilizzo migliore rispetto al "rivale" mediatico.
The Last Of Us 2 deve tutto al cinema (ma non solo), dall'ambientazione, alle tecniche di ripresa, alla simil-grana da pellicola, che ricorda molto da vicino quella che contraddistingue l'estetica del già citato The Walking Dead (in parte utilizzata per richiamare una sorta di "sporcizia" di fondo venutasi a creare in un mondo degradato, dove si fa di tutto pur di sopravvivere; in parte utile a coprire alcune imperfezioni dovute comunque all'hardware sul quale gira il gioco).
Il risultato finale, tuttavia, è qualcosa di estremamente peculiare. Lo rendono evidente già solo il tono così maturo, privo di spettacolarizzazioni (eccezione fatta per l'assalto al villaggio dei Serafiti), con questa colonna sonora delicata, raramente invadente, perfettamente integrata tra una sequenza e un'altra, ultimo bastione tra la scena e i costanti stacchi su nero. Sotto questo punto di vista, Gustavo Santaolalla ha cambiato paradossalmente quanto aveva fatto con il primo capitolo della serie, riproponendo un tema principale più intimo, quasi desolato, come a sottolineare l'avvicendarsi di eventi che non sono facilmente digeribili, che sono pensati per far riflettere chi sta vivendo l'avventura.
Tutti questi elementi, solo esternamente uniti da un velo di cinematograficità, hanno portato alla creazione di The Last Of Us 2, un prodotto troppo ampio per poter essere definito mero cinema o per essere etichettato come "solo un videogioco".

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Questa è stata la nostra analisi cinematografica di The Last Of Us 2 (ma, come avete avuto modo di leggere, non solo). Probabilmente è un po' confusionaria, ma non è semplice trovare un qualche tipo di continuità in questo panorama mediale così sfaccettato.
Ora, però, vogliamo sentire anche la vostra. Perciò, condividete con noi e gli altri lettori le vostre sensazioni o le citazioni cinematografiche che avete trovato (sicuramente ce ne è sfuggita qualcuna).
Come detto all'inizio, questi sono discorsi che continuano a smuovere studiosi e teorici, quindi il dibattito è aperto.
Se per voi ciò che abbiamo scritto non ha senso, oppure avete altri punti di vista riguardanti la questione o, ancora, avete riscontrato altre caratteristiche che non abbiamo preso in esame, non abbiate paura di farvi sentire nei commenti (anche se molto probabilmente non c'è bisogno di dirvelo) e vediamo cosa riusciamo a tirare fuori da questa situazione caotica e piena di pareri differenti.