Nella tempesta di polemiche e di elogi che ha investito la pubblicazione dell'espansione Shadow of the Erdtree di Elden Ring sono state coinvolte anche le voci autorevoli di alcuni sviluppatori: a spiccare è stata quella di Johan Pilestedt, direttore creativo di Arrowhead Studios che proprio nel corso del 2024 ha visto il suo Helldivers 2 piazzarsi per diverse settimane in vetta alle classifiche di vendita internazionali e che è intervenuto in una lite tra utenti e content creator con un perentorio: "Un gioco per tutti è un gioco per nessuno: bisogna sempre rivolgersi a un pubblico specifico", riaccendendo una vecchia discussione che riemerge ciclicamente nel sottobosco dei videogiochi.
Non è una sorpresa che tale dichiarazione provenga dal dirigente di una compagnia che ha raggiunto l'apice del proprio successo producendo un gioco come servizio di stampo cooperativo, deriva che ancora oggi è fra le più criticate e bistrattate in assoluto nonostante i risultati più che incoraggianti di una frazione del sottobosco. Del resto, al crescere della base installata, quelle che erano piccole nicchie si sono trasformate in masse capaci di muovere grandi numeri, al punto tale da mettere in discussione ciò che per lungo tempo è stato considerato un assioma dell'industria: il tentativo di costruire appositamente un videogioco che si rivolga a un pubblico più ampio possibile sembra oggi più che mai controproducente.
Al tempo stesso, la frase "Un gioco per tutti è un gioco per nessuno" apre anche una questione filosofica, perché se da una parte i videogiochi si rivolgono intrinsecamente a "tutti" e teoricamente starebbe a ciascun giocatore il compito di individuare le proprie zone di comfort, mai come in quest'epoca si sollevano voci che richiedono la modifica - e in certi casi lo stravolgimento - di formule dal comprovato successo al fine di soddisfare determinate esigenze, spesso in netta contrapposizione con l'originale visione degli autori o con i pilastri che hanno finito per portare tali ricette alla loro attenzione. Finché si tratta di nicchie il problema non si pone, tanto che le simulazioni o magari i titoli strategici-gestionali restano intoccati da questo fenomeno, destinato invece a emergere con forza quando una produzione che fa gola a molti come Elden Ring finisce sotto i riflettori.
Certo è che l'affermazione di Pilestedt racconta una fotografia piuttosto coerente dell'industria contemporanea: l'ultima decade è stata profondamente caratterizzata dall'emersione di fenomeni che hanno scommesso tutto sul proprio carattere e su un'identità ben specifica, portando in certi casi alla maturazione di nuove società multinazionali, mentre la maggior parte degli attori che si sono concentrati sull'allargamento del proprio pubblico, sacrificando parte delle proprie radici per inseguire una fantomatica comunità di massa, hanno finito per raccogliere i cocci delle proprie ambizioni. Come mai? Davvero un videogioco per tutti è un videogioco per nessuno?
Il caso Call of Duty
Anche se il nome di Call of Duty è quanto di più lontano possa esistere dall'idea di produzione di nicchia o da quella di prodotto fortemente legato all'identità, la saga di Activision rappresenta uno dei casi più emblematici per analizzare l'impatto delle modifiche strutturali apportate nell'inseguimento di una nuova base installata.
Call of Duty Modern Warfare 2, nel 2009, ha segnato il grande punto di svolta della serie, portandola per la prima volta a infrangere il muro dei 25 milioni di copie piazzate; l'anno seguente, tale successo è stato bissato dal Black Ops di Treyarch, che con i suoi 30 milioni di unità ha tracciato il sentiero per il biennio successivo, quando Black Ops 2 e Modern Warfare 3 hanno coronato la grande età dell'oro del franchise.
Incidentalmente, proprio nel quadriennio della sua massima diffusione, Call of Duty si è trovato a essere uno fra i titoli più criticati nella discussione internazionale - una costante della sua storia - prevalentemente tacciato da una frangia molto rumorosa di rimanere sempre uguale a sé stesso, di non riuscire a innovare la propria formula e di rimanere indietro rispetto alla concorrenza.
Nel tentativo di agguantare una fetta maggiore del pubblico, Activision ha allora apportato diverse modifiche strutturali alla sua ricetta originale, portando al primo leggero calo del capitolo Ghosts, prossimo all'8%, poi cresciuto fino a toccare quota 30% con Advanced Warfare, gettando la saga in un limbo di risultati altalenanti dal quale è riuscita a evadere in via definitiva solamente nel 2019, con il ritorno alle origini incarnato dalla moderna incarnazione di Modern Warfare, la prima dopo anni capace di riportare la serie oltre la soglia dei 30 milioni.
