Zombie lento o corridore? È una domanda che divide da sempre i cultori dei morti viventi e a cui Techland risponderebbe idealmente con un "tutti". In Dying Light non solo trovate i lenti e impacciati sacchetti di carne tanto cari a chi continua a guardare con il giusto affetto e la dovuta riverenza a George Romero e i feroci assaltatori de Il Ritorno dei Morti Viventi, portati alla ribalta in tempi più recenti da 28 Giorni Dopo e Dawn of The Dead, ma anche diverse altre degenerazioni del concetto. Questo tuttavia, non è affatto un discorso nuovo per lo sviluppatore polacco, che aveva proposto un cast di morti viventi piuttosto variegato sin da quando ha provato a cimentarsi con il genere per la prima volta, con Dead Island. Ad esserci di nuovo è la risposta che Techland darebbe a una seconda, ipotetica, domanda: "cosa posso fare in caso di apocalisse zombie?", a cui seguirebbe un "a parte guidare, sostanzialmente tutto". E poi un'altra ancora, non meno importante: "ma il buio fa davvero paura?" a cui si replicherebbe con un "faceva già paura in Dead Island, ma ora fa davvero paura. Davvero". Sono questi i concetti che permettono all'ultimo nato in casa dello studio con sede a Breslavia di prendere le distanze dal cugino, a cui è stato e viene tuttora sovrapposto, tirando fuori una personalità che avevamo già riscontrato in maniera piuttosto evidente in fase di anteprima, e che, gioco finito alla mano, non fa che confermarsi.
Tempo di giudizio definitivo per Dying Light, con la nostra recensione super approfondita!
Apocalisse su scala umana
Protagonista delle vicende narrate nel gioco è Kyle Crane, agente speciale americano paracadutato ad Harran, una città immaginaria che per caratteristiche climatiche, etniche e architettoniche sembra essere situata in Medio Oriente. La diffusione impazzita di un'epidemia che ha decimato la popolazione locale trasformandone grossa parte in morti viventi ha costretto lo Stato a erigere delle enormi mura di cinta, per evitare che l'infezione possa diffondersi anche nel resto del mondo. Obiettivo della missione di Crane è recuperare un file contenente una cura incompleta per il male, la cui pubblicazione non farebbe che causare ulteriori vittime. A minacciare di farlo è Kadir Suleiman, politico locale che ha approfittato della crisi per ascendere al potere, che per pararsi le spalle e usarlo come merce di scambio con cui fare leva sugli altri governi lo ha piazzato nella migliore cassaforte possibile, ovvero il cuore della zona di quarantena, in mano a un suo fedele collaboratore. Nemmeno a farlo apposta, quest'ultimo è riuscito a domare il caos mettendo in piedi una spietata organizzazione paramilitare, che fa il bello e il cattivo e cattivo tempo, mentre i pochi altri superstiti lottano strenuamente per rimanere in vita.
Appare piuttosto evidente a quale dei due schieramenti si assocerà il protagonista. Mentre sarà costretto a imparare da zero a cavarsela, cercherà comunque di portare a casa (dei suoi superiori) il risultato. Questo l'incipit di una storia che non ha molti tratti di originalità, né nelle premesse né nello svolgimento, animata da comprimari, villain, colpi di scena, passaggi "surreali" e drammi che chiunque abbia masticato un po' di cinema di genere, o anche solo film d'azione, potrebbe facilmente prevedere. Il punto è che, probabilmente, l'originalità non era nemmeno una qualità cercata da Techland quando stava pensando a cosa raccontare. Pur avendo comunque gradito la vicenda, nonostante una partenza in sordina, un atteggiamento umorale di Crane che nelle battute conclusive ha quasi dell'insopportabile e l'evidente forzatura con cui la si vuole necessariamente traghettare verso un certo tipo di epilogo, ad appassionarci realmente, in Dying Light, è un tipo di narrazione che si pone al servizio dell'esperienza di gioco, frutto di uno sforzo davvero evidente. L'importante è il viaggio, non la meta, si usa dire in certi casi, ed è una riflessione che a questo calza benissimo. Il gioco tratteggia infatti un universo e delle situazioni a cui si riesce a credere (non credibile, badate, che se cercate verosimiglianza o rigori logici interni avete sbagliato oggetto a cui rivolgere l'attenzione), in cui ci si sente coinvolti e partecipi. Le zombie apocalypse vivono infatti di due volti, quello putrefatto e angosciante dei morti cannibali e quello del suo impatto sulla gente, i luoghi, le abitudini