È evidente come ormai Sony sia entrata a pieno ritmo nell'operazione tie-in per buona parte dei suoi franchise videoludici più noti (e, a dirla tutta, anche meno noti). Abbiamo ancora bene in testa il successo e il grande apprezzamento relativo alla prima stagione di The Last of Us prodotta da HBO; proprio in questi giorni si celebrano gli inaspettati risultati della serie basata su Twisted Metal fresca di distribuzione su Peacock e, se guardiamo più indietro, non possiamo sicuramente dimenticare i primi timidi e non pienamente riusciti esperimenti con il lungometraggio di Ratchet & Clank e il film di Uncharted.
Potremmo quasi parlare di tie-in al contrario visto che ormai è più di un decennio che una tendenza storica del mercato degli anni 80 e 90 si è letteralmente invertita: se una volta erano infatti i videogiochi a cercare di sfruttare pellicole note per convertire alla "neonata" forma di intrattenimento gli spettatori sfruttando nomi altisonanti, è indubbio come in quest'ultimo periodo di carenza di idee e di spinte creative, siano proprio il cinema e la serialità in streaming a cercare di coinvolgere l'enorme pubblico potenziale che passa gran parte del suo tempo libero sul gaming.
E per far questo ecco sfruttare, purtroppo spesso in malo modo, i grandi nomi e i grandi marchi che hanno fatto la fortuna del videogioco, nel tentativo di travasare pubblico nelle sale o magari convincerlo ad abbonarsi per un mese extra al servizio in streaming del momento. Talvolta, bisogna riconoscerlo, i videogiochi si portano dietro delle grandi storie che vanno ben oltre il loro potenziale economico e poterle adattare all'intrattenimento lineare del cinema e delle serie consente loro di avere una seconda vita e persino di essere anche più apprezzabili e comprensibili da chi non è pronto a investire 25-30 ore per guardare l'epilogo di un racconto vissuto con il pad in mano.
Altre volte, sono gli eventi o i racconti che sono "dietro" al videogioco a rappresentare un valido spunto da portare sul grande e sul piccolo schermo approfittando del richiamo di un certo franchise per raccontare però qualcosa che è collaterale al prodotto. E questo è proprio il caso di Gran Turismo (che sul mercato italiano si è guadagnato anche l'atroce sottotitolo La storia di un sogno impossibile), nuova pellicola prodotta da Sony Pictures Entertainment e da PlayStation Productions dall'11 agosto proiettata nei cinema americani e in una selezione di territori europei, che arriverà invece in Italia soltanto a partire dal 20 settembre.
Un film che parla dell'omonimo racing game creato da Polyphony Digital e distribuito in esclusiva sulle console Sony fin dalla prima PlayStation, ma non sotto forma di documentario o biopic sulla sua software house o sul suo creatore, Kazunori Yamauchi, un po' come è successo ad esempio con il recente film di Tetris per Apple TV+ o con il racconto biografico dedicato a Hideo Kojima distribuito durante il Tribeca Film Festival, bensì portando in scena la parabola di un "semplice" videogiocatore che, partendo proprio dalle competizioni ufficiali, legate a GT si è potuto costruire una vita e un lavoro nelle competizioni di guida reali.
La trama di Gran Turismo
Gran Turismo racconta l'incredibile ingresso nel mondo delle corse automobilistiche reali di Jann Mardenborough, un ragazzo inglese che nel 2011, a 20 anni, riesce a qualificarsi nella GT Academy e successivamente a vincere le selezioni europee e da quel momento, senza avere la minima esperienza nelle competizioni disputate dal vivo, e quindi senza aver mai toccato prima d'ora una macchina in assetto da gara, inizia a mietere successi in una serie di tornei internazionali.
Ovviamente la pellicola esplora una serie di cliché del genere: il rapporto tormentato con il padre, la scoperta delle prime relazioni sentimentali, l'emarginazione dovuta alla diversa estrazione sociale e sportiva e tutto quello che potete facilmente immaginare, per consentire allo spettatore di legarsi emotivamente alla complessa e audace parabola di vita di Jann.
