Istinto ed esperienza sono i primi maestri dell'essere umano. La mano si ritrae di scatto dinanzi al calore di una fiamma, il corpo sussulta al suono di un boato improvviso, i videogiocatori si buttano a capofitto attraverso le cascate in cerca di tesori nascosti. Con ormai mezzo secolo di storia alle spalle, la dimensione oltre lo schermo che ospita il videogioco ha assunto i connotati di un mondo fatto e finito, un luogo caratterizzato da un'evoluzione propria, fatta di piccole abitudini, usi e costumi capaci di influenzare la maggior parte delle scelte che guidano l'interazione.
In parole povere, nei mondi dei videogiochi si tende a compiere tutta una serie di azioni figlie delle esperienze del passato, spesso senza sapere bene a quale ricordo risalgano, come se nel corso degli anni un metaforico "codice dei videogiocatori" sia entrato a far parte del DNA degli appassionati. Si tratta di un procedimento solitamente molto lungo, che tuttavia è stato replicato con successo nell'orbita di singole pubblicazioni: Hidetaka Miyazaki, ad esempio, ha addestrato il pubblico ad approcciare i suoi livelli in modo unico, cambiando completamente il modo in cui si legge l'ambientazione. I reduci di Dark Souls, infatti, menano fendenti contro qualsiasi parete in cerca di muri invisibili e tentano improbabili salti della fede per calarsi in voragini oscure, consapevoli che dietro ogni angolo si nasconda lo spettro della morte.
Questo fenomeno si è verificato in modo silenzioso fin dall'alba del medium, portando all'emersione di dozzine di "cattive abitudini" delle quali è diventato impossibile fare a meno. La ricerca del passaggio dietro la cascata, quella del percorso nascosto alle spalle del protagonista nei giochi a piattaforme in due dimensioni, la caccia al superboss sulle sponde degli RPG, il desiderio irrefrenabile di frantumare ogni genere di vaso o contenitore: ormai sono tantissimi i cliché che fanno parte del retaggio del medium, ma quali sono le loro origini? Perché si sono impressi a fuoco nella memoria storica dei videogiocatori?
Il segreto dietro la cascata
Le cascate hanno sempre esercitato e continuano a esercitare un fascino magnetico sui videogiocatori. Esplorando le terre di Skyrim, ad esempio, capita costantemente di imbattersi in acque scroscianti che nascondono forzieri dimenticati, e ogni volta che ciò non accade la curiosità cede il passo alla delusione. Esiste addirittura un profilo Twitter - VGWaterfalls - che mira a raccogliere tutti i segreti celati dagli sviluppatori dietro le cascate nel corso dei decenni, una raccolta che oggi accoglie clip tratte da Ghost of Tsushima, Ninja Gaiden, Banjo-Kazooie, Castlevania: Symphony of the Night e centinaia di altre pubblicazioni. Ma è davvero sempre stato così?
C'è una serie che nello specifico sembra avere un rapporto particolare con le cascate, ovvero The Legend of Zelda. Sulle sponde di Ocarina of Time, dietro una di esse si nascondeva l'accesso al regno degli Zora; in Link's Awakening, un dungeon attende il protagonista proprio alle spalle di una mastodontica cascata; più di recente, nella Hyrule di Breath of the Wild, il santuario di Dow Na'eh poteva essere individuato solamente da coloro che si fossero lanciati attraverso la corrente sfruttando la paravela. Il mistero è presto spiegato: il primo segreto nascosto oltre le acque di una cascata risale proprio a The Legend of Zelda del 1986: dopo che un vecchio all'interno del quarto dungeon suggeriva al protagonista di attraversare una cascata, era necessario individuare tale luogo durante la scalata della Death Mountain, per poi raggiungere la donna all'interno e ricevere un suggerimento riguardo la posizione del labirinto successivo.
