Nell'ambito dei videogiochi che usano la paura e il terrore come fuoco per le meccaniche e atmosfere, il survival horror è sicuramente uno dei sottogeneri più recenti, nato "solo" una trentina d'anni fa circa. Dagli anni '90 in poi, ha visto crescente successo, che non sembra accennare a diminuire, considerando anche l'ultimo remake di Silent Hill. Cosa distingue, però, un survival horror da un generico action adventure in salsa orrorifica? Spesso, gli elementi sono strettamenti collegati alla sottrazione delle sicurezze classiche del giocatore.
Alcune di queste possono essere il poter salvare illimitatamente e in ogni momento, un inventario senza limiti o una trama raccontata in maniera lineare. Tutto questo veniva strappato via senza pietà sia in Silent Hill che Resident Evil. Eppure nessuno di questi due titoli ha portato, per primo, sul campo queste idee sul minimizzare l'autorità e la libertà del giocatore. Per trovare i primi titoli che hanno inventato molti degli elementi del linguaggio survival horror dobbiamo, invece, tornare agli anni Ottanta.
Iniziamo dallo spazio più buio
Qualcuno potrebbe storcere il naso, però, se non facciamo almeno una tappa a Derceto, bussando alla porta dell'inquietante villa di Alone in the Dark. Al titolo in salsa Lovecraftiana del 1992 va certamente riconosciuto l'aver sperimentato un sistema di controllo (i tank controls), specifico per i titoli in 3D, che verrà riproposto dai primi survival horror. Ma per il resto, il titolo Infogrames stava camminando su un sentiero già tracciato da altri titoli e, tra i tanti, dobbiamo viaggiare nello spazio per arrivare a Project Firestart del 1989.
Sviluppato da Dynamix Software (Rise of the Dragon), Project Firestart ci trasporta in un ambiente chiaramente ispirato da Alien di Ridley Scott: la nave di ricerca SSF Prometheus. Qualcosa è andato storto nel viaggio e il nostro protagonista, Jon Hawking ,dovrà sopravvivere usando risorse limitate. Immaginate di dover esplorare una navicella silenziosa, cercando di farvi strada tra cadaveri dilaniati, come unica compagnia l'eco dei nostri passi. Un'atmosfera decisamente con pochi rivali all'epoca.
Dynamix usa il ritmo in maniera squisita, lasciando parecchi minuti iniziali senza nessun attacco alieno. Dopo aver scovato prima un cadavere con un inquietante messaggio e poi delle vere e proprie carneficine, sapremo che qualcosa ci sta aspettando lì fuori, qualcosa che arriverà molto presto. Per quanto la crescita della tensione possa, oggi, sembrare idea scontata, quasi 40 anni fa lo era decisamente meno. La limitazione delle risorse del giocatore era un elemento tipico negli anni Ottanta, certo, ma Project Firestart non si limita a utilizzarlo per mettere in difficoltà. Limitando l'uso delle armi e i modi per recuperare salute, nonché le scelte su chi salvare dell'equipaggio, la tensione aumenta anche attraverso il gameplay.
Dite addio alle vostre sicurezze
In Firestart i vostri passi nella navicella saranno costantemente accompagnati da un timer di autodistruzione della scialuppa. Perfino la capacità di visione viene meno negli ultimi minuti, quando le luci inizieranno a spegnersi e sarà sempre più difficile orientarsi. Moderna anche la costruzione della narrativa, una storia raccontata esclusivamente tramite pezzi di diari e log trovati qui e lì, che dovremo cercare di rimettere insieme, sempre rimanendo sotto minaccia da parte dei mutanti e dell'autodistruzione.
Anche l'uso che fa Project Firestart delle sequenze animate (o cutscene) sembra esser stato proprio d'ispirazione per Resident Evil. Diversi momenti inquietanti arrivano al giocatore con piena forza e terrore, nonostante le limitazioni del Commodore 64, specialmente riguardo la palette dei colori. Il disegno della nave Prometheus, nonché le singole stanze, trasmette quel tipico senso di soffocamento che troveremo spesso nei classici survival horror degli anni Novanta e Duemila. Se siamo bloccati dagli alieni in una piccola stanza, sarà dura uscirne, perlomeno non senza utilizzare molte delle limitate risorse.
