Il mondo dello sviluppo videoludico è mutevole e in continuo movimento: dopo il completamento di un videogioco, non è raro vedere un rimescolamento nella composizione del personale - spesso spremuto da intollerabili periodi di crunch - se non una disgregazione degli studi stessi, in un continuo avvicendamento di battute d'arresto e nuovi inizi. Emblematica, in questo senso, la vicenda del complicato divorzio professionale di Dino Patti e Arnt Jensen, co-fondatori dello studio indipendente danese Playdead.
Dopo anni di lavoro su due progetti di straordinario successo, Limbo e Inside, Patti lasciò l'azienda nel 2016, per fondare l'anno dopo una nuova realtà insieme all'animatore Chris Olsen. Jumpship ha lavorato fin da allora a Somerville, un'avventura cinematica che - come dichiarato da Olsen in diverse occasioni - vuole distanziarsi dalle opere di Playdead per costruire un nuovo percorso. Ora che abbiamo completato l'opera prima di Jumpship possiamo dire che l'intento, a nostro avviso, non può dirsi riuscito, pur avendo lo studio creato un prodotto indubbiamente curato dal punto di vista estetico e della regia. Ve ne parliamo nella nostra recensione di Somerville.
Il male arriva dall'alto
Somerville inizia nel corso di una sonnacchiosa serata davanti al televisore. Una madre e un padre sono addormentati sul divano, mentre il loro irrequieto bambino gironzola per la casa e riesce ad arrivare dove non dovrebbe, arrampicandosi sul separatore tra salotto e cucina e aprendo la finestra. Il rumore sveglia i due genitori, sorpresi dalla luce rosa che squarcia il cielo: è chiaro che qualcosa non va, e ben presto la famiglia si troverà catapultata in una situazione davvero surreale.
Dopo che un essere umanoide dotato di una strana tuta invita il protagonista a prenderlo per mano, l'uomo - di cui nel frattempo abbiamo assunto il controllo - acquisisce un misterioso potere collegato alla luce. Questo sarà decisivo nei successivi enigmi ambientali, molto abbondanti nelle circa quattro ore necessarie per completare Somerville. Le anomalie portate dai giganteschi monoliti che ora dominano lo scenario terrestre sono tutte contraddistinte da segnali luminosi: luci rosse, azzurre, rosa, in un irrompere feroce dello straordinario nell'ordinario che ci ha ricordato le scelte stilistiche adottate in Control. Una strada certamente diversa rispetto a quella percorsa da Playdead in Limbo, dominato da un riuscitissimo binomio di bianco e nero, e Inside, dove la bicromia lasciò spazio a una palette di colori sobria ed essenziale, giocata su blu, grigio, occasionali toni di rosso.
Dopo gli eventi introduttivi all'interno dell'abitazione di famiglia, si apre un'esplorazione a perdifiato tra campi aperti, grotte, mari in tempesta e strutture finalizzate all'accoglienza dei sopravvissuti. Sì, perché gli alieni braccano gli umani senza pietà, e ben presto il protagonista si troverà separato dalla sua famiglia, incerto sulla sopravvivenza della compagna e del loro figlioletto. Una situazione che dovrebbe ispirare empatia e preoccupazione, ma che - all'atto pratico - ci ha lasciati freddi e insensibili: ai personaggi manca del tutto la corporalità e l'umanità di Ico e Yorda nel seminale Ico, vera e propria masterclass per avvicinare l'animo del giocatore ai pixel di forma umanoide che si muovono nell'enigmatico castello, senza che i due ragazzini pronuncino nemmeno una parola.
Anche Somerville ambisce a creare coinvolgimento senza parlare, ma fallisce nell'intento: dei suoi protagonisti, alla fine dell'avventura, resta poco o nulla nel cuore di chi ha giocato, sebbene la narrazione riesca a proporre spunti interessanti, rivelandosi però una storia che punta a raccontare lo spirito di sacrificio di un eroe sì inaspettato, ma con ben poco cuore.
La (troppa) perfezione della telecamera
Il linguaggio del cinema è da molti anni impiegato nel mondo videoludico per controllare ciò che il giocatore vede, per influenzare la sua percezione dei personaggi e degli eventi, per costruire una visione di mondi convincenti e a tutto tondo. Chris Olsen è forte delle sue esperienze lavorative nella settima arte, messe in campo in Somerville tramite lo strumento simbolo del settore cinematografico: la telecamera.
Solitamente lontana dal protagonista per catturare una visuale ampia della Terra invasa dagli alieni e di come l'ambiente sia stato cambiato nell'arco di quella drammatica notte, la cinepresa di Jumpship segue il protagonista nel suo viaggio disperato alla ricerca dei familiari, in una fuga continua dagli esseri alieni che ora dominano il paesaggio terrestre. Le carrellate sono precise, e la camera si concede qualche minimo sussulto solo quando il personaggio si ferma. In nessun caso il giocatore può influire sull'inquadratura, sempre fissa: ciò che può essere visto è totalmente controllato dalla regia, capace di comunicare così un senso di ineluttabilità e di trascinamento che ci spinge a correre a perdifiato verso la conclusione di Somerville.