Andando oltre l'universo dei videogiochi, la formazione dei cosiddetti ripari sotto roccia dietro le cascate è un fenomeno geologico molto comune, e non è una sorpresa che sia diventato un punto fermo nella fantasia legata all'avventura. Nel mondo reale, tuttavia, tali alcove sono umide al punto da essere invivibili, mentre il fenomeno dell'erosione le porta solitamente ad avere vita molto breve. La prima testimonianza scritta di tale immaginario risale alla Grettis saga Ásmundarsonar islandese del quattordicesimo secolo, che narrava tra le altre cose di una stirpe di giganti che aveva trovato rifugio oltre le acque di una cascata. Nel 1592, in Cina, vedeva invece luce Viaggio in occidente, il romanzo dedicato alle gesta del celebre Sun Wukong, nel quale il protagonista saltava oltre le acque impetuose per imbattersi nella vasta grotta che si sarebbe trasformata nel rifugio del suo clan. Da allora, il fascino magnetico delle cascate ha iniziato a diffondersi da est a ovest, dai fondali de Il Signore degli Anelli fino alle tavole dedicate a Batman, prima di intrecciare il suo cammino con quello dei videogiochi grazie all'intervento di Shigeru Miyamoto e Takashi Tezuka.
Nier: Automata, Assassin's Creed: Valhalla, Undertale, Outer Wilds, Uncharted 4, Far Cry 5, Journey: non importa se piccolo o grande, se kolossal o opera indipendente, praticamente ogni videogioco che ospita una cascata, da allora, la sfrutta per nascondere una piccola ricompensa, ben consapevole che gli appassionati siano attratti dal richiamo delle acque come falene dinanzi a una lampadina.
Il percorso dietro l'inizio del livello
La sequenza cinematica si è appena conclusa, tutto è pronto per iniziare il viaggio, un universo d'azione si estende di fronte al giocatore: sembra giunto il momento di passare ai fatti. E invece no. Il protagonista si gira di scatto, e anziché procedere verso il suo obiettivo si dirige nella direzione opposta, spesso schiantandosi contro una parete di nuda roccia che non ha nulla da raccontare. Nel film Ready Player One, il giovane Parzival risolve il primo easter-egg ideato dal visionario James Halladay semplicemente ingranando la retro e puntando dritto verso l'inizio del livello, individuando così il circuito nascosto che gli consente di arrivare indenne in fondo alla gara impossibile; una soluzione, questa, che mina profondamente la sospensione dell'incredulità, perché una meccanica del genere è divenuta ormai parte integrante del DNA dei videogiocatori, al punto che chiunque avrebbe potuto risolvere quel genere di enigma in un batter d'occhio. Nell'originale romanzo di Ernest Cline le prove cui i giocatori sono sottoposti sono decisamente più complesse e articolate, pertanto tale scelta fu il frutto della volontà di rendere il film più accessibile per il pubblico di massa. Perché, per i giocatori navigati, l'atto di controllare per bene l'inizio del livello è praticamente un riflesso incondizionato.
Se già agli albori dei videogiochi arcade capitava molto spesso d'imbattersi in qualche genere di power-up celato all'inizio dell'avventura, è estremamente difficile - a differenza dei segreti dietro le cascate - risalire con assoluta certezza al punto zero di questa corrente. Sul fronte console si tende a fare riferimento a Metroid per NES, nato dall'idea di Yoshio Sakamoto di destrutturare il classico design dei livelli, impresa poi portata a termine grazie all'apporto del grande Satoru Okada. Non appena Samus sbarcava sulla superficie del pianeta Brimstar, anziché procedere verso destra - come tradizione imponeva - era necessario recuperare la celebre Morphing Ball in una schermata sulla sinistra prima di poter scivolare al di sotto delle rocce per proseguire lungo il sentiero principale. Nel caso specifico sarebbe stato impossibile procedere senza ottenere la nuova abilità, e questa fu posizionata all'inizio del livello proprio per abituare i giocatori ai labirinti che si sarebbero trovati ad affrontare.
Tale formula fu popolarizzata dai primi istanti di Donkey Kong Country per Super NES: all'inizio del primo livello non era solamente possibile rientrare nella casetta del protagonista per raccogliere un palloncino-vita, ma persino accedere al deposito delle banane della famiglia Kong per assistere a una minuta animazione. Negli anni seguenti, l'ispirazione si fece largo fino a raggiungere tutti i franchise di maggior successo, da Sonic passando per Mario per arrivare a Mega Man, trovando un'importante valvola di sfogo nei confini dei moderni sparatutto in prima persona, specialmente nella serie Duke Nukem. Una delle comparse più popolari fu nel livello The High Road di Crash Bandicoot, il cui traballante ponte sospeso si trasformò in un vero e proprio incubo per gli appassionati dei videogiochi a piattaforme; un frutto Wumpa posto alle spalle del peramele suggeriva la presenza di un percorso nascosto, ed era proprio lì che si celavano le casse che mancavano misteriosamente all'appello.
