La data dell'embargo della recensione di God of War Ragnarok è ormai sempre più vicina: appena una settimana ci divide da essa e il nostro lungo viaggio nelle terre norrene continua senza sosta. Qualche giorno fa vi avevamo raccontato le nostre prime impressioni su questo attesissimo sequel su cui tutti nutrono enormi aspettative considerato il successo e le pochissime critiche che furono rivolte all'eccellente soft reboot realizzato dai ragazzi di Santa Monica. E, siccome non volevamo in alcun modo lasciarvi a bocca asciutta sul progetto, grazie a Sony abbiamo avuto l'opportunità di partecipare ad una piacevole ed intensa chiacchierata con la figura più importante di questo nuovo capitolo: il suo director.
Eric Williams è la persona che ha dovuto prendere le redini cedute da Cory Barlog immediatamente dopo l'uscita del God of War del 2018, confermando ancora una volta la benedizione/maledizione di tutti i capitoli principali della serie che, di episodio in episodio, hanno visto il costante passaggio di testimone da un regista ad un altro senza che ci fosse mai l'opportunità per la stessa persona di mantenere il suo ruolo per più di un progetto. Solo che questa volta le contingenze sono state davvero particolari: il cambio di generazione, la pandemia, la necessità di portare avanti una trama letteralmente interrotta sul più bello, con un enorme cliffhanger. Se Williams sarà riuscito nel suo intento di offrire al mercato l'ennesimo capolavoro della serie, lo potremo dire soltanto tra una settimana, ma in questa intervista avrete invece modo di ascoltare dalle sue parole cosa è significato lavorare per 4 lunghi anni a God of War Ragnarok.
Seguiteci in questo piacevole dietro le quinte di questo progetto. Vi garantiamo che ne varrà la pena.
Un percorso iniziato prima del previsto
I lavori su Ragnarok, almeno a livello embrionale, nascono nel settembre del 2017, 6 mesi prima dell'uscita del God of War che ha rivoluzionato la serie. Il team ha da poco concluso lo sviluppo per quello che concerne i contenuti ed internamente è evidente che quello che è venuto fuori merita sicuramente un secondo capitolo. I contenuti sono tanti, le idee ancora moltissime e soprattutto la storia narrata richiede una conclusione che si possa definire tale. Ancora non si sa se si parlerà di una trilogia o di un singolo gioco, ma Barlog comincia a valutare chi sarà il suo successore: chi deve caricarsi sulle spalle il peso del capitolo successivo.
"God of War è uscito il 20 aprile 2018 e io ho iniziato a lavorare concretamente sul Ragnarok 24 ore dopo, il 21 aprile" confessa con un misto di fatica e gioia Williams all'inizio della nostra intervista, "mentre il resto del team ha cominciato ad andare in vacanza per prendersi il consueto relax post-uscita, io ero già pronto a ricominciare. La piena produzione è iniziata invece intorno all'ottobre di quell'anno". In questi mesi di "riposo", il director con un piccolissimo staff dedicato alla pre-produzione ha realizzato la cosiddetta bibbia di design: un librone di 100 pagine che fungeva da ispirazione per tutto il team in merito alle idee, le scelte artistiche e i contenuti che sarebbero finiti in Ragnarok.
Questo "manuale" è diventato immediatamente un vero e proprio segno di appartenenza alla squadra di sviluppo come ci ha raccontato Williams: "lo abbiamo stampato e rilegato come un libro e tutti quelli che erano nel team avevano una copia con il proprio nome scritto sopra. A un certo punto è diventato anche una sorta di investitura ufficiale nello sviluppo visto che tutti quelli che venivano assunti dal team, dovevano ricevere questo omaggio". Fino all'avvento della pandemia. Un evento che arrivò letteralmente come un fulmine a ciel sereno. Non fu tanto una questione del rendersi conto della gravità della malattia, ma a sorprendere furono le tempistiche delle decisioni prese dal team. Il venerdì erano ancora tutti in ufficio a lavorare, a salutarsi augurandosi un bel weekend e il lunedì mattina, la direzione aveva diramato l'obbligo di rimanere a casa per lavorare in remoto e da allora nessuno si sarebbe più rivisto per i mesi successivi.
