Parafrasando J.R.R. Tolkien, ogni storia importante deve confrontarsi con la morte. Non che il contrario sia necessariamente vero: non bastano corpi squartati o cadaveri a conferire dignità estetica a un'opera. Inoltre quando si parla di morte, almeno in questo caso, non s'intende il semplice evento in sé e per sé, ma tutte le sensazioni che il concetto suscita prima, dopo e durante l'accadimento. Ansia, terrore, disperazione, commozione, empatia, accettazione del lutto: potremmo continuare per ore ma non vorremmo deprimervi troppo, e siamo sicuri che avete afferrato l'idea. Ecco, la frase che abbiamo citato inizialmente assume una stramba valenza se applicata ai videogiochi. In parte a causa dell'immaturità di questo mezzo espressivo, in parte perché, prima che forma di comunicazione, i videogame sono sempre stati, fin dall'inizio, intrattenimento: separarsi da questa natura iniziale, o semplicemente confinarla per focalizzarsi su altri aspetti, è molto difficile. Perché non stiamo parlando di un fumetto, un medium per certi aspetti dalla storia simile, non basta evitare certi argomenti sciatti o "bassi" per avvicinarsi all'espressione artistica: divertimento e (soprattutto) sfida sono caratteristiche connaturate al videogioco sin dalla sua nascita. E spesso, dove c'è sfida, appare anche la morte: e qui torniamo a un'altra asserzione iniziale, ovvero che non basta l'evento in sé e per sé a trattare l'argomento. Pac-Man divora e ingoia fantasmi, Super Mario schiaccia goomba e koopa per tutta la durata della sua avventura: eppure, nonostante le uccisioni continue, non si ha mai la sensazione che la morte aleggi su questi giochi. Perché nessuna delle sensazioni ad essa connesse è mai evocata e, anzi, viene consapevolmente evitata.
Tra quelli Nintendo, non c'è gioco che abbia affrontato e abbracciato il tema della morte come Pikmin
Stragi senza conseguenze
Un altro grande ostacolo con cui devono fare i conti i game designer, almeno quei pochi che vogliano affrontare l'argomento, è la sostanziale immortalità del protagonista: insomma, non c'è personaggio che venga sconfitto e martoriato più di lui, ma il tempo che intercorre tra la sua caduta e successiva resurrezione è spesso misero e raramente comporta conseguenze gravi. E, anche quando vi siano delle conseguenze, di solito appartengono più alla sfera ludica, come "punizioni", che a quella emotiva: si riparte da un punto più o meno lontano da quello della dipartita, ma spesso non accade niente di più.
È anche vero che il tema è difficile e complicato, e non riportare in vita il protagonista non implica un maggiore legame empatico: basti pensare a Zombie U, il gioco Ubisoft in cui ogni personaggio controllato - se sconfitto - diviene un non morto. Ecco, in quel caso il legame col proprio avatar risulta ancor più distaccato proprio perché effimero. La creazione Ubisoft, uno sparatutto horror, ci aiuta a capire un altro dato semplice ma non scontato: se un titolo non affronta le sensazioni generate dalla perdita, poco importa che abbia goomba o zombie, il tema lo evita lo stesso. Resident Evil non parla di morte e separazione più di quanto lo faccia Super Mario (forse solo un po'): è magistrale nel comunicare angoscia, paura e straniamento, ma la sensazione che si ha una volta uccisi non è diversa da quella suscitata dall'idraulico caduto in un burrone. Tanti giochi di ruolo occidentali, pur dando la possibilità di sventrare qualsiasi persona capiti a tiro, raramente riescono ad esplorare il concetto oltre le statistiche del "cattivone" che si alzano ad ogni vittima innocente: anzi, spesso concedere questa alternativa, al posto che approfondire il tema, rischia di banalizzarlo e appiattirlo definitivamente (chi ha giocato Grand Theft Auto sa a cosa ci riferiamo). Esiste un'ultima barriera ardua da affrontare: la celebre norma "show, don't tell", l'opposizione tra mimesi e diegesi, il "mostra, non raccontare". Che nei videogiochi spesso si traduce nella dicotomia tra azione e filmato, tra combattimenti in tempo reale e quelli a turni. Perciò, anche volendo davvero affrontare la morte di un personaggio, è davvero difficile farlo attraverso la mimesi, e quindi l'interazione stessa: l'esempio più famoso è probabilmente Final Fantasy VII, in cui i personaggi vengono uccisi spesso e volentieri duranti i combattimenti - senza che nessuno li consideri mai davvero morti - e per comunicare la dipartita di uno dei protagonisti viene usato un filmato. Che dona enfasi e spettacolarità, ma non usa li linguaggio unico dei videogiochi in senso stretto.
