Confuso, ingannato dal ricordo del proprio passato, consapevole del suo grandissimo potenziale ma al tempo stesso intimorito dalla straordinaria forza dei suoi avversari. No, non stiamo parlando dell'ex SOLDIER Cloud Strife, bensì del marchio stesso di Final Fantasy: una saga a dir poco leggendaria che tuttavia, nel corso degli ultimi vent'anni, si è costantemente mossa nella ricerca di una nuova identità, di una formula contemporanea che fosse in grado di riappropriarsi della gloria a cui un tempo era destinata. "Non è un vero Final Fantasy". Questo è il coro di voci disilluse che ha accompagnato l'esordio della maggior parte dei capitoli contemporanei, talvolta tramutatisi in giochi di pura azione, in altri casi in MMORPG, in altri ancora nella risultante di progetti trascinatisi per troppo tempo che hanno faticato a mettere d'accordo una grossa fetta di appassionati, ormai convinti che quell'antico incantesimo sia andato perduto per sempre.
Così, forse per intraprendere una sorta di pellegrinaggio alla ricerca dell'ispirazione perduta, Square Enix ha assegnato a Yoshinori Kitase, Tetsuya Nomura e Naoki Hamaguchi il compito di riportare in vita Final Fantasy VII, gettando i semi di una grossa operazione remake destinata a frammentare l'opera in tre episodi autosufficienti, ridando spolvero allo scenario del pianeta Gaia ma soprattutto a uno dei JRPG più amati di tutti i tempi. Final Fantasy VII Remake ha inaugurato tale percorso in maniera ottima, ma non ha mancato di aprire nuove fratture specialmente per quanto riguarda la sceneggiatura, volenterosa d'imboccare una netta deviazione rispetto a quel materiale d'origine che per molti giocatori rappresenta ancora oggi una specie d'intoccabile testo sacro, radicato com'è nella memoria collettiva.
Memoria che, fra l'altro, è irrimediabilmente condizionata dal potere dell'immaginazione: quando la fantasia colmava i vuoti lasciati dalla grafica stilizzata e i personaggi super deformati, ciascun appassionato aggiungeva un pizzico di sé stesso all'esperienza per la prima PlayStation, realizzando un quadro mentale che per sua stessa natura potrebbe sembrare impossibile da replicare. Quindi il re è davvero morto? Nel mercato contemporaneo non c'è più spazio per grandi videogiochi ancorati alla ricetta JRPG della vecchia scuola? Square Enix è definitivamente cambiata? Final Fantasy 7 Rebirth si è trovato a dover rispondere al tempo stesso a tutte queste domande, a raccogliere la patata bollente narrativa lasciata dal suo predecessore e soprattutto a onorare l'eredità dell'opera originale, facendosi carico di una mole di responsabilità esagerata persino per una grande produzione di mezza generazione.
Ma alla fine Kitase, il tanto criticato Nomura e il direttore Hamaguchi sono riusciti a confezionare un'opera che riscrive da zero le regole della saga di Final Fantasy, dimostrando al mondo intero che è possibile replicare in chiave moderna la stessa magia che ha trainato la serie fino al grande successo: questo secondo capitolo dell'operazione remake è infatti uno dei migliori videogiochi partoriti da Square Enix nel corso degli ultimi vent'anni, ma soprattutto un gigantesco JRPG tradizionale che sembra sbucato dagli studi della cara vecchia Squaresoft anni '90.
E questo è un merito che non gli potrà mai essere sottratto, neppure attraverso il mezzo attentato che si è abbattuto sul fronte della narrativa: vi raccontiamo tutto nella recensione di Final Fantasy 7 Rebirth.
La narrazione
È quasi obbligatorio cominciare l'analisi dalla bomba a orologeria che ha condizionato il periodo di avvicinamento all'opera, ovvero le modifiche alla narrazione originale che si dice siano state fortemente volute dal producer Yoshinori Kitase. Esattamente come capitato nell'episodio precedente, la vicenda ricalca con una precisione quasi maniacale lo svolgimento degli eventi di Final Fantasy VII, alzando il sipario su interpretazioni a dir poco straordinarie dei momenti chiave e ampliando tale impalcatura con una gradevole dose di approfondimenti. Il lunghissimo viaggio che trascina i protagonisti ai quattro angoli del mondo è costellato di tutti gli snodi essenziali che hanno fatto la fortuna di Cloud e dei suoi compagni, la maggior parte delle volte riproposti in maniera eccezionale - come accade a tutti gli excursus dedicati al passato dei vari personaggi - e in qualche occasione addirittura superlativa, come nel caso di un appuntamento al Gold Saucer che ci sentiamo di definire semplicemente perfetto. Si tratta dunque di un corposo romanzo "on the road" che racconta la maturazione dei legami fra i protagonisti esplorandone a fondo le rispettive radici, camminando in equilibrio fra la commedia e la tragedia, riservando un giusto spazio all'impronta creativa orientale e a tutte le fasi di leggerezza che storicamente caratterizzano le produzioni del sottobosco. Il problema è che, come in una sorta di deja vu, queste meravigliose premesse finiscono per confluire in un epilogo che per poco non rischia di demolire l'intero palazzo.