"Fortunatamente quando questo è avvenuto, gran parte della squadra aveva già una conoscenza perfetta e completa dell'intero arco narrativo, di dove sarebbe andata a parare la storia, di quali sarebbero stati i principali elementi di gameplay e di tutte le scelte artistiche che avremmo fatto", spiega Williams che per questo sequel aveva scelto di adottare un approccio produttivo molto similare a quanto avviene nello sviluppo delle serie TV. Ogni volta che gli scrittori avevano messo a terra circa il 25% della storia, veniva dato mandato al team del motion capture di iniziare a girare e contemporaneamente partivano una serie di riunioni con tutti i leader dei vari dipartimenti, strutturate come delle letture di un copione: gli sceneggiatori raccontavano nel dettaglio quella porzione di trama e contemporaneamente mostravano i concept art degli ambienti, dei nemici e delle vicende. Così facendo, poco prima della pandemia tutte e 4 le parti della trama erano già state completate.
"È stato un momento di grande caos e in quell'occasione ho realizzato che lo scopo di un director è quello di essere un faro per il team di sviluppo: il sole deve scottarti, l'intonaco si deve staccare, i gabbiani ti sporcheranno con i loro escrementi e sarai colpito da fulmini e onde, ma tu devi rimanere lì a far girare la luce per consentire alle navi di tornare a casa e rimanere sulla rotta". L'immagine evocata da Williams è poetica e ben rappresenta lo stato d'animo e la complessità dei 2 anni in cui la pandemia ha colpito con maggiore violenza, nel 2020 e nel 2021. Davanti alla nostra specifica domanda in merito al perché ci sia voluto tutto questo tempo per la distribuzione del gioco, il director è preciso e lapidario: "per fare bene le cose ci vuole tempo. Sì, probabilmente potevamo far uscire il gioco prima, ma il nostro obiettivo era raggiungere la massima qualità possibile con Ragnarok e il tempo aggiuntivo ci ha permesso di perseguire questo scopo".
Le difficoltà dell’essere un director di God of War
"In realtà non ho scelto io di essere il director, è lo studio che ha scelto me", dice sorridendo Williams quando gli chiediamo esplicitamente cosa significhi essere un director di God of War e quando ha deciso di proporsi per il ruolo. La storia lavorativa di Eric è abbastanza particolare: fin dal lontano 2004 entra in Santa Monica per lavorare al primissimo capitolo della serie insieme a David Jaffe, il regista dell'epoca. Fa in tempo a lavorare anche sul secondo capitolo, poi se ne va, fonda un piccolo studio di consulenza nello sviluppo dei videogiochi e da quel momento diventa un consulente esterno per Santa Monica con cui continuerà a collaborare per tutti i God of War successivi. C'è stata poi una piccola digressione con Darksiders di Vigil Games e THQ, prima di rimettersi a lavorare sulla serie. Williams è sicuramente un director atipico, probabilmente il primo a non essere un dipendente diretto di Santa Monica ma, per l'appunto, un consulente esterno abituato ad intervenire sui team per aiutarli a completare i lavori, per fluidificare i rapporti tra i dipartimenti, per ottimizzare al massimo l'organizzazione interna di una software house puntando sugli elementi che funzionano meglio e gestendo gli aspetti più problematici.
"Sono quel tipo di persona abituata a rimanere dietro le quinte per supportare le persone nel loro lavoro. Conosco Cory [Barlog] da 20 anni e quando ha insistito affinché accettassi questo ruolo, non ho potuto dirgli di no. Mi diceva di essere stanco, di non voler dirigere anche il sequel e per me accettare è stato come fare un piacere ad un carissimo amico"; ed è così che Williams è diventato il director di Ragnarok. Ma cosa significa in concreto prendersi questa responsabilità, gli abbiamo chiesto? Inizialmente Eric ha immaginato di dover semplicemente proseguire nel suo ruolo di consulente: far sì che le cose seguissero semplicemente il loro corso, che non uscissero da una serie di binari preimpostati da chi era venuto prima di lui. Ma poi ha cominciato a sentire il peso della responsabilità, il peso del nome: "ti senti responsabile nei confronti del team, dei milioni di giocatori che aspettano il titolo e percepisci anche un senso del dovere verso la proprietà intellettuale: non vuoi essere ricordato come colui che ha incasinato il franchise".