Pikmin
Tra le saghe Nintendo più celebri e discusse, l'unica che di tanto in tanto abbia trattato l'argomento è stata The Legend of Zelda. Sempre con parsimonia e senza mai esagerare, ma sempre con sapienza; l'attenzione con cui il tema viene gestito è evidente anche per come viene evitato. Non esistono nemici o esseri viventi che possano essere uccisi (vedasi le galline, ad esempio), che non siano mostri o entità evidentemente cattive o avverse. Tuttavia la morte ha fatto spesso capolino in Zelda, e in particolare le emozioni ad essa legate; il primo ritorno a Hyrule da adulti in Ocarina of Time, ad esempio. Oppure l'inabissamento finale del Re in The Wind Waker.
Ma è stato Majora's Mask in particolare a esplorare la tematica, declinandola sostanzialmente in ogni abitante di Termina. Non c'è opera Nintendo comunque che abbia abbracciato l'argomento in modo così essenziale, virtuoso e naturale quanto Pikmin. Come sa chiunque ci abbia giocato, questa serie, ormai composta da tre episodi, affronta brillantemente ognuna delle problematiche precedentemente elencate. Per chi non la conoscesse, la saga introduce un protagonista alieno che, tra varie difficoltà, deve tentare di tornare a casa, riparando (di solito) la propria astronave: il tutto grazie all'aiuto dei Pikmin, delle piantine viventi che riesce a comandare attraverso l'utilizzo della tecnologia - di fatto impartendogli degli ordini. Nel gioco, ideato da Shigeru Miyamoto osservando delle formiche in giardino, la morte è inserita nel modo più fluido e naturale possibile, senza alcuna edulcorazione. Al limite ad essere stilizzato e fanciullesco è lo stesso mondo di gioco, e con esso i personaggi, ma non gli accadimenti. Nemici, protagonista e pikmin appartengono allo stesso universo: non sono malvagi o demoniaci, ma degli animali che vogliono mangiare e, se non ci riescono, vengono mangiati. E la morte colpisce indistintamente compagni e avversari: si tratta di uno dei pochi titoli, pensateci bene, in cui è possibile toccare il cadavere appena ucciso. Si salta sopra una delle tipiche coccinelle carnivore, la si abbatte, e poi si trasporta il corpo esanime - coi pikmin fischiettanti - verso la navicella, dove viene processato e in cui genera, accelerando il ciclo della vita, altri germogli di pikmin.
Il gioco è pieno di questi momenti, e crudo come pochissimi altri. Spesso i propri condottieri vengono sgranocchiati dagli animali, e si sente il rumore del cibo spezzato dai denti; i poveri pikmin vengono morsi, masticati e deglutiti, e il loro singhiozzare è ben udibile. Così come le loro lamentele quando finiscono in acqua e non sanno nuotare... una cosa abbastanza atroce, soprattutto quando siete impossibilitati a recuperarli: dovete sentirli "piangere" fino all'annegamento. Di momenti del genere, di piccole tragedie bucoliche, si nutre il gioco, ben oltre le meccaniche ludiche. I pikmin lasciati senza ordini che vanno verso il miele e vengono sbranati, le stragi di massa accompagnate dagli squittii, i poveretti intrappolati nella ragnatela, ormai destinati alla bocca del ragno. Quelli lasciati al proprio destino di notte, perché non c'è stato tempo per caricarli a bordo: l'esempio più lampante di come questa estetica sia matura e consapevole, perché EAD non si limita a palesare il numerino decrescente dell'esercito, ma vi mostra esattamente i pikmin solitari che, arrivati leggermente in ritardo e in cerca della navicella, vengono azzannati e gustati dalla fauna selvaggia. Per tutti questi motivi, se mai i videogiochi verranno mai trattati come un'opera d'arte, Pikmin avrà un ruolo ben più importante di quello che ricopre adesso. E, la prossima volta che ci giocate, non provate a ricaricare la partita quando ne abbandonate uno: "c'est la vie"!