L'intero primo atto si focalizza sul tentativo di raccontare, con maestria, rapidità e una visione genuinamente e piacevolmente romanzata dei fatti reali, cosa è prima di tutto Gran Turismo, il gioco, e poi come funziona la GT Academy ed è probabilmente la parte più originale dell'intera opera sceneggiata da Jason Hall, Zach Baylin e Alex Tse e diretta da Neill Blomkamp, il regista alle spalle di opere fantascientifiche più o meno di successo come District 9, Humandroid ed Elysium. Proprio attraverso questo lungo incipit, entriamo in contatto con gli altri 2 co-protagonisti del film: Orlando Bloom il cui personaggio, Danny Moore, è vagamente ispirato all'ideatore originale della GT Academy, Darren Cox e David Harbour, ex corridore, ora meccanico specializzato negli assetti da competizione, nonché allenatore dei giocatori selezionati attraverso l'accademia, in primis Jann Mardenborough con cui andrà a creare ben presto il tipico rapporto di amore e odio che si può avere solo con il proprio mentore.
Tolto questo primo atto, la pellicola segue i binari abbastanza classici dei film sportivi dall'enfasi drammatica con l'immancabile fase di allenamento, i primi successi del protagonista contro tutti i pronostici e nonostante il suo passato da outsider, quindi il dramma inaspettato e la conseguente risalita dalla china con l'immancabile celebrazione finale. Non c'è nulla di davvero sorprendente o fuori dai canoni del genere ed è per questo che la parte relativa al racconto del gioco e dei suoi annessi e connessi è proprio quella che ci ha convinto maggiormente, pur con le dovute estremizzazioni fantasiose a cui immancabilmente si devono piegare i film che puntano alla massa.
Ci sono infatti evidenti problemi di continuity temporale, visto e considerato che le vicende raccontate dovrebbero appartenere al periodo che va dal 2011 al 2014 circa, ma tutto quello che vediamo di videoludico è praticamente aggiornato al giorno d'oggi e ci sono anche diverse licenze poetiche che gli sceneggiatori si sono presi per cercare di costruire suspense e drammi dove probabilmente non ce n'erano (su tutti il caso dell'incidente che ha generato una serie di discutibili polemiche in America), ma ciò che conta è la fluidità del film che, nelle sue 2 ore e poco più di durata, fila liscio che è un piacere.
La messa in scena
Fatte le doverose premesse sulla componente narrativa del film, ci focalizziamo ora sull'effettiva messa in scena e in particolare sugli elementi che ci hanno più o meno convinto dell'opera di Neill Blomkamp.
Tra l'altro partendo proprio dall'apporto del regista.
Ora, sappiamo tutti quanto Blomkamp sia stato a lungo considerato una sorta di astro nascente, di regista d'oro capace di portare sul grande schermo delle splendide idee con una visione particolarmente realistica e dura. Il suo esordio si è fortemente intrecciato con alcuni prodotti di fantascienza che sono sicuramente rimasti impressi nella memoria degli amanti del genere. District 9 fu letteralmente un fulmine a ciel sereno, ma purtroppo tutto quello che venne dopo non è mai riuscito a superare (in realtà neanche ad eguagliare) quel film. Di fondo Blomkamp è sempre rimasto agganciato alle sue radici proponendo molteplici interpretazioni di futuri più o meno imminenti e più o meno distopici, fino, per l'appunto, a Gran Turismo. E nonostante non abbia alimentato la sua carriera a pane e automobili, non si è tirato indietro davanti a questo progetto, almeno all'apparenza, non nelle sue corde.
E anche per questo ciò che avviene su schermo è ancora più sorprendente visto che proprio le sequenze di guida e alcune delle scene in pista sono davvero ben realizzate con ralenti non invasivi, un eccellente uso di droni e dolly, splendidi primi piani sui piloti e un po' tutto il corollario che ci si aspetta da un racing movie, fatte salve un paio di scene leggermente confusionarie in cui non è completamente chiaro quello che succede in pista. Allo stesso tempo però, non trattandosi di un film action irrealistico alla Fast & Furious, ma neanche alla 007 o Mission Impossible, tutto risulta appiattito verso il basso, verso lo standard, senza che ci siano mai dei reali guizzi. Blomkamp insomma mostra bene quello che c'è da mostrare, ma non lascia mai una firma o un qualche tratto distintivo e, onestamente, un po' ci dispiace considerato il suo passato e le prospettive di carriera che gli erano state affibbiate.
Lo stesso potremmo dirlo dell'interprete del protagonista, Archie Madekwe che, insieme a David Harbour, tengono in piedi praticamente l'intera pellicola con una buona interpretazione che non rischia mai di essere eccessivamente sopra le righe, ma risulta sempre precisa, calcolata e molto empatica. Esattamente all'opposto di Orlando Bloom che fin dai primissimi secondi del suo screen time è eccessivamente su di giri, diventando ben presto una caricatura del suo personaggio schiavo del marketing e in più di un'occasione, nei primi piani, sfiora l'overacting davvero fuori contesto.