civili. Due facce ritratte in maniera estremamente vivida e convincente. Perché si potrà anche trovare più o meno carismatico il cattivo della situazione, Rais, si potrà provare più o meno complicità con la bella Jade, si potrà provare più o meno affetto per il giovane Rahim, ma è impossibile non rimanere colpiti, prima o poi, dalla cura estrema riposta nella caratterizzazione dell'esercito di personaggi e il gran numero di ambientazioni in ci si può imbattere nel corso dell'avventura. Capita di incontrare chiunque, avventurandosi per Harran: da altruisti che cercano di combinare qualcosa di costruttivo mossi da sfrenato altruismo, raziocinio o impulsività a ogni categoria di sbruffoni ed egoisti, da gente che è riuscita a porsi in sintonia con la nuova realtà, mettendo in piedi commerci, attività o altri tipi di nuovi interessi ad altra che sta ancora subendo in pieno lo shock dell'impatto con essa. Un'umanità variopinta, tratteggiata con una tavolozza non meno ampia di toni e colori, che spazia dagli ormai immancabili tizi sopra le righe, con le loro manie, più o meno eccentriche e divertenti, a persone che mettono addosso tristezza vera, come quelle che arrivano a negare la realtà con manifestazioni psicologiche più con i piedi per terra, come quelle di chi non riesce ad elaborare il lutto per la perdita di una persona cara, fingendo che faccia ancora parte della sua vita.
Nel mezzo qualsiasi cosa, compreso un nugolo di citazioni, sfottò ed easter egg, riguardanti tanto il cinema e la letteratura di genere (Zombieland e un certo "manuale di sopravvivenza", per dirne un paio), tanto altri videogiochi, sia altrui (la loot cavern di Destiny, un'insegna che prende in giro Left 4 Dead) sia propri (l'action figure di Ray McHall di Call of Juarez). All'appello non mancano nemmeno i bambini, che Techland non si fa problemi a tirare dentro, anche qui con diverse sfumature, che li vedono ora vittime indifese, ora creature bisognose della cosa più preziosa che gli si può offrire (ovvero un po' del nostro tempo e della nostra attenzione) ora un'altra incarnazione del male contro cui si deve lottare, ora oggetto dell'amore di chi vuol far creder loro che l'incubo che stanno vivendo è tutto un gioco, come il Benigni de La Vita è Bella. Un discorso che riesce particolarmente quando a sostenerlo ci si mette il mission design che, come vedremo più sotto anche a proposito di altri aspetti, si rivela calzante. Spesso, accettare un incarico riguardante uno di questi soggetti vuol dire farne più a fondo la conoscenza, scoprirne gusti, legami, abitudini o segreti, avere insomma la possibilità di dare un guardo diretto alla sua vita. E lo stesso vale per i luoghi. Harran racconta molto bene l'apocalisse zombie parlandoci in maniera silenziosa ma non per questo inespressiva delle ferite e gli sconvolgimenti che ha provocato attraverso il disordine di auto per le strade, la fortificazione di un bar, l'ulteriore stato di degrado delle bidonville, la riconversione di un museo, i cadaveri ammassati sul pianerottolo di un casermone popolare o l'abbandono in corsa di quella che doveva essere la colazione di un giorno qualsiasi, per una famiglia qualsiasi, in un appartamento qualsiasi.
All'altezza delle aspettative
Techland aveva promesso un survival open con una forte componente parkour e una dualità giorno/notte importante. Dopo averlo giocato in lungo e in largo, possiamo affermare che Dying Light tiene loro fede, incarnandole quasi sempre nel migliori dei modi. Innanzitutto il sistema di movimento: per avere maggiori chance di sopravvivenza tra i pericoli della superiorità numerica nemica o in grado di raggiungerlo velocemente ovunque, Kyle può dar fondo alla sua spiccata agilità e percorrere come meglio crede il territorio di Harran. Già in fase di preview avevamo rimarcato come l'ispirazione a Mirror's Edge non solo fosse palese, ma avesse sostanzialmente del calligrafico. Il gioco parte difatti proprio da quelle basi, adottando un sistema di controllo e un set di movimenti che riprendono in toto il titolo DICE (crouch jump e wall run a parte, rispettivamente assente e meno "marcato"): lanciarsi in velocità, arrampicarsi, scavalcare, appoggiarsi a un ostacolo per mantenersi in corsa, scivolare sotto una barriera o rotolare per attutire un atterraggio sono cose che abbiamo già fatto nei panni di Faith e qui diventano un ABC senza i quali non si dura molto.
