Quando si parla di videogiochi classici avviene spesso un corto circuito logico, basato sul pregiudizio, che fa male all'analisi e alla valutazione storica. Frequentemente chi affronta l'argomento tende a mettere il passato e il presente sullo stesso piano, valutando il primo in relazione al secondo per determinare se un certo gioco è invecchiato bene o male, come se l'alternativa per la serata sia di scegliere tra il fare una partita a Baldur's Gate III o a Samurai Warrior: The Battles of Usagi Yojimbo (lo abbiamo scelto completamente a caso, sia chiaro), cercando di capire quale dei due valga di più e se il secondo regga ancora il confronto con il primo. Si tratta di un approccio superficiale che gli esperti del settore dovrebbero evitare come la peste, ma che invece sembra sempre più diffuso (perché discorsivamente molto facile e di grande effetto sui social, ammettiamolo). Normalmente è anche il modo con cui vengono create e valutate le raccolte di giochi del passato: da una parte si guarda all'effetto nostalgia e dall'altra si prova a far apparire moderni dei titoli che appartengono spesso ad altre epoche e modi di giocare. Così abbiamo le Capcom Arcade Stadium o i Pac-Man Museum, sostanzialmente degli ammassi di vecchi titoli, anche belli per carità, proposti in una confezione molto colorata e pop, ma senza alcun discorso intorno che aiuti davvero a contestualizzarli e a valutarli per quello che sono stati.
Poi c'è Digital Eclipse, che riesce a prendere i giochi a cui lavora e a valorizzarli oltre il loro contenuto ludico, creando dei veri e propri documentari interattivi, così da permettere al giocatore di comprenderli e apprezzarli, avvicinandolo alla loro essenza originale, senza nasconderne le ingenuità ma, anzi, esaltando proprio quell'invecchiamento che per molti rappresenta un difetto. Così è avvenuto ad esempio con la raccolta Atari 50: The Anniversary Celebration, che si presenta come uno dei migliori testi storici su Atari stessa, o con quella Teenage Mutant Ninja Turtles: The Cowabunga Collection, che inquadra alla perfezione la serie Turtles. Senza dilungarci ulteriormente, per altri dettagli su Digital Eclipse, vi rimandiamo al nostro speciale dedicato. Comunque sia, da queste esperienze è nata la Gold Master Series, ossia un nuovo modo di presentare al pubblico alcuni giochi iconici, tramite delle opere monografiche strutturate partendo dall'esperienza maturata con le raccolte. Il primo prescelto è stato Karateka di Jordan Mechner, più famoso come autore di Prince of Persia, titolo per più di un verso fondamentale per l'industria, cui dobbiamo la nascita del sotto genere delle avventure action di stampo cinematografico, che viene presentato attraverso documenti e interviste, nonché prototipi giocabili e progetti precedenti dell'autore. La recensione di The Making of Karateka cercherà di capire se questo è davvero il modo giusto di raccontare i videogiochi classici, anche se la risposta breve è sì.
Giocare a Karateka
Francamente non è difficile giocare Karateka di questi tempi. Non parliamo di un oscuro titolo uscito su dei sistemi sconosciuti, ma di uno molto famoso disponibile su praticamente tutte le piattaforme più diffuse degli anni '80. Emularlo è davvero facile, quindi non avrebbe avuto molto senso ripubblicarlo così com'era sperando che la nostalgia facesse il resto, perché il suo valore commerciale assoluto, se non consideriamo il mercato del collezionismo, è prossimo allo zero. Eppure, The Making of Karateka dimostra che, trattando i videogiochi del passato con il giusto rispetto, questi possono avere ancora moltissimo da dire e possono ritornare sul mercato incentrando l'esperienza sulla loro rilevanza storica, al netto della nostalgia, creandogli una cornice dalla quale questa possa emergere chiaramente. Così, provando l'ultima fatica di Digital Eclipse ci siamo ritrovati affascinati non tanto dal gioco in sé, che conoscevamo a menadito, quanto dal racconto di ciò che c'è stato dietro allo stesso, che ce l'ha fatto guardare da una prospettiva completamente differente.