I cambiamenti alla trama si manifestano in maniera massiccia solamente verso il finale dell'avventura, dopo oltre settanta ore di contenuti illibati, sporcati solamente dai Numen che svolazzano all'ombra della tempesta in arrivo. Le modifiche apportate alle ultime sequenze sono ruffiane, pretestuose, per certi versi anche inutili: se il racconto fosse rimasto immutato ci troveremmo senza il minimo dubbio al cospetto di uno fra i migliori remake mai realizzati, ma l'assurda volontà di giocare con i fili del destino ha finito per trasformarlo "solamente" in un videogioco fuori dall'ordinario. Sia ben chiaro, le cose sarebbero potute andare anche molto peggio, ma è evidente che la nuova passata di vernice abbia fortemente limitato l'impatto di determinate scene. Anziché posizionare la proverbiale ciliegina sulla torta, gli autori hanno scelto di gettarci sopra un macigno, finendo per penalizzare l'opera proprio a un passo dalla linea del traguardo. Per loro grande fortuna, tuttavia, il resto dell'esperienza è una specie di macchina del tempo capace di trasportare gli appassionati direttamente nel cuore degli anni '90, riagguantando dalle grinfie dell'abisso una formula che sembrava perduta per sempre.
Il ritorno del classico Final Fantasy
Un immenso mondo aperto da esplorare avidamente in cerca di segreti, costellato di scorci mozzafiato e insediamenti che prendono vita. Un cast di personaggi profondamente caratterizzati che sono in grado di far sorridere, di fare ridere, di far piangere e di emozionare. Un sistema di combattimento altamente personalizzabile che premia l'approccio tattico e non manca mai di regalare sfide soddisfacenti. Una mole incalcolabile di attività secondarie, di sfide nascoste, di minigiochi e interazioni celate ai quattro angoli del globo. Prendete tutti questi elementi, mescolateli con il contesto dell'opera originale, aggiungete una colonna sonora magica, una spolverata di design moderno, e otterrete Final Fantasy 7 Rebirth, senza ombra di dubbio la miglior produzione recente ad aver varcato i cancelli di casa Square Enix, ma soprattutto il ritorno in pompa magna di un'antica ricetta sulla quale si pensava fosse da tempo tramontato il sole.
Final Fantasy torna a essere il grande JRPG di una volta e, incidentalmente, torna a farlo proprio sulle sponde del pianeta Gaia, all'ombra di quel settimo episodio che per primo si trovò a proiettare la serie nel futuro delle tre dimensioni. Oggi, nell'intero panorama di riferimento, non esiste progetto che sia riuscito a coniugare in maniera altrettanto soddisfacente le tradizionali strutture del gameplay con l'attenzione al dettaglio della nona generazione di console, scolpendo nella pietra in maniera definitiva le regole della saga moderna. Questo è il messaggio più importante quando si parla di Final Fantasy 7 Rebirth, ed è un messaggio che si spinge molto oltre i limiti di una narrazione che saprà far discutere. Per chi ha amato il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo capitolo di questa serie ultra trentennale, per chi si domanda da tempo dove sia finito l'antico incantesimo alla base della saga, per chi ancora oggi restava in attesa di un "vero Final Fantasy", quest'opera rappresenta un folgorante raggio di sole che arriva in seguito ad anni di buio.