Il caso Final Fantasy
Nonostante i numeri delle vendite incoraggianti, Final Fantasy XIII del 2010 spinse figure di spicco come Yoshinori Kitase e Yoichi Wada - ovvero lo storico producer e l'allora presidente della compagnia - a rispondere alla cascata di critiche che avevano investito il capitolo diretto da Motomu Toriyama. Mentre il primo affermò che "Final Fantasy XIII avrebbe dovuto rappresentare la nascita di un nuovo genere, qualcosa di lontano dall'RPG e per certi versi più vicino agli FPS", Wada rilasciò una serie di dichiarazioni confuse sostenendo che sarebbe stato difficile "determinare la strada per il futuro, perché ormai il pubblico aveva opinioni contrastanti riguardo Final Fantasy".
Certo è che in quella data fu scolpita nella pietra la volontà di Square Enix di discostarsi da buona parte della sua tradizione in nome dell'inseguimento di un pubblico più ampio, quello che ormai da anni aveva iniziato a migrare sulle sponde di produzioni quali Assassin's Creed o The Elder Scrolls V: Skyrim, e la compagnia decise di agire prevalentemente attraverso un netto ridimensionamento delle componenti ruolistica e tattica in favore dell'abbraccio di un'ispirazione sempre più votata all'azione, sulla carta la preferita della massa.
Alla luce degli ultimi quattordici anni, complici anche determinate politiche di distribuzione di cui bisogna sempre tenere conto, la serie ha conosciuto un calo progressivo che si è fatto superiore al 60% nei numeri delle vendite: mentre Final Fantasy XV e Final Fantasy 7 Remake siedono rispettivamente a quota 10 e 6 milioni di copie piazzate, Final Fantasy XVI e Final Fantasy 7 Rebirth - ancora in attesa di una pubblicazione su PC e di nuovi dati ufficiali - si sono stabilizzati al momento attorno a 3,4 e 2,2 milioni circa.
Nel caso del sedicesimo capitolo numerato, gli sviluppatori del Creative Studio 3 hanno parlato approfonditamente del desiderio di ampliare il pubblico della saga, rivolgendo un attenzione particolare ai più giovani e intervenendo principalmente per mezzo del nuovo sistema di combattimento d'azione firmato Ryota Suzuki. "La cosa più importante è che con Final Fantasy 16 vogliamo portare più persone possibile nei confini di questo mondo [...] con un sistema di combattimento che sia al tempo stesso accessibile e godibile per ogni genere di appassionato", ha dichiarato il director Takai ai nostri microfoni poco prima della pubblicazione. Questa rappresenta un'analisi estremamente superficiale della fattispecie di Final Fantasy, ma fa riflettere che il tentativo di inseguire un pubblico più ampio stia producendo risultati contrari alle aspettative, mentre uno studio come Atlus West ha reso nel frattempo Persona 5 il progetto megaten più venduto nella sua storia con un incremento del 100% rispetto all'episodio precedente.
Il gioco per pochi diventa per tutti
Il lato opposto dello spettro si può sintetizzare nei numeri di quelli che rappresentano senza dubbio i due esempi maggiormente chiamati in causa, ovvero i videogiochi soulsborne di FromSoftware e i Monster Hunter secondo Capcom: se la deriva firmata Hidetaka Miyazaki ha maturato nell'arco di tredici anni un incremento complessivo dei numeri delle vendite del 2900%, sul fronte delle cacce al mostro l'avvento di World è arrivato a quota 1400%, con una crescita del 316% se si tengono in considerazione solo gli episodi più recenti. In definitiva Monster Hunter World, compresa l'espansione Iceborne, ha infranto da tempo il muro dei 37 milioni di copie, mentre l'avvento di Shadow of the Erdtree ha spinto il pacchetto Elden Ring a superare il picco dei 30 milioni.
Viene da sé che entrambe queste ispirazioni hanno evidentemente assunto delle decisioni volte a raggiungere un pubblico più ampio rispetto allo standard: lo stesso approccio open-world di Elden Ring rappresenta un chiaro tentativo di abbracciare una nuova fetta di utenti, e il medesimo discorso vale per la struttura e il modello di distribuzione di Monster Hunter World, che per stessa dichiarazione degli sviluppatori miravano a questo obiettivo. Probabilmente la differenza risiede nel trattamento riservato alla spina dorsale di ciascuna esperienza, che è stata mantenuta stoicamente invariata al netto dell'immensa iniezione di utenti. Ed è curioso, in questo senso, come la maggior parte delle polemiche tendano a emergere attorno a Elden Ring, quando la formula di Monster Hunter ha conosciuto una diffusione ancor maggiore mettendo sul piatto delle dinamiche e una curva di sfida mediamente più complesse rispetto alla produzione di FromSoftware.