Quake, Halo, tonnellate di altri fra FPS, giochi a piattaforme, persino RPG come Final Fantasy - nel decimo capitolo, ad esempio, un componente per produrre le armi finali si trovava proprio sulla spiaggia che accoglieva Tidus nel mondo di Spira - hanno sfruttato le alcove presenti nelle prime schermate per nascondere percorsi secondari, oggetti e addirittura entrate di aree opzionali, spingendo i videogiocatori a investigare minuziosamente anche i classici segmenti tutorial, che in opere come Dark Souls celavano molto più di quel che sembrava.
Spacco tutto
Non c'è niente di meglio del godersi una bella passeggiata al tramonto nel cuore di Yharnam, la città protagonista di Bloodborne, e di imbattersi in un salone in stile vittoriano ancora ordinato e perfettamente conservato, pieno zeppo di panche di legno pregiato e vasi minuziosamente rifiniti a mano. E poi, una volta all'interno, spaccare tutto senza alcuna remora.
La voglia di distruggere elementi dello scenario risale all'istante stesso della comparsa dei prop nel mondo dei videogiochi: la prima traccia apparve nel 1975, nello specifico in Gun Fight di Taito, titolo nel quale una coppia di pistoleri si sfidava in un duello all'ultimo sangue crivellando di colpi anche i cactus che fungevano da comodi ripari, secondo la filosofia che sarebbe stata resa celebre da Space Invaders. Dopodiché toccò agli asteroidi al centro dello spazio di Asteroids, ma fu solo attraverso pubblicazioni come Dig Dug di Namco e Mr. Do di Universal che furono introdotti degli ambienti completamente distruttibili. Allora, tuttavia, a muovere la mano dei videogiocatori era la pura e semplice lotta per la sopravvivenza, e le prime ricompense furono introdotte ben più tardi.
Super Mario Bros - specialmente attraverso la terza istanza della serie - spinse milioni di persone a distruggere tonnellate di mattoncini nella speranza di ottenere un power-up nascosto, mentre nel 1993 l'arrivo di DOOM e dei suoi barili esplosivi fece imboccare alla maggior parte dei produttori di sparatutto la via della distruzione. È invece a The Legend of Zelda: A Link to the Past che dobbiamo i vili gesti compiuti nei confronti delle piante: da allora, la saga di Link ha sempre inserito una qualche forma di ricompensa per provetti giardinieri, legando addirittura l'ottenimento di moneta contante alla rimozione delle erbacce di Hyrule. Nei medesimi confini - con l'avvento di Ocarina of Time - emersero degli splendidi vasetti in terracotta tridimensionali la cui frantumazione era accompagnata da un assuefacente effetto sonoro, e siamo certi che in molti ricordano con piacere la stanza delle guardie che si trovava accanto al ponte levatoio del borgo di Hyrule, all'interno della quale un soldato pregava il protagonista di a darsi alla pazza gioia devastando le giare di cui era stipata.
Se da una parte l'evoluzione tecnologica ha portato numerosi sviluppatori a perseguire la nuda distruzione - esplorando produzioni come Rampage per arrivare in epoca contemporanea a Megaton Rainfall fino ai guizzi della serie Battlefield - la caccia al prop è diventata un'attività capace di accompagnare le scorribande di qualsiasi giocatore. FromSoftware ha strizzato l'occhio al passato della meccanica, prima celando ricompense e talvolta persino personaggi nascosti all'interno di grossi vasi, poi costellando intere cattedrali di ordinatissimi elementi estetici che non avevano alcuno scopo se non quello di essere rasi al suolo dagli appassionati per il puro gusto di farlo.
Parete illusoria più avanti
Porte che sembrano muri. Muri veri e propri che, a loro volta, possono crollare dopo aver subito qualche colpo ben assestato. Pezzi di scenografia che, una volta toccati, svaniscono senza lasciare traccia, accompagnati da un suono etereo. Di recente ha fatto molto discutere l'attacco rivolto da David Jaffe - creatore dell'originale God of War - all'architettura di Metroid Dread, un titolo che a suo avviso, per edulcorare i suoi commenti originali, risultava eccessivamente complesso e poco chiaro nella spiegazione di determinate interazioni: nello specifico, l'oggetto della sua sfuriata risedeva nella presenza di un pavimento distruttibile che aveva di fatto bloccato i suoi progressi nell'avventura. Andando oltre il merito di quella particolare discussione, la tradizione del genere metroidvania è stata per lungo tempo caratterizzata dall'implementazione di passaggi segreti praticamente indecifrabili, salvo poi iniziare a sfruttare l'incremento del dettaglio grafico e la moderna coerenza architettonica al fine di rendere evidenti gli eventuali percorsi nascosti.