A queste vanno sommate alcune aggiunte, che ampliano ulteriormente l'alfabeto delle possibilità di deambulazione, rendendolo ulteriormente versatile, completo e calzante per il contesto specifico. La prima è la commutazione del tasto per girarsi istantaneamente da strumento per concatenare acrobazie a risorsa grazie a cui ruotare la testa e tenere d'occhio inseguitori in grado di stare al nostro passo. Proprio come in Outlast, solo con la perspicace aggiunta di un rallenti, grazie a cui tentare di decifrare meglio ciò che sta effettivamente accadendo in una scenario dalla complessità notevolmente superiore ed eventualmente scagliare colpi di torcia UV o armi da lancio a chi ci sta col fiato sul collo. Le cose, poi, a un certo punto (coincidente con il raggiungimento del Livello 12 nel ramo di Abilità Sopravvivenza) ricevono un'ulteriore impennata, e in termini di velocità delle traversate, e in quelli di verticalità degli spazi percorribili, e in fatto strategie difensive, grazie all'introduzione di un rampino tramite cui raggiungere nel giro di pochi secondi qualsiasi elemento architettonico nel raggio di una quarantina di metri. Il tutto, come già rimarcato, funziona una meraviglia e soprattutto è fonte di un livello di gratificazione pari alla propria voglia di approfondire un impianto da primi della classe: nonostante la natura open, le dimensioni generose e la conformazione organica e verosimile delle aree in cui è divisa Harran (Bassifondi e Città Vecchia, più alcune "pertinenze"), peraltro caratterizzate anche da una certa continuità tra esterni ed interni, Techland ha oculatamente predisposto buona parte degli elementi dello scenario a "misura di runner". Tetti, ringhiere, balconi, furgoni, ponteggi, cavi elettrici, tendaggi, barricate, sacchi di immondizia e quant'altro sono disposti in maniera oculata all'interno di un level design che ha dello strepitoso e permette di improvvisarsi un numero tendente a infinito di traiettorie di esplorazione e fuga, i cui limiti sono scritti nero su bianco da barriere architettoniche ben evidenti, senza muri invisibili o altri mezzucci. E il quadro si fa ulteriormente strepitoso se si pensa che la vastità degli ambienti non è stata presa come alibi per sottrarsi all'implementazione di una fisica di base e di un livello di pulizia e calibrazione delle collisioni con sostanzialmente ogni tipo di superficie percorribile che assicura al tutto una forte coerenza di fondo.
Per dirla con la semplicità degli esempi: a seconda dello slancio e della direzione con cui lo si approccia un muro può essere direttamente saltato, superato appoggiandocisi con la manina, sfruttato come base per un balzello "intermedio" o valicato solo a seguito di una scavalcata più o meno veloce. Con la pratica si può dunque arrivare a valutare istantaneamente il prossimo passo, approntare eventuali aggiustamenti nell'approcciarlo o vagliare alternative, in quello che è sostanzialmente un gioco nel gioco in cui i margini per affinarsi e scoprire nuove piccole cose sono piuttosto ampi, e di cui dunque non si tende a stufarsi troppo presto. L'ultima aggiunta di un certo peso è la resistenza del protagonista. A differenza di Faith, che messa in mani capaci può raggiungere un momentum virtualmente infinito, Crane dopo un po' ha bisogno di tirare il fiato. Una caratteristica importante per un titolo che vuole darsi un'impronta survival, ponendo al controllo di un personaggio vulnerabile. Un limite che può essere superato solo al raggiungimento del Livello 24 di Agilità, verosimilmente verso la fine dell'avventura, dove vuoi per la densità dei pericoli, vuoi perché Kyle nel frattempo è cresciuto anche sotto altri aspetti, vuoi perché sono ore che si sfacchina avanti e indietro, la rimozione del freno a mano appare come un apprezzato adeguato cambio di ritmo. E piace ancora una volta il mission design, come Techland abbia progettato diverse missioni per sfruttare questo humus, proponendo passaggi in cui bisogna raggiungere tempestivamente una zona, fuggire da un palazzo che sta crollando, dare la caccia a una creatura particolarmente veloce o svignarsela da un improvviso assalto con una MG, a cui non si può minimamente rispondere. Un piglio che si ravvisa anche a fronte della moltitudine di occasioni in cui vengono proposti dei veri e propri "enigmi ambientali", che solleticano analisi e coordinazione motoria per raggiungere un obiettivo, posto solitamente dentro un edificio o un'area ad accesso limitato, o trovare l'uscita di uno stanzone, in situazioni più lineari proposte durante un incarico o in passaggi di collegamento tra zone.
