Cosa frulla nella mente geniale di Shinji Mikami, soprattutto quando si mette all'opera per creare un videogioco horror? Difficile dirlo. Forse per comprenderlo fino in fondo ci vorrebbe quel congegno, lo STEM, "protagonista" della sua serie The Evil Within. Lo stesso che lo scrittore Trent Haaga ha definito come "una sorta di Matrix creato da Freddy Krueger". Ma non è possibile. Limitandoci allora a quanto ha dichiarato in questi anni nel corso di alcune interviste, e a quanto abbiamo visto nei vari Resident Evil che ha curato o nella sopracitata serie, diremmo "tanta roba". Ma quali sono le fonti di ispirazione di colui che viene definito il papà del survival horror, e quali sono secondo lui gli ingredienti giusti per ottenere un buon titolo del genere? Dai film occidentali ai racconti folkloristici orientali, fino all'idea che certe situazioni fanno più paura se calate in un contesto quotidiano e reale, vi raccontiamo il concetto di "orrore" secondo Shinji Mikami.
Nella mente di Shinji
Per il suo primo, grande successo, quello che lo ha lanciato nell'Olimpo dei grandi artisti del settore, vale a dire Resident Evil, Shinji Mikami trasse spunto da diverse opere cartacee e cinematografiche occidentali, dalle pellicole sui morti viventi di George A. Romero (ma anche Zombie di Lucio Fulci), ad Alien di Ridley Scott, passando per Lo squalo di Steven Spielberg e lo Shining di Stanley Kubrick. Di quest'ultimo film Mikami si servì in particolare per la creazione di alcune aree all'interno della magione degli Spencer, riprese dall'inquietante Overlook Hotel. "Volevo fare un gioco davvero spaventoso", svelò in proposito in un'intervista del 1996, "ma non con fantasmi o stronzate del genere. Volevo mostri reali che si potevano vedere, che sarebbero venuti incontro ai personaggi e partiti all'attacco alla loro vista." La paura al centro di tutto, da incutere grazie all'atmosfera, alle inquadrature ad hoc, ai suoni, alla sensazione di pericolo imminente, alla disperazione di una situazione senza apparente via di fuga. Perché "anche se i nemici possono avere un aspetto pauroso, ai fini della paura sono più importanti le situazioni che si vengono a creare, l'idea che si ha una sola possibilità di uscirne vivi, un numero di risorse limitato e il fatto di trovarsi sempre in pericolo, dovendo scegliere in una frazione di tempo se fuggire o combattere".
Lottare per sopravvivere
Il combattimento, già. Un elemento del gameplay che non deve essere preponderante in un gioco del genere, ma neanche posto in secondo piano. Perché, a suo dire, c'è bisogno di un giusto bilanciamento tra la parte horror e quella prettamente action, visto che "se prevale la prima, il gioco diventa surreale e magari eccessivo; se prevale la seconda si perde l'atmosfera e si banalizza il tutto". Insomma, come dire che puoi uccidere i mostri e avere un breve senso di sollievo, ma non bisogna eccedere in nessuna componente. I survival horror per esprimersi al massimo devono quindi proporre un giusto bilanciamento tra eventi paurosi, avventura ed azione. "L'esperienza è più spaventosa quando il giocatore non è certo se il proprio personaggio viva o muoia. La morte e la sopravvivenza devono essere una costante. L'orrore consiste anche nel trovarti in una situazione in cui tu non sei al 100% sicuro di poter evitare o sconfiggere i nemici." Questa voglia di bilanciare perfettamente un gioco in tutte le sue componenti chiave, Mikami ha cercato di proporla nel primo The Evil Within, un titolo caratterizzato da una direzione ben precisa: costruire su una base "tradizionalista" un'esperienza non rivoluzionaria, ma convincente, con una certa apertura verso elementi nuovi chiaramente ispirati a giochi moderni come The Last of Us o il già citato Resident Evil 4. "Anche perché la tecnologia si evolve e bisogna adeguarsi".
Storie di paura
Atmosfera, intesa anche come sensazione di pericolo, tensione. Combattere per la propria vita, consapevoli però dei propri limiti e delle proprie fragilità. Manca un terzo elemento chiave per descrivere al meglio il concetto di survival horror di Shinji Mikami: i mostri. Abbiamo scritto qualche riga sopra, che l'artista giapponese ritiene più importante la situazione in cui si trova il giocatore che l'aspetto terrificante delle creature che deve fronteggiare. Ma questo non vuol dire che per lui queste ultime debbano essere "gradevoli" o incapaci di incutere timore alla sola vista. In fondo basta guardare le creature che popolano il mondo dei due The Evil Within per rendersi conto della ricercatezza con cui sono raffigurate, il simbolismo che a volte nascondono, lo stile artistico. Nulla, insomma, è lasciato al caso. Qualche mostro riporta alla mente i nemici di altri giochi, come gli Shibuto di Siren o gli abomini della Umbrella Corporation, ma in larga parte essi sembrano trovare ispirazione nelle storie e nelle leggende giapponesi.
D'altronde Mikami sembra essere affezionato a una vecchia storia del folklore giapponese, che lesse a scuola uno dei suoi insegnanti. Intitolata Yotsuya Kaidan, si tratta di una vicenda di tradimenti, omicidi e vendette post-mortem, con diversi riadattamenti e trasposizioni cinematografiche. E chissà che i volti di quel personaggio che abbiamo visto in alcuni video, soprannominata "la Guardiana", specie quello col ghigno, non siano una reinterpretazione della faccia spettrale della povera Oiwa del racconto, e della sua spaventosa risata, che tormentavano il marito traditore e assassino. Di certo qualche influenza da uno dei film tratti dal racconto, Tokaido Yotsuya kaidan di Nobuo Nakagawa del 1959, ma anche di altre pellicole orientali c'è, se non altro per quella loro peculiarità di calare certe situazioni spaventose all'interno di contesti apparentemente normali. Queste si svolgono spesso in un ambiente "familiare", proprio perché l'intrusione nella quotidianità di ogni individuo di fattori "estranei" alla sua esistenza, in generale generano in lui un senso di profonda insicurezza e angoscia, e contribuiscono a creare una paura ancora più viscerale, perché vanno a intaccare quella sicurezza costituita dagli affetti, dalla semplicità delle cose, dal tran tran delle proprie abitudini, da ciò che è, appunto, familiare. Figuriamoci se si parla di entità o creature fuori dall'immaginario collettivo. Insomma, un bel mix di influenze occidentali e orientali, cosa normale per uno che a suo dire è stato affascinato dall'orrore per quasi tutta la sua vita, e "attratto da ogni sua forma, indipendentemente dal fatto che fosse giapponese o occidentale". Frase perfetta con la quale chiudiamo il nostro speciale su Shinji Mikami.