Tra l'altro Williams ci tiene a sottolineare che lui stesso ha contribuito a creare la visione del soft reboot portato sugli schermi da Barlog. Come abbiamo già detto infatti, Eric ha lavorato su tutti i capitoli principali di God of War e il gioco del 2018 rientra alla grande in questo elenco: "sono stato tra le prime 3 persone inserite nel progetto e ho contribuito a creare ed ingegnerizzare tutte le idee alla base dell'avventura. In qualche modo [la telecamera e il sistema di combattimento] sono anche mie creature". A lui piace essere considerato una sorta di regista invisibile, qualcuno che porta avanti in modo fluido, rispettoso e nel massimo della continuità, quanto messo in piedi in precedenza da qualcun altro.
Ragnarok è figlio di questa visione e tutti gli elementi introdotti non vanno a modificare sostanzialmente il gameplay: lo arricchiscono, lo potenziano, sono magari dei riferimenti ad alcune meccaniche dei capitoli precedenti, oppure sono idee che per motivi di tempo o di risorse, non sono state implementate nel 2018 e ora invece, sono rientrate agilmente nella tabella di marcia dello sviluppo.
Cross-gen non è per forza un male
"Ho appena finito la mia terza partita su PS4 base e continuo a rimanere impressionato del risultato. Avevo paura che la console prendesse fuoco considerato quanto l'abbiamo spinta per far girare un gioco del genere". Williams non è solo incredibilmente soddisfatto del lavoro svolto dal suo team, ma non ha alcun dubbio in merito all'utilità di avere un progetto come God of War Ragnarok, cross-platform: ci sono milioni di fan del capitolo del 2018 che per scelta o per impossibilità nel trovare PlayStation 5, sono rimasti ancora con la vecchia ammiraglia di casa Sony e privarli di questo gioco non avrebbe alcun senso. Soprattutto in funzione di quel desiderio di continuità e di intimo collegamento tra i due capitoli alla base della serie.
Ma chiaramente la versione PS5 ha una marcia in più: ci sono i miglioramenti grafici, c'è il frame rate sbloccato verso l'alto che può andare ben oltre i 60 FPS, ci sono le implementazioni relative al DualSense, tra il feedback aptico e i grilletti adattivi, c'è un dettaglio grafico nettamente superiore. "Probabilmente non abbiamo sfruttato l'hard disk come altri studi, ad esempio con Ratchet [and Clank] perché God of War è già strutturato in modo da non caricare, fa tutto di nascosto in background, ma quando abbiamo potuto, l'abbiamo utilizzato per accelerare alcuni elementi". Dalle parole di Williams è chiaro come Ragnarok punti al maggior numero possibile di giocatori offrendo un'esperienza di alto livello, ma senza l'angoscia o l'esigenza di settare nuovi standard in ambito tecnico.
Quest'obiettivo "di massa" si ripercuote anche sulle opzioni di accessibilità che sono letteralmente esplose in questo sequel: da una decina scarsa nel 2018 a più di 60 nell'episodio in dirittura d'arrivo. Anche su questo fronte alla base del lavoro di implementazione non c'è solo la volontà di andare incontro a chi ha disabilità motorie o limitazioni visive e uditive, ma anche di offrire la massima configurabilità possibile per andare incontro alle esigenze dei giocatori tutti. Eric Williams è preciso in questo senso: "non voglio raccogliere il loot spingendo un tasto? Beh, c'è l'opzione per abilitare l'auto-loot". E questo effettivamente è un fattore in funzione della massima diffusione del gioco.
Meglio del precedente o solo diverso?