Probabilmente l'exploit più inatteso è stato quello di Baldur's Gate 3, dal momento che era seriamente difficile aspettarsi un boom da 15 milioni di copie da parte di un cRPG di Larian Studios basato su un'esperienza pen & paper, praticamente la somma dei risultati raggiunti dall'interezza del mercato di riferimento nell'arco di quindici anni. Ciò che fa riflettere è che ad agguantare tale risultato sia stata proprio quella stessa società di Swen Vincke che in passato - specialmente attraverso Divinity 2: Ego Draconis - si era posta in prima persona il problema del raggiungimento di un pubblico più vasto attraverso una snaturazione del proprio piglio creativo.
Si tratta tuttavia di nomi che riemergono ciclicamente e che finiscono per far passare in secondo piano numerose hit silenziose: l'ultima edizione di Microsoft Flight Simulator ha superato da tempo quota 12 milioni di giocatori, quasi più della somma di tutte le edizioni precedenti, Crusader's Kings 3 ha triplicato le vendite del predecessore, Age of Empires 4 è stato in vetta alla classifica dei top seller di Steam, Tekken 8 ha annichilito i record di vendita della serie nella fase arcade, e si tratta solamente di alcuni esempi della crescita che sta caratterizzando le produzioni più mirate.
Che cos'è davvero un gioco per tutti?
Nella nostra epoca, quella della nona generazione di console per videogiochi, i titoli più redditizi e più giocati del mondo - proprio quelli che dovrebbero essere maggiormente rappresentativi di una massa allargata e variopinta - sono invece inaspettatamente ancorati a formule dotate di marcate identità. League of Legends è maturato sull'eredità RTS di Warcraft 3 ed è diventato il pilastro di un genere estremamente radicato nella tecnica e nella strategia, i videogiochi di HoYoVerse sono RPG di stampo gacha fortemente ancorati al "grinding" selvaggio, i vari ed eventuali Battle Royale sono sparatutto competitivi nei quali si ha a disposizione una singola vita e le partite hanno una durata media di venti-trenta minuti, mentre Minecraft, dal canto suo, offre un'esperienza sandbox di stampo survival.
In un panorama di questo genere diventa sempre più complesso portare avanti le antiche idee appartenenti alla settima generazione di console che sostenevano la necessità di strumenti precisi per allargare il bacino di utenza, dall'appiattimento del livello di difficoltà alla semplificazione delle meccaniche più cervellotiche, dalla costruzione di sistemi di progressione su binari fino alla vera e propria introduzione di dispositivi GPS per orientarsi lungo il percorso dorato. I titoli che hanno adottato il data-driven design, ovvero la progettazione basata su dati concreti, o hanno modificato il nucleo della propria offerta ludica, sono proprio quelli che stanno incontrando gli ostacoli maggiori in termini di valutazioni degli utenti e numeri delle vendite.
Il livello di sfida offerto, la complessità dell'elemento statistico, la presenza o meno di dinamiche avanzate, la natura multigiocatore o intima, l'anima competitiva o accomodante, la narrazione drammatica o scanzonata, sono caratteristiche che non cambiano l'essenza universale del videogioco, che mai come oggi si rivolge a chiunque, ma spesso richiede di stringere un contratto fra autore e giocatore, un accordo volto all'accettazione di determinate regole con la promessa di ricevere in cambio un'esperienza memorabile.
Regole più stringenti, come il ritmo compassato della narrazione di Red Dead Redemption 2, la spietata curva di apprendimento di Sekiro: Shadows Die Twice, o ancora la complessità intrinseca nei sistemi di Larian Studios, sono la conseguenza di scelte precise che corrispondono spesso alla ragion d'essere delle produzioni, proprio quelle unicità che le hanno portate all'attenzione del pubblico di massa. Ciò, di fatto, le rende videogiochi per "tutti"... ma quel "tutti" - come del resto vale per qualsiasi gioco o attività - sta per tutti coloro che sono disposti ad accettarne le regole. E se non c'è niente di male nella scelta di non accettarle, il cortocircuito nasce nel momento in cui si ha la pretesa di cambiarle.