È pur vero che una volta era sufficiente il solo design a far intuire la presenza di sentieri segreti: è il caso delle Warp Zones di Super Mario Bros, che sfruttando le piattaforme semoventi suggerivano al giocatore la possibilità di camminare oltre il soffitto dei livelli sotterranei. Con il tempo questa ispirazione è venuta sempre meno, ad esempio nei confini di DOOM, produzione ricca di pareti molto simili a tutte le altre che s'aprivano solamente dopo aver ricevuto una improbabile bordata. La presenza di muri friabili ha iniziato lentamente a invadere anche il sottobosco dei videogiochi d'avventura, trasformandosi in uno degli ostacoli più abusati nel contesto dei videogiochi lineari, costantemente evidenziato da meccaniche come l'Occhio dell'Aquila di Assassin's Creed e sistemi affini.
Ma nel frattempo, in altre produzioni, erano emersi passaggi segreti pressoché invisibili. I poveri videogiocatori che si trovavano a competere con gli amici nel livello Complex di GoldenEye 007 senza conoscere muri invisibili e porte nascoste, non potevano fare altro che soccombere sotto i colpi degli agenti più esperti. Si trattava di pareti illusorie secondo la concezione più classica del termine, quella introdotta nei confini di giochi di ruolo come Dungeons & Dragons e Pathfinder, la medesima ispirazione che anni più tardi, grazie alla diffusione delle opere di FromSoftware, avrebbe portato tale meccanica a toccare il picco della sua popolarità.
Se Demon's Souls ospitava solamente quattro muri illusori - e questi emettevano un suono che suggeriva la presenza di un segreto - in Dark Souls ne furono inseriti diciassette: quattordici di essi potevano essere svelati semplicemente menando un fendente, mentre gli ultimi tre richiedevano la soddisfazione di determinati requisiti. Il primo capitolo della saga dell'anima oscura, dal canto suo, sfruttava il design dei livelli per rendere architettonicamente coerente la presenza di percorsi nascosti, trasformandoli in una meccanica brillante e non invasiva. Il problema è che, negli anni successivi, la situazione è completamente sfuggita di mano, instillando nella mente dei videogiocatori la voglia di colpire ogni singola parete sospetta, all'interno e all'esterno dell'universo dei soulslike.
Il superboss opzionale, la sfida definitiva
Il party trotta lungo i fondali del gioco di ruolo, abbattendo senza sforzo qualsiasi minaccia gli si pari di fronte. È padrone della situazione, ben equipaggiato, pronto a sfidare il temibile nemico celato a guardia dell'epilogo dell'avventura, eppure è consapevole che da qualche parte si nasconde un avversario capace di spazzarlo via in un battibaleno. Ed è proprio per questa ragione che il cosiddetto min-maxing - ossia il minuzioso studio delle statistiche con il fine di costruire la squadra perfetta - è divenuto un elemento cardine delle esperienze JRPG. Allo stesso modo, il pubblico dei videogiochi si è abituato a fantasticare riguardo la presenza di una sfida finale, di uno scontro o una sequenza definitiva, spesso opzionale, volta a porre la ciliegina sulla torta dell'esperienza.
Prima di tastare le acque dei JRPG, vale la pena menzionare la pubblicazione occidentale di Super Mario Bros 2: The Lost Levels, istanza nella quale Shigeru Miyamoto nascose i misteriosi Fantasy Worlds; completando l'intero viaggio senza incappare nel game over né sfruttare le Warp Zones, l'opera apriva a un nono mondo segreto composto da livelli di difficoltà molto elevata, che si chiudevano con uno scontro con una versione di Bowser ben più impegnativa di tutte le altre. L'anno successivo, nel 1987, il primo capitolo di Final Fantasy introdusse un particolare scontro casuale, quello con il Warmech, che poneva il giocatore di fronte a una sfida decisamente più difficile di quella offerta dai vari Fiend che apparentemente avrebbero dovuto costituire la peggior minaccia della missione principale.