Promossi in fisica
Il fatto che Crane sia particolarmente bravo a sviare i problemi non vuol dire che sia un incapace totale nell'affrontarli, anzi. Come in Dead Island, nel gioco si può brandire una lunga lista di utensili e armi corpo a corpo: martelli, spade, pugnali, manganelli, machete, piedi di porco, chiavi inglesi e falci sono solo alcuni degli strumenti con cui far passare agli zombie la voglia di farsi uno spuntino. E come in Dead Island ciascuno di essi ha una durabilità che li rende soggetti a usura, fino a diventare inutilizzabili, aprendo alla necessità di ripararli o di trovarsi qualcos'altro. E sempre come nel cugino è previsto anche un sistema di crafting che permette di rinforzare un'arma e soprattutto modificarla, aggiungendole gustosi effetti secondari più o meno pronunciati a base di fuoco, elettricità, forza d'urto, lacerazione e contaminazione. Entrando in possesso dei relativi Progetti e degli ingredienti richiesti, con l'esplorazione o il commercio, ci si può davvero sbizzarrire mettendo a punto strumenti come la Penna Tossica, un manganello che avvelena i nemici, o il Conestabile, che lo rende in grado di fare l'elettroshock a più avversari contemporaneamente, o il Macellaio Pazzo, che trasforma un piccolo martello in un terrificante scarnificatore. Sviluppando il ramo Sopravvivenza e (in parte) quello della Forza ci si può affinare in questo artigianato del massacro, riuscendo a riparare e progettare i propri gingilli con più efficienza.
Per quanto ampio e variegato, tuttavia, questo è soltanto un aspetto della faccenda. Dying Light aggiunge al discorso combattimento una dimensione di lotta corpo a corpo che oltre da Mirror's Edge prende in prestito qualcosa dagli ultimi Far Cry per offrire un repertorio versatile e appagante. Crane può lanciarsi in velocità contro i nemici per farsi largo a spallate, sfondarli con un doppio calcio volante a piedi uniti o in scivolata, per cercare di spezzar loro le gambe. Si possono effettuare abbattimenti dall'alto, dritti sul cranio della vittima, meglio ancora dopo averla sfruttata come trampolino. E poi schivare, proiettare il nemico nella direzione desiderata, verso un muro, una trappola o il vuoto, e divincolarsi con sempre più sangue freddo e prontezza nel caso un morto vivente riesca ad avvinghiarlo. Svariate di queste mosse, poi, possono essere potenziale, aggiungendo una proprietà stordente, che apre le porte alla possibilità di praticare un'uccisione istantanea. È un sistema che nel complesso funziona e risponde bene, tanto in termini di controlli che di reazioni nemiche, fatta salve qualche collisione non proprio cristallina o alcuni casi di blackout dell'intelligenza artificiale. E nonostante alla lunga si riescano a individuare tecniche facilmente abusabili (tana per Placcaggio!) fa il suo dovere anche in fatto di sfida, visto che oltre a determinati paletti posti opportunamente di bilanciamento (come il consumo di Vigore) e progressione (lo sblocco di abilità), nel corso dell'avventura il cast di minacce viene rimpinguato adeguatamente. Zombie in tuta ignifuga, sputatori di veleno, obesi esplosivi, infanti che con le loro urla attirano rinforzi, energumeni armati di devastanti martelli ed energumeni ancora più massicci vanno via via ad affiancare l'armata di morti viventi di partenza, composta da camminatori e runner. Come la descrizione lascia intendere, non si tratta affatto di soluzioni originali, assomigliando a cose già viste in passato, anche in titoli Techland, talvolta con caratteri al limiti del plagio (il secondo tipo di energumeno carica a gran velocità e dalla distanza scaglia pezzi di terra e auto. Esatto, proprio come il Tank di Left 4 Dead), ma fanno davvero bene il loro lavoro. Specie quando vengono usati alla stregua di puzzle, come in certe missioni, in cui occorre ragionare in maniera rapida su come fronteggiare, ad esempio, tre sputatori piazzati tatticamente a disturbo mentre ce la si vede con due martellatori o uno zombie esplosivo sbuca a tradimento.
