Negli ultimi anni stiamo vivendo una riscoperta del genere sci-fi e cyberpunk, sia al cinema che sul piccolo schermo. Potremmo partire da Arrival e l'importanza della comunicazione, del linguaggio universale tra razze differenti, proseguendo sempre con Villeneuve e il suo Blade Runner 2049, arrivando al più recente Electric Dreams di Amazon Prime Video ed Altered Carbon di Netflix.
Universi che in comune sembrano possedere l'idea romantica di una sorta di purezza all'interno di un mondo fagocitato dall'ansia dello sviluppo; una società rinchiusa nella sua perfezione estetica superficiale ma drammaticamente destinata all'infelicità eterna. Strade al neon dove ogni singolo vicolo sembra essere stato dimenticato da qualsiasi "dio" e dove il marcio di quelle che un tempo potevano essere definite persone si alimenta della stessa sofferenza di quelle che non sono altro che anime messe insieme da lembi di carne e ingranaggi. Il mondo appena descritto è lo stesso che Duncan Jones utilizza all'interno del suo Mute, il nuovo film del regista figlio del grande artista David Bowie, arrivato su Netflix lo scorso 23 Febbraio. Inutile negare che l'ansia, l'aspettativa per Mute non era poca, considerando che Duncan Jones e le sue idee hanno saputo farsi rispettare al cinema, partendo da Moon per arrivare a Warcraft - L'Inizio.
Il futuro tra sacro e profano
Mute è un film molto più profondo di quello che può sembrare. Un film all'interno del quale convergono differenti sentimenti ed emozioni contrastanti da parte del regista: non a caso la pellicola è dedicata proprio al padre scomparso nel 2016. Una storia che scava con ferocia e violenza all'interno dell'animo umano, delle pulsioni come la rabbia e l'odio, l'amore e la sofferenza, portano sullo schermo il lato più brutale e nascosto all'interno di qualsiasi uomo o donna. Pellicola basata su due personaggi che sono l'opposto l'uno dell'altro. Da una parte chi sembra possedere ancora in sé un briciolo di innocenza e purezza, sebbene corrotto dalla società all'interno della quale è destinato a vivere, dall'altra chi ha rinunciato a tutto, si è macchiato dei peggiori crimini ed è pronto a qualsiasi cosa pur di perseguire il suo, apparentemente positivo, scopo.
Esattamente come in Blade Runner 2049 dove tutto ciò che di bello e sbagliato veniva rappresentato con il brillante e struggente personaggio di Joi - interpretato da Ana de Armas - nel caso di Mute questo ruolo ambivalente è destinato proprio ad una delle due persone appena descritte, ovvero Leo (Alexander Skarsgård), un barista muto dall'infanzia a causa di un incidente. Leo è un amish nato a Berlino, ed è proprio per questo motivo che non si è mai operato per poter tornare a parlare e si è sempre tenuto a debita distanza da qualsiasi influenza tecnologica e questo ha preservato il suo candore per molto tempo. Leo ci appare subito come un gigante buono. Una sorta di bambino cresciuto troppo in fretta, dagli occhi innocenti, sperduti e, per il più del tempo, disperati. Ma, come tutti gli uomini, anche Leo ha un punto debole: Naadirah, una ragazza dai capelli blu, solare ma con un passato nascosto. E sarà quando Naadirah improvvisamente scomparirà che per la prima volta nella sua esistenza Leo imparerà il sapore dell'odio, della vendetta e della rabbia, incrociando "casualmente" la strada di uno strano ex-chirurgo militare, Cactus Bill (Paul Rudd), il quale ha iniziato a prestare servizio alla mafia, disposto a tutto pur di avere dei documenti per sé e per sua figlia per poter lasciare Berlino.
