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The Last of Us 2 e il coraggio di osare: un prezioso ritorno alla libertà autoriale

The Last of Us 2 dimostra come la libertà autoriale sia un aspetto prezioso per dare un'identità al proprio videogioco, soprattutto sul fronte narrativo.

SPECIALE di Alessandra Borgonovo   —   19/06/2020
The Last of Us Parte II
The Last of Us Parte II
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The Last of Us 2 è il titolo del momento: per un motivo o per l'altro, nel bene o nel male, ha polarizzato l'attenzione del pubblico per lungo tempo - purtroppo anche a causa dei leak - e ora che i giocatori possono testare con mano le sue potenzialità si prospetta una seconda ondata di chiacchiere attorno all'ultima fatica di Naughty Dog. Con la nostra recensione vi siete potuti fare un'idea di cosa vi aspetta e alcuni speciali come quello sulla struttura "wide linear" hanno cercato di dare uno sguardo più approfondito al tutto senza scivolare negli spoiler. Non è semplice discutere di un gioco fortemente narrativo come questo evitando di fare riferimento a situazioni specifiche ma, pur senza scendere nel minimo dettaglio, c'è un dato di fatto abbastanza evidente emerso dalla lunga serie di informazioni che è stata legittimamente condivisa nel tempo: un ritorno alla libertà autoriale.

Più spett-attori, meno autori

I videogiochi sono diventati sempre più un veicolo primario di narrazioni culturali popolari, andando a competere con il cinema - dal quale hanno comunque mutuato molte tecniche, oggi alla base di tutti o quasi i tripla A. La differenza sostanziale risiede nel fatto che i videogiochi conferiscono al giocatore il ruolo di agente attivo dentro una narrazione, in opposizione al suddetto cinema, alla televisione, al teatro tradizionale, ai testi scritti e in una certa misura anche ad alcuni eventi sportivi, dove la separazione tra esecutore e pubblico è ben demarcata. Si viene così a creare la figura dello spett-attore (spect-actor) teorizzata dal regista teatrale, scrittore e politico brasiliano Augusto Boal: lo spettatore (giocatore) non è solo incoraggiato a empatizzare col protagonista ma ad essere il protagonista. Un ruolo ibrido, unico nel proprio genere, che instaura una relazione tra giocatore e avatar all'interno del mondo di gioco in grado addirittura di influire sul giocatore stesso, in virtù del contesto dove si ritrova coinvolto a seconda del caso.

Un ruolo che, nonostante il fascino e le potenzialità, abbiamo sentito poco presente ultimamente: si è sdoganata la tendenza da parte dei giocatori, assecondati dagli stessi sviluppatori per varie ragioni, a volersi sostituire in quanto autori. Dettar legge, insomma, su come una storia debba andare e reagire spesso con smisurata indignazione o ferocia se qualcosa non segue l'intreccio che si erano costruiti in testa. Si accetta sempre meno che una trama, ma non solo, "non sia come dico io" e ci si impone prepotentemente per far valere la propria opinione, la propria personale visione, senza curarsi dell'intento di chi quel gioco, nel suo complesso fra storia e gameplay, l'ha pensato. Parecchie volte mostrando un'ignoranza di fondo e una tendenza a essere il social justice warrior della situazione, costringendo a cospargersi il capo di cenere pubblicamente o addirittura a fare passi indietro laddove, invece, sarebbe più opportuno difendere i motivi dietro alle proprie scelte.

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Il ritorno della libertà autoriale

Dalle più recenti e sterili critiche a Little Devil Inside fino a quella spada di Damocle che è la necessità di risultare inclusivi a ogni costo per non pestare i piedi a nessuno (fallendo in partenza, perché ci sarà sempre qualcosa di storto per il pubblico), passando per diverse altre sfumature nel mezzo, la supponenza di volersi sostituire all'autore potrebbe rischiare di appiattire l'originalità creativa degli sviluppatori e sminuire il tutto a una incessante ricerca di approvazione. Creando poi una spirale di insofferenza dove, agli occhi di quel pubblico ormai esarcebato dalla situazione, l'introduzione di personaggi "diversi" come Ellie (che diversi non sono ma qui apriremmo una parentesi troppo grande) viene bollata come inclusività obbligatoria.

In questa guerra a perdere, proprio in The Last of Us 2 abbiamo visto un piccolo grande spiraglio per un ritorno a quella libertà autoriale della quale sentiamo la mancanza. La violenza, perno attorno al quale ruotano tanto la narrazione quanto il gameplay, viene mostrata e motivata, lo è sempre stata fin dalle prime presentazioni e, assieme alla tanto famosa scena del bacio tra Ellie e Dina che ha scatenato altrettante polemiche, non ha mai ceduto il passo alla prepotenza del pubblico. Naughty Dog ha continuato per la sua strada, Neil Druckmann ha più volte dichiarato che il gioco sarebbe stato divisivo ma non si è mai tentato di scendere a compromessi ed è questo che abbiamo apprezzato nello specifico: quel coraggio di prendersi le proprie responsabilità, osare, sostenere e difendere fin in fondo un progetto dove di sbagliato non c'è nulla. Un atteggiamento arrogante? Forse ma in una realtà dove è il pubblico per primo a imporsi con la sicumera di chi ha la verità in tasca, è giusto che l'autore ritrovi la sua voce in un coro di eterni scontenti.

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