Struttura e ambientazione
Se il primo capitolo del remake si presentava già in forma smagliante, la scelta di confinare l'esperienza fra le mura della città di Midgar aveva finito per penalizzare alcune sfaccettature molto importanti per la serie, a partire proprio dall'impatto del mondo di gioco. Final Fantasy 7 Rebirth è invece un titolo sospeso a metà strada fra architetture open world e piccole mappe aperte che mette in scena la quasi totalità del pianeta Gaia, oltrepassando ogni più rosea aspettativa sul fronte della quantità e la qualità dei contenuti offerti. Ciascuna delle ambientazioni storiche è stata profondamente restaurata per regalare un colpo d'occhio straordinario, tanto sul fronte delle aree minori, come per esempio la miniera di Mithril situata appena fuori Midgar, quanto dalle parti di insediamenti più articolati come Cosmo Canyon o il resort portuale di Costa del Sol, a loro volta stretti nell'abbraccio di vastissime regioni colme fino all'orlo di attività e interazioni. Una cosa è tentare d'instillare nuova linfa vitale in antichi fondali disegnati a mano, ma tutt'altra sfida è quella di trasformare una monodimensionale mappa del mondo in un panorama d'ampio respiro: gli artisti di Square Enix sono riusciti a ricostruire da zero i deserti della regione di Corel, la giungla di Gongaga e le montagne rocciose di Nibel, mantenendo perfettamente intatta ogni oncia dell'identità dieselpunk dell'opera.
Sul fronte delle meccaniche che regolano il mondo aperto - che è possibile navigare agevolmente sfruttando parkour, Chocobo e gli immancabili veicoli - è necessario fare una distinzione piuttosto netta: da una parte s'incontrano infatti una serie di attività ormai inscindibili dai mondi aperti, come per esempio torri da attivare per scandagliare l'area circostante, tesori nascosti, sfide di caccia, oppure ancora sorgenti di Flusso Vitale che alla scansione forniscono informazioni utili. Dall'altra, invece, ci si imbatte in una grande quantità di missioni uniche e frizzanti che assolvono dozzine di scopi differenti, restituendo spolvero a segmenti storici come Fort Condor o alimentando la caratterizzazione dei comprimari, alzando il sipario su tonnellate di piccoli minigiochi o magari sulle scorribande di un misterioso spadaccino in cerca delle sue antiche reliquie perdute. Certo, le prime potrebbero finire per risultare ripetitive - specialmente in un'esperienza che dura più di cento ore - ma per certi versi aiutano a replicare la familiare sensazione d'inseguimento del "completismo" che è sempre stata un elemento cardine della serie. Di contro, se c'è un ambito nel quale Square Enix merita un plauso a tutto tondo, è la grande attenzione con cui ha bilanciato l'equilibrio fra le fasi narrative, spesso legate a piccoli e grandi dungeon lineari nei quali sfruttare l'interezza del party, con l'immensa quantità di contenuti radicati nell'esplorazione libera.
Un gran sistema di combattimento tattico
La prima cosa da comprendere del sistema di combattimento alla base di Final Fantasy 7 Rebirth, come già accaduto nel caso del predecessore, è che si tratta di un sistema prevalentemente tattico. Affrontare l'esperienza puntando esclusivamente sulle meccaniche d'azione non è solamente sconsigliato, ma del tutto inefficace: è necessario conoscere le debolezze e le resistenze dei nemici, apprendere le circostanze specifiche che li portano a entrare nello stato di Tensione che precede lo Stremo, ma soprattutto rispondere in maniera adeguata ai loro comportamenti, preparandosi a incassare determinati colpi o prevedendo in anticipo la necessità di curarsi rapidamente. Lo strumento per rispondere a queste esigenze risiede nelle barre ATB che si caricano nel tempo eseguendo azioni basilari o bloccando i fendenti in arrivo, aprendo a una moltitudine di tecniche e magie - la cui selezione è soggetta a una pausa tattica - indispensabili per aprirsi un varco nelle difese avversarie. Il vero colpo da maestro risiede tuttavia nell'aver ricamato su ciascun personaggio un'identità combattiva molto precisa, mettendo in evidenza le qualità individuali del gruppo e in particolar modo quelle degli ultimi arrivati alla festa, ovvero Red XIII, la Yuffie già incontrata nel DLC Intergrade e il folle Cait Sith.
Se da una parte il grado di sfida è più che soddisfacente e la grande varietà che caratterizza il mondo di gioco ha finito per esaltare anche il fronte delle battaglie, dall'altra Square Enix ha scelto di riservare grande importanza anche al sistema di sviluppo e alle tradizionali dinamiche da RPG. Il momento dello scontro rappresenta infatti solo l'ultimo atto di una lunga pianificazione strategica che ha inizio dalla gestione degli equipaggiamenti e delle Materia, che si possono sviluppare e combinare per coprire un'esagerata quantità di situazioni differenti e rispondere prontamente alle caratteristiche dei nemici. A questo proposito, la casa non ha mancato di nascondere diverse ricompense decisamente impattanti dalle parti dei minigiochi e delle altre attività del mondo aperto: bisogna dimenticare i trascurabili materiali che inondavano il sedicesimo capitolo, perché chi punta al completamento dell'esperienza viene sempre premiato in maniera congrua agli sforzi.