Il tutto è corroborato da un sistema di animazioni e impatti che, per quanto caratterizzati da leggerezze e inconsistente, si rivela viscerale e inebriante. In fase di preview pensavamo erroneamente che il tutto fosse limitato perlopiù a contusioni e impatti spaccaossa, ma nel gioco completo siamo entrati in possesso di strumenti tramite cui squartare, scarnificare e mutilare braccia, teste e gambe a volontà, sulla base, peraltro, di algoritmi di smembramento e sanguinamento di pregio. Una fonte di appagamento ancora più forte, tuttavia, è di un tipo che si tende a notare meno, ma che si fa sentire di più in termini di giocabilità: i corpi degli zombie e le armi brandite da alcuni di essi sono entità che collidono in maniera fisicamente-corretta con quelli degli altri, intralciandoli, sbilanciandoli e travolgendoli. È un discorso che risale alla notte dei tempi dell'applicazione di Havok a motori 3D, e probabilmente anche prima, ma che Techland non aveva ancora preso in considerazione, decidendosi finalmente a introdurre una serie di rapporti causa-effetto che oltre a dare vita a siparietti particolarmente goderecci non possono che fare bene a un contesto dove spesso e volentieri ci si deve preoccupare del crowd control, rendendolo più interattivo, dinamico e giocabile. Un apparato che consente di mixare uno stuolo di approcci, che si allargano considerando risorse accessorie come molotov, granate di vario tipo, coltelli da lancio e scudi balistici a cui è possibile aggiungere proprietà speciali. Ultima sulle armi da fuoco, che da un certo punto dell'avventura si possono usare anche con una certa frequenza e il cui ricorso, in certi casi, è proprio suggerito, come quando si affrontano squadre di predoni dall'intelligenza artificiale al più discreta ma dall'ottima mira di cui è davvero arduo avere la meglio facendoci a botte. Per quel che è la nostra esperienza con i diversi tipi di pistole, fucili d'assalto e la doppietta che abbiamo rivenuto, peraltro molto bene realizzati e in fatto di feedback audiovisivo e di meccanica di funzionamento (a patto di disattivare l'aiuto alla mira, come noi) non si tratta di nulla che sconvolge gli equilibri di Dying Light. Semplicemente, Dying Light in questi frangenti mostra un altro suo volto, senza smettere di avere una vis survival. Perché se è vero che in svariati casi si ci si può semplificare la vita, in tanti altri ce la si complica e basta, dato che il rumore attira le mostruosità come api sul miele. Ma questo, volendo, è un risvolto che si può usare anche a proprio vantaggio, come quando fa comodo aizzare un alveare impazzito su un presidio degli uomini di Rais...
Predatori e prede
Molte delle considerazioni fatte finora cambiano sensibilmente una volta che tramonta il sole. E tutte verso la medesima direzione: è peggio per il giocatore. Al calar delle tenebre, Harran diventa di un buio davvero impenetrabile, mentre è facile che diversi zombie vengano colti da un raptus che li trasforma in corridori, quelli speciali puntellano maggiormente le strade e, soprattutto, escono allo scoperto i Notturni, devastanti mutanti albini dotati di una spiccata velocità e di un pathfinding davvero ottimo, grazie a cui riescono a stare dietro a Crane, di una forza che permette loro di farlo rapidamente a brandelli e di una costituzione che li rende estremamente rognosi da abbattere.