Quando il troppo stroppia
Se nella sua parte iniziale Mute ci appare subito come quella che dovrebbe essere una dichiarazione d'amore nei confronti di una società perduta, una società corrotta come quella che abbiamo visto anche in Moon, è proprio quando l'incidente scatenante porta il nostro protagonista ad agire che la carte in tavola iniziano a mescolarsi in modo assai confusionario. Se il focus fosse unicamente su Leo, probabilmente qualche distrazione in sceneggiatura al nostro Jones avremmo anche potuto perdonargliela, lodandolo soprattutto per l'impegno mostrato nel tessere una complessa rete di indizi che portano il personaggio muto ad una sempre più snervante ed atroce scoperta della verità, una crescita interiore che porterà Leo ad approcciarsi con la sua natura più feroce. Il vero problema di Mute, invece, risiede proprio nel "voler fare troppo" di Duncan Jones, che inserisce una serie di linee di trama che si confondono con quella principale. Nonostante quello che sembra essere fin troppo presto un collegamento lampante, basta poco per perdersi tra i bassifondi della Berlino futuri e non capire più in che direzione stavamo andando, cosa stavamo cercando e perché lo stavamo cercando.
Leo e Bill, pur mantenendo la loro natura da personaggio positivo l'uno e personaggio negativo l'altro, spesso si scambiano di posto. E se fino ad un certo punto eravamo convinti che il protagonista fosse Leo improvvisamente diventa Bill, con i suoi problemi, i suoi obiettivi, la sua ferocia, il suo rapporto con l'amico e collega Duck (Justin Theroux). Si aprono parentesi sulla vita di Duck, poi parentesi sulla vita di altri personaggi. Un continuo apri e chiudi, iniziare una storia e proseguirne un'altra che manda del tutto in confusione, non rende scorrevole quella che, invece, poteva essere una storia molto interessante ed efficace - decisamente più incisiva anche con 30 minuti di film in meno. Sul finale ci rendiamo conto che il lavoro di Duncan Jones è una parabola sull'essere genitori, sul crescere e non crescere dei figli, sui sacrifici e sulle scelte che si vanno a fare per loro. Parabola che non riesce ad essere tanto incisiva quanto, forse, nella mente del regista, al suo concepimento, risultava.
Déjà vu dal futuro
L'estetica di Mute è a tratti gradevole, per altri versi invece posticcia. La sensazione, per quasi tutte le due ore di film, è di trovarsi di fronte a qualcosa di già visto. Un'esasperazione scenica che non vuole comunicare davvero ma sembra più essere un voler quasi forzatamente ambientare una storia - che in fin dei conti poteva avere luogo in qualsiasi altro contesto storico - all'interno del futuro dispotico immaginato da Philip Dick perché in questo periodo "va tanto di moda". Un vero peccato non aver sfruttato fino in fondo le tematiche sociali e sentimentali, il razzismo, la pedofilia, la criminalità e la prostituzione, che sembrano più che altro adoperate come mero contorno ad una narrazione troppo confusionaria.
Decisamente positivo, invece, il giudizio per quanto riguarda sia Paul Rudd, in uno dei suoi ruoli forse più brutali e violenti, che Alexander Skarsgård, il quale compie un grandissimo lavoro di comunicazione col corpo, con gli occhi, dimostrando di non essere solo un belloccio adatto ad un film dozzinale come Tarzan. Del resto Skarsgård, a fine dello scorso anno, ha vinto un Emmy per la sua grande interpretazione nella mini serie HBO Big Little Lies, dove aveva già dato prova di non essere unicamente un bamboccione dal bell'aspetto.
Conclusioni
Mute non è sicuramente la tragedia designata da molti, ma più che altro un'occasione sprecata. Alla base si riconosce una buona idea, si apprezza la realizzazione e caratterizzazione dei personaggi che animano la storia e questo romanticismo noir racchiuso nell'essenza del cyberpunk. Purtroppo Mute è una storia mal scritta. Una storia formata da troppe trame incastrate forzatamente tra di loro e che si annullano l'una con l'altra, facendo perdere il focus, il nucleo centrale dell'opera. Un film che, in fondo, una visione potrebbe anche meritarsela, anche solo per godere del lavoro fatto da Rudd e Skarsgård, ma partendo necessariamente con delle aspettativa piuttosto basse.
PRO
- Il lavoro interpretativo sia di Paul Rudd ma soprattutto di Alexander Skarsgård
- Interessante l'idea e la motivazione emotiva di fondo racchiusa all'interno della storia
CONTRO
- Troppe trame che convergono tra loro rendendo la narrazione principale frammentaria
- Eccessivamente lungo rispetto alla storia principale da raccontare
- CGI a tratti posticcia e poco credibile