Karateka è ovviamente importante, ma è stato fatto diventare il perno di una struttura più complessa, da cui abbiamo appreso informazioni che il solo gioco non poteva darci. Ad esempio nel documentario si parla ampiamente dei rapporti tra Mechner e l'editore originale, Brøderbund, di cui viene mostrato lo scambio epistolare attraverso la riproduzione delle lettere originali (all'epoca le email non esistevano, almeno non fuori da certi ambienti), con interviste a membri dello stesso. Quella Brøderbund che gli rifiutò un primo gioco, Deathbounce, presente nella raccolta sotto forma di prototipi e di versione rimasterizzata, e diede molti consigli al giovane sviluppatore su come trasformare le sue idee in un prodotto commerciale, mettendo così in luce il ruolo fondamentale dell'editore nella trasformazione dell'idea in prodotto finito (nel bene e nel male).
Abbiamo appreso dello splendido rapporto tra Jordan e il padre Francis Mechner, che non solo lo aiutò componendo la colonna sonora di Karaketa, ma gli fece da modello per alcune animazioni e gli diede moltissimi consigli sulla realizzazione del gioco stesso, spalleggiando suo figlio umanamente e culturalmente, anche al di là di quello che è il sentire comune (ad esempio non si oppose quando vide che il figlio era più dedito a sviluppare i videogiochi che a studiare, pur non essendo egli un videogiocatore). Ci siamo commossi quando Francis, intervistato insieme a Jordan in diverse parti del documentario, ha confessato di essersi interessato ai videogiochi solo perché interessavano al figlio. Ci siamo poi appassionati ai materiali che mostrano come sono state realizzate le animazioni di Karateka, per inciso tramite la tecnica del rotoscoping, inventata nel 1918 da Max Fleischer, che consiste nel ricalcare i frame di un filmato per avere animazioni più realistiche a naturali. A pensarci bene molte delle informazioni presenti nel documentario erano già note, ma è il modo in cui sono presentate a fare la differenza.
Informazioni aggiuntive
La prima versione commerciale di Karateka fu pubblicata su Apple II nel 1984. Nel 1985 arrivarono le conversioni per Commodore 64 e Atari 8-bit, seguite da quella per NES. Successivamente ci saranno conversioni per DOS, Atari 7800 e ST, Game Boy, Amstrad CPC, MSX e Zx Spectrum. Nel 2012, l'editore francese Dotemu ha pubblicato Karateka, versione modernizzata dell'originale, sviluppata da Liquid Entertainment e supervisionata da Mechner stesso, che vantava l'art direction di Jeff Matsuda (The Batman) e la colonna sonora scritta da Christopher Tin (Civilization IV).
La storia di Karateka è molto semplice: il protagonista senza nome deve salvare la principessa Mariko dal castello del malvagio Akuma, che l'ha fatta prigioniera, abbattendo le sue guardie, evitando trappole e altri ostacoli.
L'umanità dietro allo sviluppo
Uno degli aspetti che più ci è piaciuto di The Making of Karateka è come riesca a far emergere la dimensione umana dietro al gioco, pur avendo impiegato gli stessi strumenti di altre raccolte di Digital Eclipse. Mentre in Atari 50: The Anniversary Celebration è la ricca e complessa storia di una compagnia, fatta di nomi e situazioni che si propagano su di un lungo arco temporale, quella di Karateka è invece l'epopea minuta di un ragazzo che passa in pochi anni, precisamente dal 1981 al 1985, dal copiare il suo coin-op preferito, Asteroids, su cui ha speso una quantità immane di monetine, al vedersi rifiutare un progetto in cui credeva moltissimo, quindi al realizzare un gioco rivoluzionario, in cui è confluito il suo amore per il medium videoludico, quello per il cinema e, scusate se ci permettiamo, a cui ha contribuito anche un nucleo familiare eccezionale, visto che è stato supportato nella sua passione praticamente da tutti i suoi parenti più stretti, madre e fratello compresi (il padre lo abbiamo già citato).
Si tratta comunque di un lavoro storicamente ricco e accurato, in cui i vari documenti sono distribuiti su cinque linee temporali che affrontano vari momenti della lavorazione del gioco, che vanno dal pre-Karateka, al successo commerciale dello stesso, passando per la fase di progettazione, per i modi con cui venne diffuso (all'epoca il marketing videoludico non era scientifico come oggi, per così dire), per la storia delle conversioni, la più famosa delle quali quella per C64 realizzata da Veda Cook, amica e compagna di stanza di Mechner per qualche tempo e quant'altro. È davvero la storia di un gioco nel senso più alto possibile, che dà una conoscenza approfondita dello stesso e permette di valutarne l'impatto nel suo contesto storico, relativamente a ciò che era allora l'industria dei videogiochi.