Originariamente il team voleva inserire molti altri elementi avanguardisti, ma il loro approccio non ha trovato gran fortuna durante lo sviluppo che, racconteranno poi membri del team, si è rivelato lungo e faticoso. Lo stesso publisher, Electronic Arts, non sembrava molto credere nel progetto e sfortunatamente, nonostante questi ricchi elementi, il marketing di Project Firestart è rimasta alquanto limitata. Ancora oggi, il titolo langue in un'oscurità sicuramente non meritata per una tale avanguardia.
Pronti ad andare fuori di testa?
Destino simile toccherà a Venerdì 13, o Friday the 13th, il languire nell'oscurità, ma questa volta perlomeno con un motivo ben preciso. Riconosciuto, oggi come nel 1986, come uno dei titoli peggiori mai usciti su Commodore 64 (ancora peggio su Spectrum), Friday the 13th ricevette una pessima ricezione da parte della critica e l'odio da parte di quei pochi che lo comprarono. Certo, il gameplay è oltremodo ripetitivo, la grafica ignobile e il sonoro ridicolo (Nella Vecchia Fattoria come sottofondo??), eppure rivisitato oggi lascia scoprire alcune idee embrionali che sono ormai parte del linguaggio survival horror.
Si prendono i panni di uno dei protagonisti, con il compito di scovare Jason Vorhees, che si è apparentemente travestito, e ucciderlo prima che questi inizi a uccidere gli altri intorno a Crystal Lake. Come faccia esattamente un maniaco alto due metri, con una maschera da hockey, a passare in maniera efficace per una ragazza bionda con la gonna, è una domanda a cui non sapremmo rispondere. E, tutto sommato, meglio così.
In ogni caso, Friday the 13th debutta (presumibilmente per la prima volta nella storia) un sistema di sanità mentale: più il giocatore troverà i suoi amici uccisi e più andrà fuori di testa e inizierà a vedere allucinazioni. Carina anche la rappresentazione UI, con i capelli che si drizzeranno sempre di più al nostro personaggio. Inoltre, secondo il manuale, "Jason prenderà di mira sempre il personaggio più fragile di mente". Difficile verificare se sia vero o meno, ma non solo si tratta di un'idea originale, ma anche di tipico elemento dei film horror. Spesso, a fare una brutta fine per primi son sempre i personaggi più odiosi e irritanti.
Ti ho fatto paura eh?
E non è finita qui. Friday the 13th è anche il primo gioco della storia, almeno in assenza di misconosciuti esempi precedenti, a usare quelli che vengono chiamati "jumpscare". In certi momenti, il gioco produce immagini a caso (spesso in maniera inversamente proporzionale alla nostra sanità mentale), accompagnandole con un urlo sintetizzato da far gelare il sangue. In altri giochi dell'epoca, come Rescue on Fractalus! della Lucasarts, è pure agevole trovare momenti spaventosi che spuntano fuori dal nulla, ma hanno comunque l'utilità farci sapere che la nostra navicella è sotto attacco. In Venerdì 13, l'urlo non ha nessun'altra utilità che far spaventare il giocatore.
Altre idee anche ritroveranno fortuna nei survival horror, come il "santuario", un posto sicuro dove è possibile non solo portare i nostri amici per salvarli da Jason, ma anche lasciare armi per poi recuperarle. C'è da dire che in questo caso, il santuario può essere facilmente violato da Jason, con conseguente fuga generale di tutti, ma l'idea è sicuramente presente. Oltretutto, per completare il gioco non è nemmeno necessario salvare i nostri amici, basta scoprire chi è Jason e ucciderlo in fretta. Almeno, per il momento, sappiamo che il nostro amico mascherato tornerà ancora e ancora.