Non c'è molto altro da aggiungere riguardo il sistema di combattimento, se non che si tratta senza dubbio della migliore incarnazione moderna della tradizione di Final Fantasy: un eccellente connubio di tattica e azione che trova la sua principale novità nelle abilità sinergiche fra i vari personaggi, accogliendo in maniera impeccabile i membri esordienti del cast. L'ultima nota riguarda la personalizzazione dell'esperienza di gioco: oltre ad affiancare alla modalità d'azione una variante Classica nella quale i membri del party si muovono automaticamente in attesa di ricevere i comandi ATB, il selettore della difficoltà introduce un'opzione Avanzata che modifica il livello dei nemici sulla base di quello del giocatore, riservando infine la sfida più impegnativa solo a coloro che avessero già concluso l'avventura.
Oltre le battaglie
Negli ultimi tempi si è discusso spesso del fatto che Final Fantasy non debba limitarsi a essere sinonimo di grandi storie e battaglie spettacolari: la Creative Business Unit I deve aver preso queste voci alla lettera, perché ha scelto di mettere sul piatto una quantità tale di sfumature e piccoli eventi da poter affrontare a testa alta un qualsiasi capitolo della serie Like a Dragon. Il mondo di gioco è letteralmente ricolmo di attività secondarie, fra gare di addominali, prove di volo, minigiochi in stile tower-defense, fasi da sparatutto in prima persona, persino una specie di Rocket League nel quale le vetture sono rimpiazzate da Red XIII e altri animali dell'universo di riferimento. Ma questi esempi non bastano nemmeno per scalfire la superficie del tessuto collaterale: per farsi un'idea dell'effettiva profondità è sufficiente sapere che, per quanto riguarda le corse dei Chocobo, gli sviluppatori hanno realizzato un intero gioco autosufficiente in stile Mario Kart che alza il sipario su diverse cavalcature personalizzabili, su una ventina di tracciati differenti e persino su una serie di colonne sonore dedicate esclusivamente a questo segmento secondario. Il tutto, ovviamente, senza prendere in considerazione il Gold Saucer, immenso parco divertimenti situato nella regione di Corel, a cui si affianca il resort di Costa del Sol, che è stato a sua volta infarcito di chicche del genere.
A meritare una menzione speciale è Queen's Blood, in italiano Regina Cremisi, inedito gioco di carte che accompagna Cloud durante l'interezza dell'avventura ed è legato a una corposa missione dedicata. All'apparenza potrebbe sembrare un minigioco semplice e immediato, germogliato sui semi del vecchio Triple Triad introdotto nell'ottavo capitolo, ma a ben vedere si tratta di qualcosa dall'impatto più simile al Gwent di The Witcher 3: i contenuti che ne derivano sono sempre intrattenenti e sfidanti, mentre la grezza quantità di meccaniche coinvolte sa dimostrarsi tutt'altro che superficiale. Insomma, fra partite a carte, concerti al pianoforte, tre diverse arene di combattimento, nonché prove che fanno sembrare lo Zaffa Chocobo del decimo capitolo una passeggiata di salute, Final Fantasy 7 Rebirth riesce a trionfare dove molte esperienze analoghe crollano inesorabilmente: la vastità del mondo e il centinaio di ore che servono per esplorarlo tutto sono quasi sempre accompagnate da parentesi curate e divertenti, anche in seguito alla conclusione del viaggio, momento in cui entrano in scena delle sfide da matti... proprio come quelle di una volta.