I giochi
In tutto questo ci sono ovviamente anche i giochi. Come accennato The Making of Karateka consente di provare i prototipi dei primi giochi di Mechner, quindi Deathbounce, Asteroid Blaster e Star Blaster, nonché l'evoluzione di Karateka stesso, dalla prima versione realizzata autonomamente dall'autore, a quelle rimaneggiate dopo gli interventi dell'editore, fino a tre trasposizioni commerciali scelte non a caso: l'originale per Apple II e le conversioni per C64 e Atari 400/800/XL/XE, che rappresentano la "trinità" del gioco, ossia le versioni più importanti e famose, il cui successo gli permise di diventare un prodotto di livello internazionale, che raggiunse anche il Giappone (all'epoca non era così frequente che un prodotto occidentale toccasse quelle sponde). Ci sono anche due giochi rimasterizzati: Deathbounce, con cui Digital Eclipse ha provato a dare una forma definitiva all'idea originale di Mechner, supportata dallo stesso, e Karateka, in cui le meccaniche originali vengono calate in un contesto più moderno, quindi con grafica rifatta, fluidità maggiore, più dettagli e quant'altro. Ci sono anche degli elementi che erano stati tagliati, la cui origine viene spiegata nel corso del documentario, e che in quanto tale assumono a loro volta un valore documentaristico.
Ed è proprio rigiocando a Karateka dopo averne appreso la storia che The Making of Karateka produce i suoi effetti migliori, garantendo il coinvolgimento completo nell'esperienza anche a chi conosceva già il gioco. Elementi che prima venivano dati per scontati, come la fissità del Monte Fuji sullo sfondo, l'origine della porta alla fine del primo livello, il fatto che nella versione Apple II la musica parta sempre quando i personaggi sono fermi e tanti altri ancora, prendono un significato più profondo nel corso della fruizione, con il passaggio immediato dalla teoria alla pratica che ne garantisce la freschezza nella memoria del giocatore. Si riesce così a rivivere l'importanza avuta dal gioco sullo sviluppo della narrazione videoludica, di come le tecniche di racconto adoperate, come il montaggio alternato tra il protagonista e gli avversari nelle fasi di avvicinamento, che oggi non impressionerebbero nessuno, fossero in realtà pura avanguardia e di come quelli che oggi percepiamo come limiti siano stati in realtà forieri della bellezza del gioco stesso.
Quindi possiamo vestire ancora candidamente i panni del karateka che avanza menando gli avversari su dei livelli lineari che scorrono da sinistra verso destra, usando pugni e calci, che evita il cancello alla fine del secondo livello per non farsi schiacciare e che se sbaglia ad approcciarsi alla principessa dopo averla sconfitto il boss finale riceve un calcio in pieno volto che lo stende a terra, ma siamo anche coscienti di cosa tutto ciò abbia significato in termini di sviluppo e lo guardiamo quindi con occhi diversi e in qualche modo nuovi. Che poi è proprio ciò che un documentario dovrebbe riuscire a fare per definirsi riuscito.
Conclusioni
The Making of Karateka è la summa del lavoro di Digital Eclipse svolto nel corso degli anni per concepire un modello di documentario interattivo replicabile e coinvolgente. Riesce a elevare il suo oggetto, svelandone anche i lati più nascosti, ma senza essere mai pedante. Coinvolge quando informa e rivoluziona il modo con cui si fruisce il gioco, aggiungendo anche delle novità che arricchiscono ulteriormente l'esperienza, come i prototipi e le rimasterizzazioni. Più in generale, la formula di Digital Eclipse sembra essere la migliore in assoluto per raccontare la storia dei videogiochi, intensa nella sua totalità e nella particolarità dei singoli titoli, perché permette di dare finalmente una dimensione ai classici, al di là di tutti i possibili discorsi nati negli anni intorno agli stessi.
PRO
- Tanto materiale da vedere e leggere
- Ottima strutturazione del documentario
- Prototipi, giochi originali, rimasterizzazioni
CONTRO
- La traduzione dei testi in italiano è benvenuta, ma c'è qualche errore di troppo