La ben più nota versione NES di Friday the 13th non ha nulla a che vedere con quella per computer, essendo uscita tre anni dopo e sviluppata da un team diverso. Eppure è sicuramente rimasta più nota tra il pubblico generale, probabilmente per l'elegante tutina viola di Jason. Di certo, in quanto action adventure con alcuni elementi ruolistici, non sembra presentare elementi particolarmente degni di nota per il survival horror . E sono proprio gli elementi GDR che animano anche uno dei classici antenati dei survival, è ora di entrare nell'oscura dimora della Capcom, andare verso Sweet Home.
Casa mia casa mia
Prodotto da Kiyoshi Kurosawa, il regista del film da cui Sweet Home riprende storia e personaggi, il titolo NES segue la storia di cinque documentaristi che esplorano una casa, cercando di trovare dei preziosi affreschi lasciati dal proprietario. Finiranno intrappolati da un minaccioso ectoplasma e dovranno combattere per uscirne vivi. Sarà necessario per il giocatore lavorare in gruppo per uscire indenni dalla casa, ogni membro porterà un potere diverso, quali per esempio la possibilità di usare un accendino o un aspirapolvere. Ma, chiaramente, il titolo Capcom ci limita a soli tre membri alla volta, sarà quindi necessario lasciare qualcuno indietro e cambiare spesso membri del team per poter sopravvivere più a lungo.
Sweet Home racconta una inquietante storia horror attraverso diari e note sparsi per la casa, dove scopriremo che il figlio dell'originale proprietario è morto in un incidente e il papà, accecato dalla follia, ha iniziato a uccidere altri bambini coetanei per cercare di trovargli dei "compagni di gioco". Oltre a questi inquietanti risolvi, Sweet Home continua a limitare la libertà del giocatore, con personaggi con spazio limitato nell'inventario, elemento certo non proprio tipico dei JRPG. Non mancano anche eventi quicktime, in cui dovremo reagire in tempo per salvare i nostri.
Nonostante il gran successo in madre partia, Sweet Home non uscì mai dal Giappone, essendo stato considerato troppo violento per l'immagine tipicamente "per famiglie" che Nintendo of America stava cercando di smerciare all'epoca. Il film, poi, era totalmente sconosciuto al pubblico occidentale, quindi mancava del tutto il richiamo marketing. Nonostante possa essere curioso tracciare paralleli tra Sweet Home e Project Firestart, i due titoli sono usciti lo stesso anno, e in mercati molto diversi, quindi resta sicuramente da escludere una vicendevole influenza.
Alla fine arrivano anche i topi
Vedendo il successo col pubblico del Sol Levante, arriva l'idea di realizzarne, nel 1993, un seguito. Con Kurosawa che torna come produttore, l'idea è di fare di Resident Evil proprio un remake moderno, con una grafica in 3D. Il progetto però, inizia ad andare per le lunghe, e Capcom finisce col perdere i diritti per il film. Kurosawa lascia il progetto e l'azienda, mollando Shinji Mikami a finire di sviluppare il gioco. Questi cambierà la storia, per ovvi motivi, ma manterrà molte delle meccaniche di quel che è a tutti gli effetti ancora un remake di Sweet Home. In controluce, perlomeno. Il resto, come si dice, è storia.
Per chi ancora ha curiosità di scoprire elementi del passato survival horror, vi sono diversi altri titoli da menzionare come ispirazione per il sottogenere, per esempio l'avventura testuale/strategica The Rats del 1985. Un interessante esperimento nel replicare il libro di Herbert con un afflato manageriale, dove controlliamo non solo personaggi diversi dal libro, ma anche decidiamo quando e dove mandare pompieri o polizia, per tenere sotto controllo invasione dei topi a livello cittadino.
Andando a scavare con cura nell'horror degli anni Ottanta è agevole rintracciare quel substrato culturale e di game design che poi fungerà da essenziale base per la creazione di classici Capcom e Konami. In qualche modo, Oriente e Occidente sembravano uniti nell'immaginare delle limitazioni al giocatore da incanalare in quell'ottica di paura e terrore, che poi ritroveremo anche successivamente in titoli SNES quali Clock Tower. Se il survival horror continua a trovare fan e seguaci ancora oggi, lo dobbiamo sicuramente anche a questi oscuri antenati che, ancora oggi, meritano spesso una riscoperta e rivisitazione. Perché no, anche dopo Halloween.