Muoversi con la stessa disinvoltura che si ha di giorno è in linea teorica praticabile, ma spesso sconsigliatissimo. Per capire cosa si ha di fronte, tra le tenebre, occorre accendere la torcia elettrica, che assieme al rumore inevitabilmente provocato tende ad attirare attenzioni sgradite. Meglio allora procedere con circospezione, ricorrendo magari a una visione simile alla Modalità Ascolto di The Last of Us, con cui individuare i Notturni circostanti. Quale che sia lo scenario, l'impatto con la notte di Dying Light è una di quelle che cose che difficilmente si scordano in fretta, tanto è martellante la sensazione di panico e impotenza durante un inseguimento o asfissiante l'angoscia da cui ci si sente schiacciati, mentre si procede con pazienza stealth. È a questo proposito che emerge una componente che aggiunge a Dying Light un retrogusto tattico e gestionale, già apprezzabile di giorno ma che di notte diventa quantomai preziosa. Man mano che cresce nel ramo Sopravvivenza, Crane impara a predisporre trappole di vario tipo, che vanno da esche a sistemi per sbarazzarsi dei morti, attivabili poi premendo un tasto quando si è nelle loro vicinanze, con estremo agio, anche se si è nel pieno di un Calcio di Rimbalzo. E poi ci sono i rifugi, altro assist da Far Cry, avamposti che una volta ripuliti e ricollegati alla corrente elettrica possono fungere da base presso cui stipare oggetti, riposare per cambiare ora del giorno e ripartire in caso di morte. Rifugi che offrono anche una zona franca da eventuali inseguitori, spaventati dalla luce. Appare chiaro, dunque, che un modo di giocare accorto suggerisce di dedicare alcune delle fasi in diurna anche per "prepararsi" ad affrontare la notte. Quest'ultima, tra le altre cose, ha il merito di dimostrare l'accortezza di certe scelte di design, come il fatto che Notturni e corridori siano sensibili ai raggi ultravioletti mentre gli altri zombie no, buttando sul tavolo una serie di incastri e rimescolamenti di carte da tenere costantemente in considerazione.
A lungo
La notte, fra l'altro, è uno dei primi banchi in cui si saggia la flessibilità della formula di gioco, in grado di passare per tutte le sue dimensioni (esplorazione ad ampio respiro, funambolismo, combattimento, stealth e sfruttamento tattico di variabili sul campo) in maniera naturale, senza "rompersi". Certo, ci sono degli angoli ciechi, delle incertezze, degli aspetti che con un po' di furbizia si possono sfruttare, ma è una faccenda diversa, che non attiene a scelte progettuali, le quali tendono a preservare una malleabilità che si apprezza davvero molto nelle missioni. Dimenticatevi pure i mesti esempi di free roaming sandbox anche piuttosto celebrati, in cui level designer, mission designer e game designer non sembrano essersi parlati tra di loro o sembrano condividere tutti la stessa ignoranza verso i fondamentali di generi di cui si appropriano l'etichetta: qui non capitano missioni che vi invitano a tornare nella zona prefissata se vi permettete di credere a tutta la libertà strillata dall'ambiente che avete attorno o altre che vi ammanettano a un determinato profilo d'azione, anche se fino a due secondi prima vi si cantavano le lodi della giocabilità emergente.
Techland è portatrice sana dei valori di cui sopra e non pone alcuna paletto interpretativo che non sia giustificato dai fatti giocabili, a parte un paio di eccezioni, dove è inibito l'accesso a certe risorse per motivi imposti perlopiù dalla trama. Missioni che, anche se talvolta giustificate da presupposti non proprio irresistibili, specie durante le battute iniziali, in linea generale esplorano in maniera piuttosto pertinente un po' tutte le caratteristiche del gameplay, e anche del territorio, invitando a spingersi dalle vertigini delle antenne di comunicazione alle profondità del Laghetto Smeraldo, dal claustrofobico squallore di palazzoni popolari ai luminosi e immacolati locali del museo cittadino. A queste si affiancano uno stuolo di quest secondarie, spesse volte dagli obiettivi multipli e lo sviluppo "in divenire" che riservano molte sorprese. E poi incarichi proposti al volo, mentre si è in giro, dove capita di imbattersi anche in richieste di aiuto da parte di altri sopravvissuti o di farsi tentare dai rifornimenti aerei governativi, che possono atterrare in luoghi impervi e vanno recuperati con urgenza, pena il vederseli sottrarre da altri bisognosi. Completano il quadro sfide e mini-giochi di natura prettamente arcade, con tanto di classifiche online, incentrate sul parkour, la lotta, l'uso di armi secondarie, ma sopratutto le Zone di Quarantena, aree particolarmente ostiche in cui mettersi strenuamente alla prova, e la raccolta di collezionabili di vario genere (file, statuette, bandiere). Il salvataggio su cui abbiamo finito la Campagna, con una percentuale di completamento globale del 56%, un'Agilità portata a Livello 24, una Forza a 17 e una Sopravvivenza a 14, parla di 31 ore, 12 minuti e 22 secondi netti spesi ad Harran, spizzicando qua e là, con curiosità, per poi tendere a tirare dritto. Giungere a gustarsi tutto, per chi fosse mosso da particolare appetito potrebbe arrivare a richiedere anche il doppio del tempo. Un monte di contenuti che è possibile condividere dall'inizio a poco prima della fine in una modalità Cooperativa pensata particolarmente bene a livello strutturale. Innanzitutto nel momento in cui si raggiunge un amico il gioco ha premura di indicare tra eventuali salvataggi multipli qual è l'ideale per creare una partita il meno squilibrata possibile.