Tutto il resto
Final Fantasy 7 Rebirth è uno scatolone talmente vasto e stratificato da rendere pressoché impossibile confinarne l'analisi esaustiva in un unico testo: è al tempo stesso il racconto di una grande storia, un classico JRPG, un immenso mondo aperto da esplorare e una miniera inesauribile di attività collaterali. Questa particolare natura ha portato delle conseguenze sul fronte tecnico, nello specifico per quel che riguarda il confronto con il capitolo precedente, riducendo ai minimi termini le distanze fra le due produzioni. Ciò, d'altra parte, era prevedibile: da un lato abbiamo un videogioco fortemente lineare, stretto nei confini di una singola metropoli, mentre dall'altro una gigantesca avventura destinata a coprire l'intera superficie di un pianeta, e che fra l'altro piega il motore grafico per rispondere alle esigenze di tantissimi contenuti originali. Considerata la grezza mole di contenuti è facile giungere alla conclusione che un raffronto sul piano tecnico lascerebbe il tempo che trova: il risultato è che il balzo fra le due produzioni è impercettibile, ma si tratta in ogni caso di titoli dai valori produttivi stellari. Entrambe le modalità grafiche a disposizione fanno il proprio dovere ma, data la natura prevalentemente tattica del combattimento, il nostro consiglio è quello di premiare la risoluzione.
Dove c'è da festeggiare senza riserve è sulle sponde della direzione artistica, che è riuscita a trasportare nel futuro in maniera impeccabile persino quelli che un tempo erano accrocchi di pixel come le varie componenti di Jenova, realizzando splendide versioni moderne degli insediamenti cittadini, ma soprattutto rendendo onore a quasi tutte le sequenze più importanti, ai nemici più iconici e ovviamente ai personaggi centrali, la cui caratterizzazione - e non solo quella estetica - è stata notevolmente potenziata, specialmente nel caso di outsider come Yuffie che qui si presentano in uno stato di forma smagliante. Sappiate infine che, per ovvie ragioni, in questa sede non abbiamo trattato nello specifico decine di sfaccettature dell'esperienza, non solo per proteggere l'approccio al racconto, ma soprattutto per preservare l'integrità di alcune sequenze che meritano assolutamente d'essere scoperte in totale autonomia.
Insomma, a questo giro l'attentato è stato sventato: l'inspiegabile desiderio di riscrivere una vicenda già rotonda come quella di Final Fantasy VII mettendo a repentaglio momenti iconici si è dovuto scontrare con l'estrema solidità delle fondamenta di Final Fantasy 7 Rebirth. Costretto a fermarsi a un passo dall'eccellenza assoluta, questo progetto ha raggiunto un obiettivo se possibile ancor più importante: quello di mettere nero su bianco le regole alla base dell'identità moderna della saga, mantenendo intatti tutti gli elementi che hanno trasformato in leggenda le stesse parole "Final Fantasy".
Potete trovare tanti consigli, trucchi e soluzioni del gioco nella nostra guida completa di Final Fantasy 7 Rebirth.
Conclusioni
Final Fantasy 7 Rebirth aveva tutte le carte in regola per ergersi fra i migliori capitoli in assoluto della saga di Square Enix, come un JRPG da antologia, ma l'assurda volontà di modificare gli ultimi battiti del racconto ha finito per renderlo "solamente" un videogioco straordinario. Nonostante i rimaneggiamenti alla scrittura - che sarebbero senz'altro potuti andare anche peggio - l'opera si posiziona infatti sui gradini più elevati della produzione della casa: finalmente, a oltre vent'anni di distanza dall'ultima volta, sembra di giocare a un classico episodio di Final Fantasy carico di tutta la magia degli anni '90, quell'antico incantesimo che ha fatto innamorare milioni di appassionati e che sembrava da tempo tramontato. Nel mondo di gioco immenso e caratterizzato in maniera eccelsa si muove un party di personaggi realizzati allo stato dell'arte, pronti a lottare attraverso un sistema di combattimento tattico che rasenta la perfezione, ma soprattutto a confrontarsi con una valanga di contenuti extra, tra decine di sfide, missioni e minigiochi dal sapore unico fra i quali perdersi per oltre cento ore di grandissima qualità. Ciò, tuttavia, rende ancora più difficile digerire quanto avviene sul fronte della messa in scena: un maggiore grado di fedeltà al materiale d'origine avrebbe senz'altro coronato uno dei migliori remake mai realizzati, forse uno dei più grandi titoli mai partoriti dallo studio.
PRO
- Dopo 20 anni Final Fantasy ritorna a essere un gigantesco JRPG classico
- Sistema di combattimento in perfetto equilibrio fra tattica e azione
- Resa del mondo e delle sequenze originali oltre ogni aspettativa
- Un numero enorme di contenuti secondari
- Sembra di giocare a un capitolo creato dalla Squaresoft degli anni '90
CONTRO
- Cambiamenti alla trama ruffiani, pretestuosi e soprattutto inutili... ma poteva andare peggio
- Alcuni elementi potrebbero risultare ripetitivi
- Nessun balzo grafico rispetto al predecessore