Il primo superboss nel senso moderno del termine - ovvero uno scontro opzionale e unico riservato solo ai giocatori più esperti - vide probabilmente luce nel 1988, al 777 piano segreto di Wizardry V, un livello bonus che si chiudeva con la battaglia contro la divinità Lala Moo Moo. Ci vollero quattro anni prima che tale ispirazione trovasse spazio nell'orbita dei JRPG, nello specifico attraverso Dragon Quest V, che pose a presidio di un dungeon opzionale il nemico ricorrente Estark, alzando ufficialmente il sipario sulla prima apparizione di un superboss nei confini del genere. Qualche mese più tardi, sulle sponde di Final Fantasy V, fecero la loro comparsa Omega e Shinryu, inaugurando una tradizione che non si sarebbe mai più spezzata: da quel momento in avanti il franchise di casa Square Enix divenne la più celebre culla di battaglie opzionali, spingendo i giocatori a battere ogni centimetro delle vaste mappe del mondo in cerca della sfida definitiva.
Oggi tale concezione è cresciuta e maturata al punto da trovare spazio in una pletora di produzioni differenti: di recente Malenia la Recisa ha infranto le speranze di milioni dei Senzaluce di Elden Ring, mentre in The Elder Scrolls V: Skyrim il Guerriero d'Ebano e Karstaag miravano a offrire un'ultima sfida ai giocatori più dedicati; Team Cherry ha addirittura pensato di deliziare gli appassionati con un contenuto finale dedicato a ciascuna delle anime del suo Hollow Knight: il Sentiero del Dolore, la sfida definitiva in termini di azione a piattaforme, e lo Splendore Assoluto, l'avversario più temibile sul fronte del crudo combattimento. Non importa che si stia giocando God of War: Ragnarok o Kingdom Hearts III: tra valchirie e improbabili figure incappucciate, gli appassionati cercheranno sempre - e spesso troveranno - la battaglia definitiva che tanto bramano.
Accarezzare il cane
Chiudiamo con un classico, anzi, un super-classico, dal momento che fra le fattispecie prese in considerazione si tratta probabilmente di uno degli esempi più antichi. Si può accarezzare il cane nel videogioco? Questa domanda senza tempo si è risolta nella creazione di un account Twitter dedicato - ovvero CanYouPetTheDog - nel quale sono quotidianamente raccolti e archiviati tutti i videogiochi in cui è possibile interagire col migliore amico dell'uomo. Non è stata una sorpresa scoprire che, persino nei confini dell'imminente Final Fantasy 16, gli utenti si siano immediatamente domandati se fosse possibile accarezzare il lupo Torgal, fedele compagno del protagonista Clive Rosefield, ottenendo in tempo record una risposta da parte degli sviluppatori.
Il primo cane "accarezzabile" nella storia del medium risale addirittura al 1981, tra le righe di Zork II, avventura testuale a firma di Infocom nella quale era possibile interagire in vari modi con un amico a quattro zampe nel corso dell'avventura; ma all'epoca, a causa della stessa natura del genere di riferimento, il cane non era visibile e l'atto era lasciato alla sola immaginazione. Per toccare con mano il primo cucciolo in carne e pixel toccò attendere fino al 1986, l'anno di pubblicazione di King's Quest III di Roberta Williams, opera in cui il simpatico meticcio Kenny se ne stava disteso sul pavimento di un emporio in attesa del cliente che gli avrebbe finalmente dedicato la dovuta attenzione. Tanto in Phantasmagoria, quanto in The Colonel's Bequest, entrambe opere successive della Williams, sarebbe stato ugualmente possibile accarezzare i cani che s'incontrano lungo il cammino.
Nel corso degli anni, che si trattasse di cani, gatti, Pokémon, persino mucche, i videogiocatori hanno provato a interagire con ogni genere di animale, nella speranza di ottenere in cambio un qualsiasi genere di risposta, fosse anche solo una manciata di cuoricini sospesi nel più classico dei baloon. Con il tempo è addirittura nata una particolare categoria di speedrun, la Dog%, nella quale alcuni utenti affrontano titoli come The Legend of Zelda: Breath of the Wild e Omori con il fine ultimo di accarezzare i cani presenti nelle opere nel minor tempo possibile.
Ma queste sono solo alcune delle meccaniche e delle abitudini che si sono impresse a fuoco nel cuore dei videogiocatori, tratteggiando i contorni di una sorta di memoria collettiva. Ci sono altri cliché che vi saltano alla mente?