In secondo luogo, sono state implementate una serie di condizioni per fare in modo di non "bruciarsi" la Campagna una volta che si torna in singolo. Per vivacizzare le cose sono state inoltre introdotte delle Gare Cooperative, che vengono generate casualmente, proponendo delle brevi ma intense pillole di competitività. Tutto molto bello sulla carta, un po' meno nella pratica, dove spesso abbiamo riscontrato lag, disconnessioni e sovraccarichi troppo esosi sul lavoro della CPU, ben oltre i limiti di quelli che un host deve mettere solitamente in preventivo. Problemi di cui è ancora più afflitta, purtroppo, la modalità Come uno Zombi, che di per sé appare come un riuscito incrocio tra i Souls ed Evolve. Se lo si desidera, si può lasciare la propria partita aperta all'invasione di un altro giocatore che nei panni di un mostro farà piombare istantaneamente la notte (sebbene alleggerita dal carico di minacce che la caratterizzano) o mettersi alla ricerca di partite da invadere a propria volta. Scopo della creatura è difendere una serie di nidi dagli attacchi degli umani, che possono coalizzarsi fino in quattro per distruggerli, "round dopo round". Per quanto abbiamo provato, si tratta di un'aggiunta davvero gradevole che funziona bene tanto nella rivisitazione dei controlli e dell'interfaccia dedicata al mostro, tanto nella definizione delle sue caratteristiche, che lo rendono tanto agile e potente quanto contraddistinto da punti deboli che non sembrano lasciare spiragli evidenti a sbilanciamenti. A rendere la faccenda ulteriormente interessante e potenzialmente longeva ci pensa poi un albero di sviluppo dedicato, tramite cui fargli compiere un proprio percorso evolutivo.
Requisiti di Sistema PC
Configurazione di Prova
- Processore: Intel Core i5 2500K@4.4 GHz
- Scheda video: NVIDIA GeForce GTX 970 OC
- Memoria: 8 GB DDR3 1600MHz
- Sistema operativo: Windows 7 64 bit
Requisiti minimi
- Processore: Intel i5-2500/AMD FX-8320
- Scheda Video: GTX 560/Radeon HD 6870
- Memoria: 4 GB
- Spazio su disco: 40 GB
- Sistema operativo: Windows Vista 7/8 64 bit
Requisiti consigliati
- Processore: Intel Core i7-4670K/AMD FX-8350
- Scheda Video: GTX 780/Radeon 290
- Memoria: 8 GB
- Spazio su disco: 40 GB
- Sistema operativo: Windows 7/8 64 bit
Bello da morire, brutto da domare
Se non fosse per un carico poligonale di rilievo, alcuni ottimi tocchi come un sub-surface scattering molto curato (sebbene lontano dagli apici di Call of Duty: Advanced Warfare e Ryse: Son of Rome) e il ricorso ad halo, lens flare e altri algoritmi di alterazione dell'immagine tornati di moda non troppo tempo fa, il Chrome Engine 6 potrebbe essere scambiato per un ottimo motore PC del periodo 2007/2009. Molto dell'appeal di Dying Light è difatti basato su fascioni di luce volumetrica sparati a mille, talvolta con problemi prospettici, sull'agitarsi di un foliage che in realtà fa anche meno di quel che ci si dovrebbe aspettare nel post-Crysis e un dispiego di particellari ed elementi di fisica "morbida" poco o per nulla dinamici.