In alcune situazioni è possibile muoversi tridimensionalmente nello spazio, e questa scelta è stata senz'altro foriera di complicazioni per gli sviluppatori, che non sempre sono riusciti a rendere leggibili le possibilità di movimento e di interazione con gli elementi dello scenario. Non aiuta una infelice gestione delle animazioni: per tornare a citare un personaggio creato da Fumito Ueda - maestro nel gestire la fisicità dei protagonisti dei suoi videogiochi - l'uomo è totalmente privo del peso e delle movenze autentiche del bambino di The Last Guardian. I suoi passi sono legnosi, quelli di una macchina priva di emozioni; il (frequente) fallimento nell'interagire con leve e bottoni porta a movimenti sgraziati e fuori luogo, che spezzano l'immedesimazione del giocatore nelle vicende affrontate dal protagonista.
Ecco, dal punto di vista tecnico Somerville avrebbe avuto bisogno di più grazia e cura: sulla nostra configurazione di prova abbiamo fatto esperienza di frequenti cali di frame rate, oltre che di compenetrazioni infelici tra personaggi ed elementi dello scenario che ci hanno strappati completamente dall'atmosfera di cupa apocalisse che dovrebbe essere propria del gioco. È forte il contrasto tra lo studio certosino della regia e della direzione artistica, capaci di regalare momenti di pura bellezza e anche di contemplazione di un mondo preda di forze tremende e di intrusioni aliene ben inserite e codificate a livello estetico, e gli aspetti meramente tecnici, che ci sono parsi a tratti trascurati da parte di Jumpship, come se le fasi finali dello sviluppo avessero subito una vertiginosa accelerata. Ed è un vero peccato, dato il potenziale visibile in Somerville, che il maniacale studio delle inquadrature finisca per raccontare una storia approcciata in maniera totalmente asettica: diceva Alfred Hitchcock che nei film gli omicidi sono molto puliti, e che il suo obiettivo come regista era mostrare come sia difficile, che pasticcio sia uccidere un uomo; in Somerville l'apocalisse è pulitissima, sterilizzata - come gli strumenti di un bravo medico - e nella sua precisione lascia indietro ogni fattore emotivo.
Meno inquietante del previsto
Aspetti centrali di ogni avventura cinematica sono l'esplorazione del mondo di gioco e la risoluzione degli enigmi ambientali. Su questi aspetti Jumpship ha senz'altro fatto centro, creando un setting interessante e coerente, pieno di puzzle ben concepiti, incentrati sui poteri acquisiti dal protagonista e - come detto in precedenza - sulla luce, vero leitmotiv di Somerville. Purtroppo, nei puzzle manca qualsivoglia ambiguità morale: il protagonista non è mai chiamato a compiere scelte discutibili nel quadro di una situazione certamente drammatica, e ciò incrementa la percezione di star compiendo un esercizio tecnico e poco umano, incapace di coinvolgere l'animo del giocatore in maniera autentica e profonda.
Abbiamo detto che certamente l'occhio ha la sua parte in Somerville, ma lo stesso non si può dire per un senso che risulta centrale per incrementare il coinvolgimento del giocatore: l'udito. I suoni diegetici sono ridotti all'osso, e l'umanità invasa dagli alieni è muta, impassibile, senza voce - e senza affanno: mai il protagonista si abbandona a un sospiro d'ansia o di stanchezza, nonostante il peso soverchiante del viaggio che è costretto a compiere. Avremmo voluto percepire l'ansia che si prova nell'ascoltare il suono ronzante della zanzara di Limbo o il respiro affannoso del bambino di Inside, provato dalla corsa infinita nei disturbanti ambienti di gioco; mai gli abitanti della Terra invasa dagli alieni si abbandonano all'urlo straziante degli scienziati radunati intorno alla vasca degli esperimenti da cui erompe il grumo di carne liberato dal bimbo.
L'accompagnamento sonoro, curato da Dominique Charpentier e Matteo Cerquone, si fa incisivo nei momenti più drammatici, ma non abbiamo apprezzato la scelta di puntare tutto, in queste occasioni, su suoni extradiegetici che, ancora una volta, mostrano una tendenza di Jumpship a voler proporre una regia "forte", un po' artificiosa, che non lascia respirare il mondo narrato, rendendolo spesso inconsistente e incorporeo.
Conclusioni
Jumpship si pone l'ambizioso obiettivo di creare un'avventura cinematografica sci-fi che possa superare quanto visto in Limbo e Inside, ma fallisce nell'intento. I titoli di Playdead rimangono una scomoda pietra di paragone che schiaccia il protagonista di Somerville, bastian contrario che si muove verso sinistra, invece che verso destra come i bambini di Limbo e Inside. Non basta la cruda ricercatezza tecnica della telecamera per rendere indimenticabile l'avventura, tormentata da imperfezioni che risaltano in maniera evidente in controluce rispetto alla grande cura registica delle inquadrature. Somerville presenta enigmi interessanti e un mondo affascinante da esplorare, ma resta freddo, a tratti addirittura scostante, respingente verso il giocatore e incurante della sfera emotiva dei personaggi. Jumpship ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per poter mettere in campo una direzione artistica di pregio: speriamo che in futuro gli sviluppatori di Somerville riescano ad arrivare al cuore più intimo delle cose, all'essenza di un dramma autentico, intimo e convincente.
PRO
- Direzione artistica di pregio
- Enigmi interessanti e stimolanti
CONTRO
- Puzzle incapaci di porci davanti a scelte davvero significative
- Nessun coinvolgimento emotivo nei confronti delle vicende dei personaggi
- Diverse pecche tecniche