Ci sono poi due elementi che ci stavano particolarmente a cuore parlando del sequel di God of War e che davvero non potevamo tralasciare durante la nostra chiacchierata con Eric Williams: la componente più aperta del mondo di gioco e il sistema di combattimento ripensato da zero per il soft reboot. In entrambi i casi ci sono stati moltissimi elogi in giro per il mondo, ma anche qualche discussione tra i fan e i critici più aspri. Il director non si è assolutamente tirato indietro e anzi ha voluto nuovamente sottolineare come l'approccio "wide-linear", lineare nella storia, ma aperto nel modo in cui affrontarla, sia alla base anche del sequel e rappresenti più che mai un valore aggiunto per la serie.
"È una scelta di design che va incontro a quei giocatori che vogliono approfondire, che sono davvero coinvolti dalla storia e dai personaggi e vogliono esplorare il mondo che abbiamo costruito. Nessuno viene forzato e se vuoi limitarti a seguire la trama principale, puoi farlo", e poi Williams aggiunge un passaggio fondamentale: "vogliamo che le persone prendano delle decisioni che non riguardano la trama, ma come affrontano il gioco e il suo gameplay". Questo tipo di libertà che viene estesa a dismisura rispetto al God of War del 2018 è uno degli elementi su cui abbiamo evidenziato parte delle nostre preoccupazioni nell'articolo di prova della scorsa settimana e ha ripercussioni anche sulla personalizzazione di Kratos che ora si basa su una miriade di opzioni aggiuntive rispetto al passato sia in termini di equipaggiamento che di specializzazione dell'armamentario, senza tralasciare abilità e poteri speciali.
Tutto questo non si traduce in una "bastardizzazione" di God of War, nel volerlo trasformare in qualcosa di differente: bensì significa continuare a offrire un'esperienza completamente votata al single player ma più profonda, complessa, sfaccettata e in grado di tenere invischiato il giocatore che ha la voglia e il tempo di approfondire ogni singolo elemento della storia e degli ambienti. In questo modo la longevità aumenta e si può anche giustificare più facilmente il prezzo pieno richiesto per acquistare un'esperienza ludica che, una volta completata, potrebbe non avere più nulla da offrire; specie in confronto con qualsiasi live service multiplayer.
E anche quando si finisce a parlare di combattimento, Williams ha le idee chiarissime e continua a portare avanti il suo desiderio di continuità, quel legame profondo che unisce Ragnarok al suo predecessore: "c'erano un mucchio di cose che volevamo inserire nel primo gioco, ma ci avremmo messo ancora più tempo a farlo e per questo abbiamo prima di tutto posto delle buone fondamenta. Ho sempre avuto bene in mente il salto che ci sarebbe dovuto essere tra i 2 titoli, un po' come avvenuto tra God of War [l'originale del 2005] e God of War 2, oppure tra Chain of Olympus e Ghost of Sparta [i 2 capitoli per PSP], al punto da mettere giù proprio dei punti sul numero di nemici da aggiungere e altri elementi vari". E come ci è già capitato di dire, bastano già le primissime ore di gioco per rendersi conto dei passi in avanti fatti da Ragnarok per tutto quello che concerne il close combat e la varietà a disposizione del giocatore.
E Williams non si tira indietro neanche nel momento in cui, per congedarci da lui, gli abbiamo chiesto con una bella faccia tosta come si sente di rispondere a chi continua a chiamare Ragnarok, un God of War 1.5. "La domanda ci sta, ma ti risponderò in modo molto americano: non mi interessa quello che la gente dice: facciamo quello che vogliamo fare. Abbiamo iniziato a pensare a Ragnarok molto prima che il precedente gioco arrivasse sul mercato: avevamo un piano e ci siamo attenuti esattamente a quello perché ci credevamo ed era quello che volevamo realizzare." Ma non si ferma a questa dichiarazione: "Quando abbiamo fatto uscire il secondo trailer, beh quello ha parlato per noi, ha parlato a nome del team. Non sono dovuto uscire io allo scoperto per spiegare il gioco o per convincere le persone della sua bontà perché nessuno mi avrebbe creduto. Lo ha fatto il trailer al posto mio: ci sono già troppe persone che chiacchierano solo, mentre pochissime mostrano i fatti".
E per i fatti dovremo purtroppo tutti aspettare, ancora, una manciata di giorni.