Questo non impedisce al gioco di vantare un gran bell'impatto generale e di farsi apprezzare spesso e volentieri anche nei dettagli. Il merito è chiaramente imputabile all'infinità di ore uomo che Techland deve aver spesso nella realizzazione del gioco, curandolo veramente parecchio. A piacere, in particolare, sono certe viste, che indipendentemente dai valori tecnici nudi e crudi e a dispetto di una fotografia di certo non di prima mano colpiscono veramente nel segno. E poi, senza dubbio, i modelli dei personaggi, solidi, ricchi e sovente ben animati, con una menzione doverosa per i volti, che risultano particolarmente credibili ed espressivi, anche se probabilmente alla loro base non c'è un motion capture all'ultimo grido, complice anche il fatto che al di là dei personaggi principali si è optato per un vasto campionario di facce qualsiasi anziché provare a darci a bere un universo popolato di soli attori e veline. E piace molto anche un'attenzione ai dettagli che, al netto di un comprensibilissimo riciclo di asset in cui capita di imbattersi qua e là, considerate le dimensioni delle aree di gioco si può definire maniacale. Completa la lista delle cose belle un comparto musicale con stile da vendere, che pur non disdegnando pezzi orchestrali, etnici e rock, in massima parte preferisce rifarsi a una tradizione elettronica anni '70 e '80 molto vicina alle colonne sonore delle pellicole di George Romero e John Carpenter. Note positive anche per il doppiaggio in italiano, di livello egregio, fatta eccezione per alcuni casi di scarsa corrispondenza tra personaggio e doppiatore e l'inevitabile riciclo di voci.
Poi però arrivano anche le noti dolenti. Rispetto a quanto provato in preview sono state introdotte delle opzioni sempre graditissime, come quella per regolarsi il Campo Visivo e quella per impostarsi la Distanza della Visuale. Tra i settaggi grafici è stata finalmente inclusa una non meglio specificata voce per l'Anti-Aliasing, che a giudicare dallo scarso scotto in performance e dall'altrettanta scarsa capacità di sanare le scalette con ogni probabilità è una soluzione in post-processing, e sono stati esplicitati quelli Nvidia, con il consueto ma sempre apprezzato HBAO+ e una Profondità di Campo che oltre a non sembrarci nulla di speciale azzoppa sensibilmente le prestazioni. Prestazioni che, a parità di condizioni, come temevamo non sono cambiate di una virgola. Rinunciando al DoF Nvidia e giocando a 1080p sulla nostra configurazione di prova durante le prime fasi abbiamo ottenuto attorno a 100 fotogrammi al secondo di media in interna e sui 60 di media indicativa in esterna, con cali sui 40 frame al secondo. In occorrenza di situazioni più gremite (come terribile il cavalcavia dove bisogna cercare la macchina fotografica di Fallon) abbiamo cominciato ad assistere a inchiodate verso i 30 frame, con pessimi fenomeni di stuttering. Una condizione che è diventata molto più frequente nella Città Vecchia, anche riducendo field of view e draw distance, arrivando a inficiare concretamente la giocabilità in ben più di un'occasione. Segnali di un codice che carica in maniera sbilanciata la CPU, generando colli di bottiglia molesti, come anche corroborato dai primi test comparsi sulla Rete, e riguardo cui non resta che sperare in qualche rimedio.
Conclusioni
Dying Light prende in prestito in maniera evidente tanto da Mirror's Edge che da Far Cry, ma ci mette anche tanto di Techland. Una Techland che sembra aver raggiunto la piena maturità, confezionando l'esperienza zombie nettamente più rifinita e meglio messa a fuoco tra le ormai parecchie partorite finora. Spassoso da giocare, bello da vedere, terrificante in notturna e a tratti anche molto coinvolgente da vivere, l'ultimo nato dalle parti di Breslavia è una delle cose migliori che affiancano le parole "survival" e "horror" che si possano trovare attualmente in circolazione. Peccato per alcuni problemi collaterali che a tratti ne rendono la fruizione davvero spinosa e problematica.
PRO
- Dualismo luce/buio riuscito
- Parkour e level design al top
- Combattimento elastico, viscerale e appagante
- Una montagna di cose da fare, da soli, in coop e in versus
CONTRO
- Disconnessioni, lag e malfunzionamenti, specie in competitiva
- Problemi di ottimizzazione