C'è, infine, un altro elemento con cui bisogna prendere le misure prima di sedersi in poltrona per assistere allo spettacolo: Gran Turismo, un po' per la sua struttura, un po' per il racconto, un po' per la furbizia di Sony, è di fondo un enorme, rumoroso, corposo spot a tutta una lunga serie di marchi. E paradossalmente proprio GT è forse quello che passa più in secondo piano visto che l'Academy, a oggi, neanche esiste più, e soprattutto deve cedere il posto all'onnipresenza di Nissan, Fanatec, PlayStation, DualSense e compagnia cantante. Insomma il sogno impossibile di diventare piloti di auto sportive è ben alimentato, peccato soltanto che Nissan e Sony abbiano scelto insieme di interromperlo brutalmente più di sette anni fa.
Cos'è la GT Academy?
Nata nel 2008 grazie all'idea congiunta di Nissan e Kazunori Yamauchi, l'ideatore di Gran Turismo, la GT Academy si prefiggeva l'obiettivo di trovare i migliori talenti tra tutti i giocatori del titolo di Polyphony Digital per trasformarli in piloti professionisti nella vita reale.
Il concept di base era particolarmente semplice: attraverso una serie di gare in game, i migliori giocatori venivano selezionati per partecipare ad una serie di sfide reali che raggiungeva il suo apice con un programma di formazione particolarmente intenso. Il migliore pilota di questo programma guadagnava la possibilità di gareggiare come professionista nella scuderia Nissan.
A rendere davvero speciale la GT Academy, praticamente un unicum nel mondo dei videogiochi, era questa convinzione di fondo secondo cui le abilità acquisite in game potessero garantire delle competenze anche nella guida reale. E, in modo sorprendente, questo assunto si è effettivamente trasformato in realtà per svariati giocatori.
Lucas Ordoñez, il vincitore della prima edizione della GT Academy, ha ben rappresentato questa peculiarità di Gran Turismo ottenendo eccellenti risultati in tutta una serie di campionati automobilistici, tra cui la 24 Ore di Le Mans.
Esemplare anche il caso di Jann Mardenborough, su cui è basato il film Gran Turismo: terzo vincitore della GT Academy, nonché il più giovane, nella sua carriera ha corso nel Campionato Europeo di Formula 3, nella serie GP2 e in quella GP3. Ha partecipato anche alla 24 Ore di Le Mans posizionandosi al terzo posto al suo debutto nel 2013 e successivamente si è spostato in Giappone per correre nei campionati Super GT e Super Formula.
Nonostante l'innovazione e il successo mediatico, la GT Academy è stata a lungo criticata a causa del preconcetto persistente secondo cui nessun videogioco, per quanto simulativo, possa davvero preparare qualcuno alle difficoltà di una corsa reale.
Dopo essere diventata una parte integrante della cultura automobilistica, l'Academy ha smesso di esistere nel 2016, lasciando il posto alle GT World Series, un evento molto più in linea con le caratteristiche tipiche degli esport che persiste ancora oggi.
Conclusioni
Multiplayer.it
6.5
Gran Turismo è un film che scorre via rapido e fulmineo come le gare che racconta: ha un buon ritmo, dura il giusto e riesce a mantenere l'interesse del pubblico ben focalizzato sull'arco narrativo del protagonista con il suo percorso di crescita, i suoi drammi e le sue relazioni con i vari comprimari. Tuttavia non c'è mai un reale guizzo o quel qualcosa in più capace di elevare la pellicola al di sopra della decina di altri film di genere che si focalizzano sull'evoluzione sportiva di un personaggio, e da questo punto di vista la sensazione generale è che un po' tutti, tra cast tecnico e attoriale, si siano limitati a svolgere il compitino. Per quanto questo sia comunque ben riuscito. Non vi pentirete di averlo visto, questo comunque ve lo possiamo garantire, soprattutto quando arriverà immancabilmente su qualche piattaforma di streaming.
PRO
- Alcune scene di gara sono veramente ben fatte
- David Harbour e Archie Madekwe tengono su il film senza strafare
- Dura il giusto, il ritmo c'è, e cerca di affrancarsi dal target gaming
CONTRO
- Orlando Bloom è in fastidioso overacting
- Bisogna andare consapevoli del fatto che è un lunghissimo e intenso spot
- C'era una volta Neill Blomkamp, promettente regista di fantascienza